Peppone era il capo di una gioiosa macchina da guerra: altro che quella di Occhetto!. Le sue truppe, oltre la tessera, possedevano una fede assoluta. Erano, per questo, ferreamente inquadrate, pronte a qualsiasi azione lecita e illecita pur di servire la causa e il suo capo. Don Camillo, dalla sua canonica, rispondeva lavorando sulle anime che sfuggivano al controllo penetrante del Partito con la “p” maiuscola. Lo faceva utilizzando, con discrezione, l’omelia domenicale. E infilandosi, con assai meno prudenza, nelle pieghe della vita quotidiana del suo gregge, pronto a intervenire in una questione di campanile così come in una crisi familiare. In tal modo, con naturalezza, si metteva in collegamento con quell’anticomunismo esistenziale diffuso persino nella parte più rossa della bassa padana. Ogni volta cercava e trovava il grimaldello per aggirare la politica penetrando nella dimensione privata, persino dello stesso Peppone, al quale portava la guerra fino in famiglia, facendo così esplodere il conflitto tra la sua militanza e la sua umanità.
Posta in tal modo, non c’è dubbio alcuno, ha ragione Giuliano Ferrara: tra il partito con le tessere di Peppone e quello senza tessere di Don Camillo ha vinto Don Camillo. Giuliano Ferrara, che il partito di Peppone l’ha conosciuto quand’era cosa seria, lo può certificare meglio di chiunque. Naturalmente, ritiene ancor più che insensato ridicolo ogni tentativo di emulazione con oltre cinquant’anni di ritardo. Rintraccia, per questo, nel partito senza tessere di Veltroni la fine dell’ipocrisia e la resa alla modernità berlusconiana. E giunge fino al punto di proclamare “Veltroni è Berlusconi”, portando così scompiglio nelle fila della sinistra ma anche tra coloro che giudica (senza dirlo esplicitamente solo per educazione) “pigmei berlusconiani” che si attardano intorno a un attrezzo, il partito, del quale proprio il loro capo ha decretato la fine storica.
Se ci fermassimo a riconoscere le ragioni di Ferrara coglieremmo, però, solo l’aspetto più superficiale di quanto è veramente accaduto tra Peppone e Don Camillo rischiando così di smarrirne l’essenza di quanto sta accadendo oggi. Una prima banale constatazione s’impone. Don Camillo poteva portare avanti la sua sfida con il sindaco rosso anche perché aveva alle spalle un partito con le tessere. Quel partito – la Dc – compare poco nel racconto di Guareschi. Entra in scena quasi solo il giorno delle elezioni quando Don Camillo, accovacciato accanto alla radio nella solitudine della canonica, aspetta di conoscere in quanti avessero apposto la croce sullo scudocrociato, per sapere se aveva vinto oppure perduto. Sicché si potrebbe ritenere che per la Dc le tessere fossero una sovrastruttura inutile e concludere che quel che realmente contava era la sua funzione di collettore di voti.
Non è stato così o, quanto meno, questa realtà è risultata tutt’altro che scontata. Nella Democrazia Cristiana, infatti, vi è stato chi, a lungo, ha ritenuto che la definitiva riconciliazione tra i cattolici e lo Stato dovesse obbligatoriamente passare attraverso il sacrificio di una parte consistente dell’autonomia sociale a vantaggio di un partito pensato a immagine e somiglianza del Pci: con una robusta base ideale che lo rendesse impermeabile alle sollecitazioni ecclesiali, un rigido inquadramento dei militanti, una vita sociale in parte diversa da quella della società ufficiale. Si trattava di combattere la battaglia anticomunista sul terreno dei comunisti: una strada distante, se non opposta, da quella tracciata da De Gasperi e dagli eredi del vecchio popolarismo. Essa fu percorsa in un primo tempo, e a viso aperto, da Giuseppe Dossetti. In seguito, in maniera più camuffata e per questo più efficace, dai suoi seguaci rimasti in politica mentre egli dedicava la sua vita al sacerdozio.
