Siparietto di metà agosto, vanno in scena il Professore e il Ministro. Nelle vesti del primo Michele Salvati sul Corriere della Sera del 14 agosto commenta il “patto per l’università”, recentemente proposto agli atenei dai ministri Padoa-Schioppa e Mussi. Sostiene si tratti di una buona notizia. Ma legittimamente obbietta: gran parte dei contenuti di quel patto poggiano sul lavoro che dovrebbe svolgere l’istituenda Agenzia per la valutazione dell’Università e della Ricerca (Anvur) che, verosimilmente, entrerà in funzione non prima di un paio d’anni. Nel frattempo – si chiede il Professore – perché non utilizzare gli attuali organismi di valutazione (il Civr per la ricerca e il Cnvsu per l’università) che hanno fin qui ben meritato? E poi – aggiunge non senza una punta di malizia – se è ritenuto così essenziale sanzionare gli atenei che non rispettano impegni e parametri, perché non utilizzare lo stesso metodo con il Ministero? E come?
Il giorno seguente, sulle colonne del medesimo organo di stampa, si esibisce Fabio Mussi, nei panni di Ministro dell’università e della ricerca. Il tono della risposta è a metà strada tra lo stizzito e il sufficiente. E replica è essenziale: l’Agenzia è un risultato epocale ma finché non sarà in grado di funzionare Salvati può star tranquillo sul fatto che i precedenti organismi non verranno smantellati. Quanto poi al giudizio sul Ministero, dal distacco iniziale si passa a una confidenza eccessiva. Del tipo: “Michele (Salvati, per l’appunto), tu che fai il Professore non puoi saperlo. Lascia che te lo dica io, politico di lungo corso: il giudizio sul Ministero lo daranno gli elettori con il loro voto, che io spero sia per il centro sinistra, for ever.
Data la stagione, a caldo verrebbe da commentare: sotto la supponenza niente. Ma a chi conosce cosa Mussi ci sta preparando per quest’autunno la diatriba è sembrata niente affatto superflua. E il concludente “appello al popolo” del Ministro niente affatto scontato.
Ma andiamo con ordine. Il governo dell’università e della ricerca al tempo di Fabio Mussi si è a lungo distinto per stagnazione totale. Il Ministro, agli inizi, ha imposto “l’effetto Findus”: tranne i soldi non concessi attraverso la legge finanziaria tutto il resto è stato congelato, compresi i fondi ordinari per la ricerca e le tornate per l’elezione di commissioni che avrebbero dovuto giudicare concorsi convocati da tempo immemore. L’impegno straordinario profuso nello scindersi dai ds e poi nel trovare una nuova casa, lo ha confortato nell’attitudine. Al punto che tra rettori, professori e gli stessi dirigenti del Ministero ci si scambiava messaggi increduli: mai visto un ministro che per preminenti interessi politici lasciasse gli atti d’ufficio a tal punto inevasi! C’è chi protestò e io stesso mi lasciai andare a un paio d’interrogazioni urgenti. Mal me ne incolse. Perché fino a quando l’attività del Ministro era a scartamento ridotto, anche i danni ne risultavano limitati. Se ne è ricavato persino qualcosa di buono, come il blocco delle lauree honoris causa, quasi sempre concesse per cause assai poco onorevoli. I guai sono iniziati quando all’immobilismo iniziale è subentrata la fase del progetto nella quale attualmente ci troviamo. E per la quale, cari lettori, vi assicuro che c’è di che tremare.
Lasciamo da parte l’Agenzia sulla quale si tornerà alla fine. Per ora basterà notare che di essa si avvertiva un bisogno assai relativo dato che, a parere delle stesse commissioni di studio messe in campo dal Ministro, gli organismi di valutazione precedenti avevano svolto bene i loro compiti. Concentriamoci, invece, sulle tre mannaie che incombono assai più pericolosamente sulla testa della già martoriata università italiana: un maxi concorso per l’assunzione di circa 1000 ricercatori; la riforma dell’ordinamento didattico e il c.d. “patto per l’università”
Partiamo dalla prima. Chi non conosce le cose universitarie, deve sapere che il titolo di “ricercatore” costituisce di fatto il primo gradino della carriera, a cui seguono quello di professore associato e di professore ordinario. A tempo negli atenei si discute cosa farne di questa figura dai contorni troppo indefiniti: un personale specializzato unicamente nella ricerca? Una terza fascia di docenza che di fatto andrebbe a incrementare una piramide baronale quanto meno anacronistica? Il dibattito si è fatto urgente per tre ragioni tra esse connesse. La prima è il trattamento economico di questa funzione. Un ricercatore di prima nomina guadagna circa 1200 euro: una cifra assolutamente inadeguata per potersi dedicare con continuità ed esclusività all’attività di ricerca, soprattutto se fuori sede. L’ingresso in carriera, dunque, è di fatto riservato ai più abbienti o a quanti arrotondano lo stipendio con attività di studio alle dipendenze del maestro. A ciò si aggiunge l’età media dei ricercatori, che negli ultimi anni si è andata progressivamente alzando. In alcune branche essa si aggira intorno ai 40 anni. Se ne ricava che il ruolo di ricercatore, lungi dal rappresentare un ingresso in carriera, in molti casi è una ricompensa finale per servigi di lungo corso. Ci si arriva spompati, quando ormai si ha assai poco da offrire. Infine, non possono essere trascurate le ambiguità che, col tempo, si sono sedimentate intorno alla figura. Quasi tutti gli atenei, infatti, per far fronte ai nuovi ordinamenti didattici, hanno imposto ai ricercatori anche più di un corso d’insegnamento. Tra loro e i professori di prima e seconda fascia, per ciò che concerne le mansioni, non c’è differenza anche se l’attitudine a insegnare del ricercatore non è stata comprovata da concorso. Ne discende che mantenere così com’è il ruolo rappresenta un’istigazione a varare la figura del docente unico, il cui stipendio avanza non per merito ma per anzianità. In tal modo, si rischia di sindacalizzare e uniformare definitivamente il mondo dell’università con buona pace per quella libertà senza la quale nessuna eccellenza potrà mai emergere e svilupparsi.
