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Le strategie di contrasto alla pandemia Covid-19 applicate nel mondo si possono classificare in due grandi categorie. La prima, diffusa soprattutto negli Stati del Far East (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Australia, Nuova Zelanda), si impernia sull’uso della tecnologia digitale per monitorare con precisione (app con gps, tracciamenti delle carte di credito) i contatti degli individui raggiunti dal virus (rilevati con un impiego molto esteso di tamponi) e disporre misure mirate – quindi contenute – di distanza interpersonale: ciò permette di ridurre al minimo i limiti alla libertà di movimento delle persone e quindi alle attività produttive. La tecnologia soccorre la vita sociale, aiuta a mantenerla prossima a condizioni di normalità e contiene a livelli molto bassi i tassi di mortalità. 

La seconda strategia, che con accenti e modalità diverse coinvolge gli Stati dell’Europa e del Nordamerica, fa un uso minore della tecnologia e punta le sue chance su una generalizzata distanza interpersonale e sulla efficienza – molto variabile da nazione a nazione – del sistema sanitario. La restrizione degli scambi personali e quindi il prosciugamento della vita collettiva nella maggior parte delle democrazie di stampo occidentale produce almeno tre conseguenze di vasta portata: la ricomposizione del sistema produttivo che elimina sequenze operative e chiude attività; la riarticolazione dei rapporti sociali che espande la connessione digitale e minimizza la dimensione corporea; la rimodulazione dei consumi che migrano verso gli acquisti on line e le consegne a domicilio deprimendo la vitalità dei punti vendita che valorizzano l’attrattiva fisica delle merci.

Nell’attività produttiva non si perde soltanto contiguità fisica (smart working, interazione on line), accade qualcosa di più sottile e complesso: sono ripensati i processi di lavoro, avanza una capillare razionalizzazione tecnica che investe luoghi, processi, rapporti con l’esterno e dà vita a nuovi ordini operativi. Le sedi di lavoro sono ridimensionate, dismettono il ruolo di vetrina che fa immagine, svaniscono come luoghi elettivi per la scoperta di idee, invenzioni, strategie. Le procedure si conformano all’impianto digitale: alleggeriscono gli adempimenti, lasciano cadere protocolli fisici, enfatizzano i fattori di sicurezza. I rapporti con l’esterno (fornitori, partner, stakeholder) si formalizzano nella rigidità delle connessioni on line, perdono la flessibile immediatezza dello scambio individuale, complicano la dimensione progettuale (meno iniziative originali).

La vita sociale, che è il tratto costitutivo dell’esistenza umana, ha un’essenziale dimensione fisica: richiede contiguità, contatti, scambi tattili e visivi (da vicino). I rapporti tra persone sono – in primo luogo – rapporti tra corpi: la fiducia si forma nello sguardo, la cura si rivolge anzitutto al corpo, la condivisione (l’amicizia) si conferma nel contatto affettuoso. La prevenzione dal virus, che mette il massimo di distanza fra individui e ne riduce all’essenziale i contatti, non produce solo una restrizione quantitativa della vita sociale, genera anche una mutazione più insidiosa: trasforma la persona (il corpo) che sta di fronte da amico in pericolo, da promessa in potenziale danno. Ciò rovescia un presupposto essenziale della vita collettiva: il contatto non è più una premessa di iniziativa, l’innesco di un’azione che schiude sviluppi, diventa rischio – imprevisto da cui guardarsi. Si gonfia la paura che blocca il progetto, la vita corporale si chiude e si apre un agire smaterializzato, funzionale: diminuisce l’interazione, cala la creatività. Il tempo personale sgomberato dai contatti fisici è occupato da una duplice sequenza di azioni: dal lato individuale si estende l’operatività sostitutiva (acquisti on line, smart working, zoom) e si amplifica la ricerca in rete per rinvenire occasioni, novità, persone che nella vita prima del virus erano per lo più scoperte grazie all’esperienza, allo scambio sociale; dal lato delle piattaforme aumenta la mobilitazione, che chiama a espletare non solo le richieste provenienti dal mondo digitale (aggiornamenti, notifiche, call, questionari, richieste di partecipazione) ma anche gli inviti/ordini delle autorità di cui un numero svariato di app, quando si tratta di salute, diventa indispensabile tramite.