Se nel partito dei cattolici avesse vinto Dossetti, per il partito senza tessere di Don Camillo non ci sarebbe stato spazio. Sicché, viene da pensare, che il nodo del problema non risieda solo in quella che i politologi chiamano un po’ ampollosamente “la forma-partito” quanto, assai di più e ancor prima, nello spazio da concedere alla politica e alla necessità che essa debba sottomettersi o meno al principio di realtà dettato dalla spontaneo atteggiarsi del corpo sociale. I partiti, insomma, debbono riconoscere l’evoluzione spontanea della società con i suoi tempi, le sue libere aggregazioni e i suoi corpi intermedi, primo tra tutti la famiglia, ovvero sono lo strumento per forzare le situazioni al fine del raggiungimento di un fine prestabilito e ideologico?
Se stanno così le cose, però, lo scontro tra i Peppone e Don Camillo di oggi si complica un po’ e l’assegnazione delle parti non risulta più scontata. Che il partito carismatico abbia vinto, infatti, è dato storico incontrovertibile. Solo pochi nostalgici, con i quali Veltroni non ci ha ancora fatto capire se vuole essere alleato o meno, pensano di vivere ancora al tempo della “cellula”. E che la democrazia interna ai partiti sia un’illusione, prima di Giuliano Ferrara ce lo ha spiegato Max Weber.
Per avvalorare queste conclusioni, dunque, non è necessario abolire né tessere né organizzazione. Dal tempo del “caucus di Birmingham” (il primo esempio di partito organizzato che risale al 1860), transitando sul Continente per leader quali de Gaulle, Adenauer, Aznar, il partito carismatico ha convissuto con tessere e organizzazioni anche ferree, con le quali il leader ha sempre stipulato uno scambio politico (speriamo che qualche magistrato non vi rintracci ipotesi di reato!): legittimazione della “macchina” in cambio della diffusione del carisma.
Ciò di cui parla Ferrara è però qualcosa di differente. E’ una compiuta democrazia degli elettori che prevede un sistema istituzionale in grado di designare direttamente il capo dello Stato o, quanto meno, il capo del governo; un formato tendenzialmente bipartitico; la legittimazione reciproca delle due principali forze; un sistema di primarie disciplinato per legge; una regolazione, per quanto minima, della vita interna di partiti che, divenuti ectoplasmi, sfuggirebbero sennò ancor più di oggi al controllo.
Nulla di tutto ciò esiste in Italia. E, a quanto pare, nulla di tutto ciò Veltroni è realmente intenzionato a introdurre nella vita politica. Le riforme istituzionali del suo amico Violante sono acqua fresca. E addirittura Veltroni, segretario del primo partito senza tessere della storia repubblicana, ha lasciato la porta aperta al ritorno del sistema proporzionale, il quale, rispetto alla democrazia degli elettori, starebbe come un maniaco sessuale può stare in un reparto di ginecologia. E poi, mentre dalle nostre parti (e non solo sul Foglio) si parla a volte criticamente ma sempre con rispetto del Partito Democratico, sul giornale di quest’ultimo, l’Unità, si continuano a sparare colonne di piombo nel tentativo di colpire il leader dell’opposizione. In quei paraggi sfugge ancora, evidentemente, che senza la legittimazione completa dell’altra parte una democrazia degli elettori si trasforma in plebiscito.
Il discorso torna, a questo punto, sul principio di realtà di doncamillesca memoria. In questa temperie, per rispettarlo, è preferibile la scelta di quanti in Forza Italia stanno cercando d’accompagnare la parabola di un leader carismatico anche attraverso un’organizzazione che ne consolidi il senso e gli conceda durata storica. In una situazione come quella attuale, infatti, pretendere un partito senza tessere può apparentemente sembrare un’adesione ai canoni del “berlusconismo” mentre è, in realtà, una scelta politicista (alla Peppone, per intenderci) in stridente contrasto con la realtà storica, istituzionale e politica del Paese, che rischia di avere come unico risultato quello di risolvere in maniera furbesca e autoritaria la partita interna al nuovo partito.
Per tutte queste ragioni, nonostante le apparenze “buoniste”, continuo a ritenere che Berlusconi (nonostante Forza Italia e le tessere) sia Don Camillo, e che Veltroni (con il suo Pd senza tessere) resti in fondo ancora un po’ troppo Peppone.
(Da “L’Occidentale”)