Di fronte a questo quadro, cosa dovrebbe fare ogni persona di buon senso? Ridefinire il ruolo del ricercatore e poi cercarne d’implementare le funzioni in un nuovo contesto più rispondente alle odierne condizioni del mondo scientifico. Per parte mia, ritengo che bisognerebbe andare nella direzione d’offrire ai giovani dei contratti dignitosi ma precari per il tempo del post-dottorato, in modo da dare loro la possibilità di mettersi alla prova e di dare prova delle loro attitudini. Perché nessuno nasce imparato. E perché, in coscienza, nessun maestro degno di tale qualifica può esser certo a priori se il ragazzo che studia sotto la sua autorità è portato o meno per l’attività di ricerca. E poi bisognerebbe costruire dei percorsi per i quali si provi ad entrare nei quadri stabili dell’università in un’età nella quale è ancora possibile modificare le proprie traiettorie di vita. Senza che un errore iniziale condizioni per sempre.
Questa ricetta andrebbe discussa e specificata. Ma ciò che è difficile negare è l’urgenza di un ripensamento, qualunque esso sia. Cosa fa invece Mussi? “in attesa della riforma dello stato giuridico dei ricercatori universitari” (così recita l’art.1 della bozza di decreto) convoca il maxi-concorso: come dire, prima il carro e poi i buoi! Non solo: si mette anche alla ricerca del “concorso perfetto”: quello che dovrebbe evitare le ingiustizie e garantire che il merito venga premiato sempre e ovunque. Bisogna leggere per credere cosa si è stati in grado di escogitare: una sorta di corsa ad ostacoli nelle quali commissioni di carattere internazionale, nazionale e locale si susseguono in un imbroglio burocratico degno di peggior causa. In questo guazzabuglio, l’occhio allenato del’accademico scorge già tutti i pertugi attraverso i quali si potrà infilare il favore, la raccomandazione e persino il sopruso. C’è da scommetterci: se mai, sciaguratamente, quel bando dovesse diventare realtà, non ostante il tentativo d’inventare “il concorso corretto”, tra qualche anno staremo ancora a discutere di scandali concorsuali e ricorsi al tar.
Si sbaglierebbe, però, a ritenere che dietro la scelta del maxi-concorso vi sia soltanto la generosa imperizia di un ministro che l’università l’ha conosciuta soltanto illo tempore alla Normale di Pisa. Vi è, piuttosto, un pregiudizio ideologico grande come una casa. Vi è l’avversione per ogni forma di precariato anche laddove esso, sostenuto dal merito, è in grado di garantire redditi più che degni. E vi è l’avversione per la concorrenza, che assai meglio della procedura concorsuale più giustizialista è in grado di garantire chi vale. Infatti, solo laddove gli atenei pagheranno un prezzo di reputazione, e quindi di risorse, per l’assunzione di personale di ricerca e didattico inidoneo, si potrà essere certi che essi, nella loro autonomia, respingeranno quest’ipotesi. In tutti gli altri casi, invece, questa garanzia non ci sarà mai.
Per tutti questi motivi, il maxi-concorso sarebbe una vera iattura, in grado da solo di porre le basi per una sorta di “contro-riforma”. Mussi proviene dalla stagione del ’68. Gli consigliamo, senza iattanza, di promuovere un’indagine su quanti in quegli anni entrarono nell’università attraverso maxi-reclutamenti. Scoprirebbe che tanti dei suoi compagni d’un tempo hanno vissuto per un quarantennio a sbafo, sulle spalle dello Stato, sottraendo i posti a tanti giovani valorosi delle generazioni successive. Non sostengo che gli effetti oggi sarebbero ugualmente perversi. Ma, più semplicemente, che da allora è invalso l’uso che all’università si entri a ondate successive: chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. Non è un buon metodo. E’ servito ad arricchire ciclicamente gli editori, che si sono visti recapitare in fretta e furia ogni tipo di schifezza affinché il candidato non corresse il rischio di perdere l’occasione della propria vita. Questo metodo, indegno di un Paese civile, riceverebbe ulteriore linfa da un nuovo maxi-concorso. E quell’obbiettivo di ridisegnare ruoli e funzioni sulla base di una nuova logica finalmente meritocratica e concorrenziale verrebbe frustrato per altri vent’anni. In attesa di una nuova occasione storica.