Nei consumi, che si riorganizzano per adattarsi alla distanza interpersonale, è penalizzato lo shopping che vive e prova la fisicità del prodotto: scompare o quasi l’accesso alla scenografia dei centri commerciali che fanno spettacolo con l’accumulo delle merci, nella gerarchia percettiva degli acquisti declina la dimensione tattile e si espande, via web, quella visiva. Viene esaltato invece, attraverso gli ordini on line, l’aspetto concettuale che valorizza la marca – sintesi di storia aziendale, promesse affidabili, rapporti consolidati con chi acquista – e le descrizioni tecniche che raggiungono picchi di dettaglio e precisione. Nei consumi che offrono sensazioni di vita – dal ristorante al teatro, dalla palestra al cinema – o si instaura una regressione (l’asporto è solo un lontano parente di quella cerimonia di vita condivisa che è la tavola comune) oppure si sperimentano nuove forme d’uso, dallo streaming agli esercizi fisici guidati via YouTube, che aumentano la gamma di scelta ma tolgono il contesto (comunità) ambientale.

Restrizione fisica e rivoluzione digitale

Emergono, nella strategia occidentale della restrizione personale, tre costanti solide e durevoli soprattutto perché amplificano tendenze già sviluppate con forza dalla rivoluzione digitale. La prima costante è il passaggio a un regime digitale quasi completo. Ne sono protagoniste le piattaforme, che permettono di svolgere una gamma sempre più estesa di azioni sociali in assenza di contatto fisico: ubique e indispensabili, sono il motore della nuova vita collettiva. Surrogano quel che è impedito e divulgano i nuovi codici d’azione, dalla spesa fatta su cataloghi digitali ai contenuti di spettacolo su device personali (streaming); potenziano le attività finanziarie che erodono spazio a quelle industriali; rimodellano la sanità avviata a tramutarsi in sterminato repertorio di dati in flusso che accelerano la ricerca, monitorano in continuità i soggetti e in prospettiva deconcentrano i luoghi di cura (operazioni a distanza, presidi digitali). In ciò non solo cambia la forma delle azioni sociali, il modo in cui sono svolte: se ne modifica la gerarchia nel mondo collettivo e l’efficacia operativa. Ciò vale nella vita aziendale, riorganizzata dallo smart working, come nella vita personale, ricostruita dagli appuntamenti on line, o nei consumi dove l’attrattiva del catalogo o la prontezza della consegna a domicilio ridefiniscono le graduatorie competitive. 

Tuttavia l’ascesa a perno operativo, quasi totalizzante, della società dematerializzata si compie nel modo più significativo quando le piattaforme diventano istituzione. Ciò avviene anzitutto nel momento in cui i governi delegano loro funzioni sanitarie essenziali, in primo luogo nel tracking (fattore essenziale del successo nel Far East), o adempimenti cruciali della vita amministrativa, dai click day allo spid. Ma si rivela con rilievo ancora maggiore quando di propria iniziativa perfezionano quella condizione di infrastruttura della comunicazione ormai ineludibile assumendosi, come requisito quasi naturale, una funzione di censura che è eccezionale ed eminentemente pubblica: hate speech e, più in generale, testi ritenuti offensivi per qualche (privilegiata) categoria sociale sono i motivi scatenanti. In ciò la piattaforma si fa Stato: ne assume funzioni tipiche (oltre a quelle delegate dalle amministrazioni testa la possibilità di gestire moneta digitale), espande la sua figura di autonomia istituzionale (Facebook e Google costituiscono giurisdizioni interne che dirimono controversie con gli utenti bypassando la più lunga e complessa procedura pubblica), affronta business di frontiera, come l’esplorazione spaziale, in collaborazione e competizione con le agenzie pubbliche.

