Indirizzo alla Conferenza degli ambasciatori
Roma, 27 luglio 2004
1. L’interesse nazionale
Una conferenza degli ambasciatori d’Italia in Europa e nel mondo è un’occasione di riflessione e di analisi per parlare del ruolo dell’Italia in Europa nel mondo. La colgo volentieri, soffermandomi su tre punti, convinto come sono che la politica estera non può essere una questione essoterica da trattare solo fra professionisti quali voi siete. Essa coinvolge le istituzioni a vario titolo e deve coinvolgere tutta l’opinione pubblica, da quella colta e informata a quella comune.
Non potrebbe essere diversamente. Primo, perché senza questo coinvolgimento si crea un fossato fra le decisioni dei competenti e la pubblica opinione. Secondo, perché la politica estera di un paese ha il suo centro nell’interesse nazionale o strategico, e tutto ciò richiede discussione e consapevolezza.
Questo convincimento mi ha mosso fin dall’inizio della mia presidenza e, a tre anni di distanza, posso dire con soddisfazione che il Senato, oltre al suo normale contributo legislativo e di dibattito, e agli incontri in Italia e all’estero, ha creato molte occasioni di analisi e di studio della politica europea e estera. Ricordo tre volumi, agili e belli, nati da altrettanti convegni, sulla globalizzazione, sull’identità dell’Europa e sulle sue radici cristiane. Ricordo discussioni e dibattiti a proposito di libri su Israele e sull’antisemitismo. E ricordo le conferenze che abbiamo organizzato con personalità internazionali del valore di Kissinger, Havel, Giscard d’Estaing, Kohl, Geremek, Pithard, Cheney, Sharansky, Sorour. Di recente, abbiamo ascoltato una coraggiosa e penetrante conferenza del cardinale Ratzinger sull’Europa, e sono lieto di anticipare che, dopo la pausa estiva, hanno accolto il nostro invito il Presidente Musharraf e il ministro degli esteri turco Gul. Tanta attività si spiega solo sul presupposto che la cultura politica non può essere scissa dalla decisione politica. Per questo auspico anche qualcosa di ulteriore: un confronto continuo fra professionisti della politica estera e quei think thank che fuori d’Italia sono un serbatoio prezioso di analisi e in Italia invece stentano purtroppo a decollare.
2. La coesione nazionale e la stabilità politica
Prima dei punti, una premessa, di cui traggo lo spunto dalla lettura dei contributi preparati da alcuni di voi in vista della Conferenza. Lì si fa riferimento ai benefici che alla nostra immagine del mondo deriverebbero da una maggiore coesione nazionale. Ne convengo pienamente. Nella nostra politica estera fa fatica ad entrare, quasi se ne avesse timore, il concetto di “interesse nazionale”, e ciò non la rende condivisa come dovrebbe. È normale che esistano visioni politiche differenti sui grandi temi internazionali. È così in tutti i grandi paesi d’Europa (fra europeisti e eurocritici, tra filoamericani e antiamericani, tra filopalestinesi e filo israeliani). Dove però la decisione finale che porta a sintesi tali divisioni attraverso atti di governo traduce sempre l’interesse nazionale e strategico. Da noi, invece, essa resta invischiata da polemiche che sono spesso frutto di ideologie tramandate o di schieramenti precostituiti.
C’è poi un altro fattore da considerare, quello della stabilità politica e di governo. Nessun beneficio, non solo all’immagine, ma al suo peso politico e economico, può venire all’Italia se essa, mentre è impegnata a conseguirlo, torna, anzi ritorna, ad una di quelle stagioni di fibrillazione politica che ci avevano visti come deuteragonisti accomodanti ma non come protagonisti consapevoli. Come può essere ritenuto affidabile un paese se esso è politicamente instabile? Quale ruolo può pretendere se la sua azione estera e i suoi attori possono essere messi a repentaglio da quelle che, con linguaggio intraducibile nelle lingue vive occidentali, vengono da noi chiamate “verifica”, “riequilibrio”, “riassetto”? Superare questo antico linguaggio, i poco gradevoli concetti che connota e l’ancor meno edificante pratica che denota, è anch’esso un modo per tutelare l’interesse nazionale.
3. L’Occidente in contropiede
E ora i punti. Il primo, come lo chiamo, è l’Occidente in contropiede.
Alla caduta del muro di Berlino, il mondo che aveva vinto la guerra fredda viveva qualcosa di simile al ballo excelsior di fine Ottocento. L’America celebrava il suo trionfo e le sue nuove opportunità, l’Europa la sua riunificazione, la democrazia la sua espansione, il mercato la sua globalizzazione. Caduto un muro, si pensò, cadranno tutti i muri. E allargato il novero delle democrazie, si pensò ancora, arriverà la fine della storia. Andò, come è noto, diversamente. Dalla fine della guerra fredda su un fronte si è passati all’inizio della guerra guerreggiata su altri. I nuovi conflitti, non più ideologici, sono di tipo etnico, religioso, culturale. Come aveva previsto uno studioso serio di cui si è più esorcizzato il titolo di un saggio che letto il suo contenuto, i rischi oggi sono quelli di uno scontro tra civiltà. Non essendovi preparato, l’Occidente è stato preso in contropiede: mentre progettava azioni di espansione, esso è diventato il bersaglio di attacchi terroristici.