La commodity cognitiva

La seconda costante è l’enorme aumento delle informazioni che affluiscono alle piattaforme: più attività, più soggetti, più consumi che vivono on line, più device utilizzati – come ausilio e compensazione – implicano più registrazioni e quindi più dati disponibili. Si tratta di un processo che avviene su enorme scala e si accompagna al dilatarsi, pressoché giornaliero, del numero di oggetti che emettono cognizioni: codici a barre, sistemi di sorveglianza, congegni domestici e contatori di rete (in generale internet of things), self driving car, rilevatori della condizione fisica personale, satelliti dei più vari tipi, strumenti bellici. Si procede a grande velocità verso un mondo dove quasi tutti gli oggetti, anche i più umili, sono collegati in rete. La crescente massa di dati che proviene dalle comuni operazioni della vita quotidiana instaura una differenza significativa tra le conoscenze: una larga parte prende la forma in commodity, dato primario che ha vita solo in quanto può essere combinato in strutture complesse: numeri che provengono da oggetti, fatti registrati, dichiarazioni comprovate. Nella storia non era mai esistita una così vasta quota di conoscenza grezza che necessita di un lavoro di connessione (generalizzante) per essere fertilizzata. La commodity cognitiva è facile da standardizzare, spesso agevole da reperire – materia prima pronta all’uso. Associata alla potenza di calcolo, attiva costruzioni di eccezionale complessità, dall’ingegneria genetica alla ricerca fisica o astronomica, che segnano progressi straordinari nell’accumulo di sapere. In questo sviluppo hanno un ruolo fondamentale gli algoritmi di combinazione e scoperta, uno dei fattori di potenza del futuro: per mettere a frutto gli sterminati giacimenti di commodity cognitiva occorrono chiavi di correlazione che nella moltitudine dei dati stabiliscano intersezioni, vedano link imprevisti e infine dai nessi trovati costruiscano mondi. Come la prima parte del millennio è stata dominata dagli ambienti cognitivi formati dagli operatori di rotte, gli Over the Top stile Google e Facebook, così è probabile che i protagonisti della prossima ondata innovativa siano gli algoritmi che generano cluster e danno propulsione alle attività di frontiera alimentate da grandi masse di dati. L’incrocio con l’intelligenza artificiale, che ormai costituisce in autonomia le proprie traiettorie di apprendimento, sarà in ciò determinante.

La terza costante è la sicurezza, oggi sempre più tema fondante. La distanza interpersonale è una misura di sicurezza: la vita sociale è ristretta e rimodellata per tutelare la vita fisica dal virus. Di fatto, se il contrasto alla pandemia non è in grado di fondarsi sulla protezione tecnologica, la vita ruota giocoforza sulla distanza di sicurezza: la mobilità dell’agire è sostituita da una stabilità metrica: meno accade, più si è sicuri. In ciò è la radice del vissuto di oggi: l’iniziativa che si perde, la paura che si dilata. Gli strumenti digitali moltiplicano gli usi proprio perché, essendo sintesi della distanza, creano sicurezza. A propria volta, poi, in quanto assi portanti della vita collettiva, sempre più diventano bersagli sensibili per concorrenti, potenze ostili, hacker. La dinamica ha un marcato tratto politico e si concentra sugli apparati delle telecomunicazioni: le componenti della sfera digitale entrano da protagoniste nello scontro delle potenze e ricevono una tutela di attenta ravvicinata minuzia.

Le tre costanti della riorganizzazione sociale attuata per contrastare il virus ripetono – con modifiche – le tendenze cruciali che muovono la rivoluzione digitale: le due grandi mutazioni che contraddistinguono la parte iniziale del XXI secolo mostrano una profonda omologia strutturale. La ragione è semplice: il loro congegno originario è lo stesso, anche se la successiva declinazione operativa è molto diversa. La rivoluzione digitale crea ambiti cognitivi artificiali nei quali si compie un gran numero di azioni dai potenti effetti bypassando la presenza fisica diretta. In quanto svolgono operazioni mentali che moltiplicano la circolazione delle conoscenze, le macchine rendono consueti usi sociali altrimenti impensabili: l’azzeramento della distanza, lo sviluppo di eventi da remoto, la svolta immateriale dei consumi. In questi processi appare evidente la continuità tra le due mutazioni: l’emergenza sanitaria intensifica l’uso di applicazioni e device, accentua la dematerializzazione avviata dalla rivoluzione digitale, coinvolge sempre più la popolazione negli ambienti artificiali che ne sono la marca distintiva. Di fatto è un acceleratore del salto digitale, ne porta all’estremo la visione tecnologica e l’impianto operativo. L’omologia strutturale esplica in ciò il suo effetto. 

Ma è profonda anche la discontinuità. La rivoluzione digitale è incrementale, accresce la razionalità del sistema: consente di migliorare l’efficienza dei processi esistenti (meno operazioni, meno vincoli, risparmio di tempi), estende la capacità di iniziativa individuale, non deprime l’ambito degli scambi fisici e nel complesso aggiunge nuove possibilità d’azione. Il contrasto al virus, invece, è restrittivo: leva interazione, contingenta gli impulsi individuali e disciplina la tecnologia come (parziale) surrogato di quel che è tolto.

Il potere politico si verticalizza

La discontinuità incide sulla vita politica. Due effetti hanno speciale rilievo: la verticalizzazione del comando politico; il rafforzamento delle istituzioni nazionali che in scia accentuano il ripiegarsi della globalizzazione. Quanto al primo effetto, la restrizione dei contatti fisici mette in stallo, imbriglia lo spontaneo funzionamento della macchina sociale – e del resto è fatta proprio a questo scopo. Al posto dell’interazione impedita si colloca, con l’ausilio delle piattaforme digitali, un’interazione disegnata secondo un piano e indirizzata in base a comandi. Il vertice politico conquista in ciò nuovi territori, il comando si concentra nel momento in cui si estende, gli assetti costituzionali entrano in tensione. La crescita del potere verticale varia molto secondo le condizioni politiche nazionali. In generale Stati deboli, segnati da scontri istituzionali, verticalizzano di più: i loro disegni sono fragili, l’ordine sistemico è più difficile da tenere e quindi il comando è spinto a concentrarsi.

Il rafforzamento della dimensione nazionale – il secondo effetto della discontinuità – ha una dinamica complessa. L’emergenza sanitaria ha scala mondiale e quindi incentiva, in linea di principio, il coordinamento internazionale (cui ambiscono molti degli organismi sovranazionali creati e potenziati nell’ultimo trentennio). Tuttavia la restrizione dei comportamenti richiede, come s’è visto, un comando politico la cui ragione si fonda nelle istituzioni nazionali: il vertice che prende decisioni per limitare l’interazione è riconosciuto dai cittadini attraverso strumenti – il voto nelle democrazie, la leadership personale nei regimi autoritari, la violenza militare nelle dittature – che si radicano nello Stato. La cittadinanza fonda il comando ed entrambi sono delimitati – quindi istituiti – dai confini. Senza i confini manca lo Stato, senza lo Stato cessa l’adesione riconosciuta dei cittadini e si disperde il comando.

L’emergenza sanitaria, che rafforza il comando nazionale e mette in primo piano i temi di sicurezza, accelera, sia pure in modi contraddittori, il regresso del moto globalizzante che da almeno un lustro, dopo aver segnato la fase iniziale del secolo, arretra e si scompone. L’Occidente delle democrazie ha tratto dall’espansione globale, oltre a diffusi vantaggi, molti disagi. Sul piano economico le delocalizzazioni verso Stati emergenti dotati di un’efficiente manodopera hanno razionalizzato catene operative e migliorato bilanci, ma hanno messo fuori gioco un buon numero di produzioni e lavoratori. Con un solo movimento le democrazie hanno importato scontri sociali, acuiti da disaffezione politica, e fatto piovere sulle economie a rapido sviluppo, grazie all’accelerato training gestionale indotto dai trasferimenti produttivi, forti incrementi della capacità competitiva. La reazione, avviata a metà anni ‘10 su impulso politico, riporta in patria produzioni delocalizzate e interrompe o ridimensiona molte di quelle catene operative che hanno formato il tessuto connettivo della globalizzazione. Sul piano politico il conflitto tra Stati Uniti e Cina, esploso quando Xi Jinping lancia la sua sfida per il primato mondiale, scardina quell’ordine favorevole ai commerci che l’accordo implicito e sintonico fra le due grandi potenze propiziava, accende l’attenzione sul concetto sbilanciato di cooperazione economica vigente a Pechino (proprietà intellettuale, aiuti di Stato, controllo di partito sulle imprese che operano all’estero), rallenta scambi e integrazioni produttive (scontri sui dazi), intralcia l’abitudine a strategie cooperative innescando cambi di linea e di alleanze: in molti Stati prevale una interpretazione dell’interesse nazionale più autocentrata e aggressiva. I temi della sicurezza esaltano la tendenza: bloccare interferenze provenienti da attori esterni non amichevoli diventa un motivo cruciale. Le aree di preoccupazione più rilevanti sono due. La prima riguarda l’accessibilità delle infrastrutture digitali che, mentre si ratificano indispensabili nella vita collettiva, diventano sempre più complesse, composite, delicate: l’attenzione si acuisce già prima della pandemia (Huawei) ma si trasforma in drammatico timore quando le applicazioni digitali cominciano a supplire l’interazione fisica. La seconda preoccupazione – ed è motivo di importanza vitale – si concentra sul controllo degli approvvigionamenti sanitari, sulla loro messa al riparo da condizionamenti di qualsivoglia tipo.