Il problema oggi è: questo Occidente, ha la consapevolezza dei rischi che corre? Ha la coscienza che il terrorismo islamico non è un fenomeno circoscritto a pochi gruppi in poche zone, ma una minaccia che rischia di far esplodere il mondo, a cominciare da quello arabo che vuole un rapporto positivo con l’Occidente? La mia risposta è: questo Occidente ne ha coscienza assai scarsa.
Affetto da relativismo culturale, da pacifismo irresponsabile, da multiculturalismo malinteso – e malinteso perché inteso all’insegna della tolleranza passiva e non dell’integrazione attiva -, da incertezza sui suoi stessi princìpi e valori, dal timore dei costi per difenderli, l’Occidente oggi – soprattutto l’Occidente europeo – si condanna a subire l’iniziativa di chi vuole combatterlo. Le divisioni sulla guerra in Iraq e alcune perplessità sull’iniziativa per il grande Medio Oriente ne sono un esempio.
Non si tratta, nel primo caso, di adottare una teoria da guerra preventiva e cieca tipo dottor Stranamore. Si tratta, piuttosto, di valutare i costi dell’inerzia politica, diplomatica, anche militare, a fronte del rischio dell’instabilità e di conflitti ben più pericolosi domani (non è certo la prima volta che la storia presenta tale alternativa!). E non si tratta, nel secondo caso, di imporre colonialisticamente o imperialisticamente a paesi arabi e islamici istituzioni, modelli e costumi occidentali; si tratta, invece, di sapere se l’Occidente, credente nella libertà e nella democrazia, non debba chiedere a quei paesi di essere aiutati a fare quelle riforme di libertà e democrazia senza le quali i diritti umani non si rispettano, i cittadini non si emancipano, le società civili non crescono e perciò le chance di pace non aumentano. Dopotutto, nelle molte polemiche che si sono udite, più volte è risuonata la parola di Kant. Lo si rilegga davvero, quel grande e ottimista ma disincantato pensatore, per capire quali sono le condizioni necessarie per almeno tentare una pace perpetua.
4. L’Europa in declino
Dopo l’Occidente in contropiede, il mio secondo punto è l’Europa in declino. Come nel caso del libro di Huntington, si è gridato allo scandalo per il libro di Kagan su Venere e Marte. L’analisi di quest’altro autore era impietosa, lo ammetto, e poco gratificante. Ma dove era ingenerosa? Dove sbagliata? Abbiamo forse un’Europa strong but light, come la auspicai nel mio primo intervento che vi dedicai tre anni fa? Cioè, forte sulla politica estera, della sicurezza, della giustizia, e leggera, meno burocratica e meno invadente, per tutto il resto?
Temo di no. L’Europa è incerta. Non ha ancora maturato la volontà di essere un’unità identitaria, come mostrano le desolanti polemiche sulle sue radici cristiane. Non ha ancora posto le basi per essere un’area geopolitica, come mostrano le divergenze sull’ingresso nell’Unione della Turchia. Ha talvolta velleità di essere un contrappeso dell’America, ma, al dunque, non sa dotarsi della forza necessaria per diventarlo e soprattutto non vuole pagarne il prezzo. Ecco perché l’Europa rischia il declino: perché, in mezzo a tanta incertezza, l’Europa potrebbe diventare irrilevante. Chiamata alla guerra in Iraq, si è divisa e una parte cospicua ha detto no; chiamata alla ricostruzione e alla sicurezza nel dopoguerra, esita e tenta di defilarsi; chiamata a lottare contro il terrorismo, ha difficoltà a definire con certezza chi è terrorista e chi no; chiamata a contribuire all’iniziativa del Grande Medio Oriente, ha detto sì ma con molti distinguo; chiamata a difendere la propria civiltà, ha ritirato le truppe; chiamata a trovare una politica comune contro l’immigrazione clandestina, appare timida. Come stupirsi se, alla fine, chiamata alle urne, abbia disertato in massa?
Il Trattato costituzionale europeo è meno di quanto speravamo, anche se è stato positivo averlo firmato prima che si manifestassero i rischi di paralisi del processo di integrazione. E c’è da augurarsi, e da lavorare, affinché dietro le richieste di ratifica per referendum non si nasconda alcuna astuzia da giocare sull’altare di un’Europa di qualche direttorio. Così come c’è da augurarsi, e da lavorare, affinché non si persegua la ricerca di un’identità europea alternativa – o peggio antagonista – a quella edificata a partire dal legame transatlantico. Vi sono forti parallelismi fra la coesione atlantica di fronte alla minaccia del blocco sovietico, e l’analoga coesione nella lotta al terrorismo.