L’egemonia solidarista e la minaccia alla libertà d’espressione

C’è tuttavia un moto in controtendenza sul piano globale: è la formazione di un potente sistema ideologico che da tempo si espande in modo capillare nelle democrazie occidentali e ha trovato nell’emergenza sanitaria spinta espansiva e motivazioni aggiuntive. La base concettuale è l’ascesa dell’idea di illimitata realizzazione individuale – che prende forma tra il ’68 e i competitivi anni ’80 – a basilare valore collettivo (declinato in modi sempre più radicali). Vi è in questo sistema di pensiero un gruppo significativo di caratteri culturali che lo differenzia da gran parte delle ideologie politiche apparse finora e lo sospinge verso un’egemonia globale. 

Il primo tratto peculiare è l’impianto composito che nasce dalla stratificazione, in corso da almeno un trentennio, di issue diverse, ciascuna focalizzata su temi speciali d’interesse: l’ecologia che da speculazione intellettuale del Club di Roma (anni ’70) e agitazione politica di al Gore (anni ’90) si drammatizza come impellente allarme per la sopravvivenza delle future generazioni; la libera circolazione degli individui, che tematizza i danni posti dai confini;la tutela dei diritti personali la cui lista non cessa di estendersi; la protezione da azioni, parole, sentimenti (hate speech) che possano ledere la sensibilità soprattutto di chi nella storia ha patito (il criterio è volutamente vago e iper esteso.

Il secondo tratto è il ruolo trainante dei grandi media a raggio internazionale (esempio tipico: New York Times) e dei giganti del web i quali svolgono una duplice funzione. In primo luogo integrano temi in principio sconnessi fra loro basandosi sull’idea – via via perfezionata – che l’individuo ha titolo per espandere senza intralci il proprio sentimento di vita. I progressi tecnici, dalla medicina alla strumentazione digitale, sono essenziali in quanto permettono di superare i limiti che finora hanno trattenuto o bloccato la piena realizzazione individuale. In questa visione domina un impianto personale autocentrato, quasi un tratto egoista, ma a compenso emerge un’ispirazione universalista: i sentimenti che si autorealizzano hanno tutti pari dignità, anche quelli più distanti dalla tradizione dell’Occidente e più corrosivi per la sua eredità culturale. Il tratto universalista evolve in solidarismo e con il tempo assume come elemento primario la difesa – colorata rapidamente in termini di revanche – di etnie, nazioni, gruppi sociali che hanno patito sconfitte. La seconda funzione è la capacità di dare alla figura dell’individuo solidale e cosmopolita che si espande senza limiti una credibilità mondiale, un’attraente coerenza che supera le peculiarità nazionali: ciò alla fine costituisce una massa d’urto che è essenziale per l’ascesa a una egemonia capace di indirizzare la politica.

Il terzo fattore caratteristico dell’ideologia globale è la forte carica espansiva sul piano sia dei contenuti sia delle pretese di status. I contenuti sono in continuo allargamento: la cronaca documenta quasi ogni giorno nuovi gruppi da tutelare, nuovi misfatti storici da risarcire, nuovi temi – soprattutto nell’ambito della vita sessuale – da legittimare. Ma più rilevante è l’espansione delle pretese. Nella fase iniziale, soprattutto quando le issue sono separate, l’ideologia del sentimento individuale che si realizza senza limiti è un’opzione (forte) fra le altre, una richiesta di rispetto che chiede ma non impone consenso; nel tempo,però, da opzione diventa norma: poiché tutela la dignità personale e ripara da offese che creano grande dolore, non può essere pareggiata, in un dibattito di opinioni ad armi pari, ad altre scelte (che non hanno uguale urgenza morale). Il punto di svolta è forse nel 2013 quando su Facebook esplode la questione dell’hate speech: il principio della libertà di espressione, cardine della democrazia occidentale, è svalutato e posto in subordine al principio dello sgombero dal discorso pubblico di ogni potenziale elemento offensivo. La libertà d’espressione è un principio funzionale che garantisce lo scontro delle opinioni essenziale per alimentare le scelte degli elettori. Lo sgombero del potenziale offensivo è un principio morale che mobilita volti e storie – materia elettiva dei media – e in un tempo di regresso della politica (e delle sue condizioni di funzionamento) trova facile sopravvento. Facebook e i giganti del web spingono il tema, gli forniscono grande copertura d’immagine e già a metà decennio consolidano – con evidente incremento di potere – la propria funzione di censura. Lo schema, che drammatizza in chiave di racconto edificante sequenze di eventi o storie personali, si ripete nel 2017 (Me too) e nel 2018 (Greta) elevando i temi sottostanti a ineludibile impegno civile. In questo arco di tempo l’egemonia massimizza il suo effetto e si tramuta da forma dominante del pensiero pubblico nell’unica visione accettabile in termini di civiltà entro il perimetro delle democrazie occidentali. Chi la nega perde i titoli per avere accesso paritario e rispettato al discorso pubblico: i media mainstream hanno addirittura tolto più volte la parola al Presidente degli Stati Uniti. Poche volte un’ideologia ha in tempo così breve raggiunto una copertura così ampia (semiglobale) e profonda.

Ultimo tratto qualificante: l’ideologia oggi dominante, a differenza degli esempi elaborati nel passato, manca di una dimensione economica e politica: l’elemento morale assorbe per intero il campo. In ciò il suo individualismo cosmopolita la rende perfettamente integrabile sia con l’attitudine senza confini del mondo finanziario sia con gli obblighi restrittivi imposti dai governi e stabilmente giustificati con il motivo della tutela personale. 

Si intravvedono alcuni punti fermi. Quando il virus sarà sotto controllo, molte società occidentali avranno introiettato e reso consueta – quindi irreversibile – quella razionalizzazione, già innescata dalla rivoluzione digitale, di attività e relazioni che ha permesso di sopravvivere alla restrizione fisica tagliando ridondanze e decorsi superflui. L’era analogica ha accelerato, con l’emergenza, la riduzione allo status di residuo storico (un pò come l’opera o la cravatta): vetrina, memoria, divagazione, vintage. Ciò significa una rottura forte dentro la società: una parte brucia i tempi, si proietta verso un’innovazione dagli esiti drammatici, la parte restante rimane attaccata al tempo analogico, non metabolizza i vantaggi del nuovo corso e finisce a vivere da freno. La parte che accelera è quella che sfrutta l’enorme potenziale cognitivo creato con gran rapidità, anche grazie all’emergenza, sia sul versante degli ambienti immateriali, tramite e repertorio (la forza delle registrazioni) per qualunque sequenza di vita, sia sul versante che domina – attraverso gli algoritmi costruttori di significati – la commodity cognitiva.

Anche il potere politico verticalizzato, che ha chance di durare sia per vantaggio intrinseco sia per i riflessi trasmessi ai principali Stati dal conflitto Usa/Cina, potrà farlo in alleanza con i padroni di piattaforme, dati e algoritmi che forniscono gli strumenti necessari per governare la complessità dei settori oggi cruciali: economie di frontiera (spazio anzitutto), sicurezza, tecnologia bellica, rapporti efficaci e celeri con i cittadini. La forma dell’alleanza ha, come si vede ora negli Usa, tratti conflittuali, ma ciò in definitiva può rafforzare la relazione e avvicinare il risultato finale di un controllo dominante all’interno e di una maggiore efficacia competitiva all’esterno. Alla fine gli Stati verticalizzati più forti giocano una partita di potenza separata, com’è tradizione nella storia politica, ma con una preminenza ancora più netta a causa della capacità discriminante che offre l’accelerazione tecnologica. Tuttavia anche in quest’ambito di massima potenza la scomposizione sociale, indotta dall’accelerazione tecnologica, agisce con forza:l’amministrazione pubblica non sempre segue compatta, ha difficoltà a ribaltare gli schemi analogici: la divisione corre entro il corpo dello Stato. 

Nell’economia i settori di frontiera hanno la forza di globalizzare e mantengono una dimensione operativa a larghissimo spettro: nei casi politicamente più complessi, come le telecomunicazioni, regionalizzano (Internet suddiviso per due o per tre). I settori restanti subiscono invece il ripiegamento degli scambi globali, accentuato dai sempre più rilevanti problemi di sicurezza. Nella vita sociale i gruppi debilitati dall’emergenza saranno spinti sempre più margini anche perché contengono categorie (anziani; lavoratori, inclusi quelli intellettuali, non specializzati; giovani poco qualificati) che hanno disagio a operare nell’ambiente, mobile e ipercompetitivo, del digitale accelerato. 

La stessa costruzione del nuovo pensiero egemonico, che appare l’evento culturale più potente degli ultimi anni (di fatto sembra il fattore decisivo nella vittoria alle presidenziali americane di novembre), potrebbe dare vita a una diffusa antitesi culturale nel momento in cui la resistenza politica e sociale, che si avverte nel cuore di larga parte della popolazione occidentale, riesca a integrare l’attuale stato pratico (vissuto) con una figura riflessiva strutturata.