5. L’Onu in affanno
Infine il terzo punto, l’ONU in affanno. Oggi, né il Consiglio di sicurezza dell’Onu è un governo mondiale, né tantomeno l’Assemblea generale è il suo parlamento. Per questi scopi manca la volontà, credibilità e forse la fattibilità. Gli stati non sono come gli individui che si riuniscono in popoli e cedono l’uso della forza. Chi li considera tali pecca per generosità e di realismo.
Ma, al di là della dottrina, resta la situazione. L’efficacia delle istituzioni internazionali di assicurare una governance mondiale non si misura in astratto o nei princìpi, ma nell’affrontare sul terreno le minacce dell’attuale contesto: e cioè il terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, gli stati falliti o quelli canaglia. Le nuove guerre o le nuove forme di guerra nascono da qui. Ed esattamente da qui parte la sfida all’Onu.
Ce la sta facendo questa organizzazione nata in altra epoca e per altri scopi? Con molto affanno e con parecchi insuccessi. Quando all’Onu l’accordo c’è, si produce una temporanea coalizione di volenterosi; quando non c’è, si crea la paralisi. Il comportamento dell’Onu durante la crisi in Iraq ne è un esempio. E così pure la recente decisione dell’assemblea di condannare la barriera difensiva di Israele. Questa decisione non affronta i nodi centrali del conflitto israelo-palestinese, ma ribadisce posizioni ultradecennali, già tante volte invocate. Una vittoria per alcuni, che però non aiuta nessuno. Né i palestinesi, perché non fa nulla per spingerli alla riforma interna, presupposto della capacità di negoziare una pace durevole; né i paesi arabi, perché li costringe a reiterare posizioni nelle quali forse neanche loro credono più molto.
All’Onu, tutti dicono, c’è bisogno di una riforma. Ma se questa riforma fosse una semplice presa d’atto della nascita di nuove potenze, come accadde dopo il 1945, e perciò si traducesse in un mero ampliamento del Consiglio, essa sarebbe parziale e insufficiente. Produrrebbe solo altre, forse più difficoltose, coalizioni di volenterosi e altre polemiche quando le coalizioni non nascessero. Ciò che occorre è molto di più e io considero promettenti, anche ai fini del multilateralismo, le discussioni su organismi come la Lega delle democrazie di cui da tempo si parla. Certo è che non considero promettente nessuna posizione, ancorché avanzata da partner europei, che ci penalizzi, perché l’Italia ha, al pari di Paesi che richiedono un seggio permanente, responsabilità regionali e globali. Ne sono prova il nostro impegno nelle operazioni militari internazionali, il nostro contributo alla sicurezza collettiva in Afghanistan e in Iraq.
6. L’Italia alla prova
I tre punti che ho toccato sono tre nodi che ci riguardano, tre prove che concernono, lo ribadisco, il nostro interesse nazionale. Alla prova, l’Italia le sta superando, grazie ad una politica estera ferma nelle sue scelte di fondo e grazie alla vostra azione di ambasciatori per interpretarla e rappresentarla al meglio.
Più di altri paesi, l’Italia ha compreso le sue responsabilità e ne sopporta il peso. Abbiamo mantenuto dritto il timone euratlantico e abbiamo mostrato di essere consapevoli dei rischi che l’Occidente sta correndo. La nostra presenza militare nel mondo, il senso di unità e fierezza che si è sviluppato anche nelle tragedie, la consapevolezza che le nostre forze armate sono forze che costruiscono la pace perché contribuiscono alla sicurezza, alla ricostruzione, alla stabilità di aree di crisi o alla rinascita di paesi umiliati e offesi, sono punti di forza della nostra politica che si vorrebbero più condivisi.
Lo stesso vale per l’Europa. In condizioni difficili, l’Italia ha mantenuto la speranza di una Costituzione più cogente, ha impedito la rottura irreparabile e si oppone alla nascita di direttori che, inadatti a governare la realtà emersa dall’allargamento, hanno solo il sapore di anacronistiche egemonie locali. Abbiamo contribuito all’allargamento della Nato e a creare rapporti stabili con la Russia, nella convinzione che sia utile orientarla verso l’Europa anche contro sue le storiche tentazioni di grande potenza. Abbiamo favorito il dialogo euromediterraneo ed abbiamo lavorato per l’avvicinamento della Turchia, consci del ruolo che abbiamo in questa parte del mondo. In molte circostanze, abbiamo saputo assecondare e mediare.
Sull’Onu occorre riflettere ancora. Da tempo siamo fautori di un progetto di riforma, ma di recente siamo fatti oggetto di tentativi che ci penalizzerebbero. Credo che sia arrivato il tempo di chiedere ciò che ci spetta e che sia utile chiedere ai nostri alleati di uscire dalle incertezze e di prendere posizione.
Chiudo. Per un’importante politica estera, occorre un importante paese. Le scelte di fondo sono state tracciate. Il resto, tocca alla politica nazionale, cui compete anche di reperire le risorse ad essa necessarie, e al vostro prezioso lavoro, che ho avuto modo di apprezzare in tante visite all’estero.