Per riconnettere la riflessione suscitatami dalla lettura del libro di S.E. Rev.ma il Cardinale Marc Ouellet alle mie limitate competenze, vorrei iniziare col definire il quadro storico nel quale s’inserisce una riflessione che ha un orizzonte eminentemente teologico: il bisogno di una nuova evangelizzazione al cospetto di “un’incalzante secolarizzazione” (cit., p. 5). La diagnosi dell’Autore non lascia spazio a interpretazioni: più le società avanzano nella secolarizzazione, più il problema indagato dal libro che stasera discutiamo diventa un campo di battaglia cruciale tra la fede e la cultura dominante”.
Questa diagnosi pone a chi si accosta a questo libro nelle vesti di storico un primo e pregiudiziale quesito: è vero che le società si vanno progressivamente secolarizzando e che questa deriva non possa cambiare? Io ne dubito. E’ certamente vero che le apparenze, alimentate da un progresso tecnologico addirittura incombente e da una interconnessione dei processi economici, sociali, culturali che negli ultimi decenni ha viaggiato a ritmi accelerati quanto mai prima, vanno tutte in questo senso. Ma se si guarda più a fondo, ai fenomeni che segnano in profondità il divenire sociale, penso che si debba piuttosto constatare un’inversione di tendenza. I primi segnali in tal senso datano, a mio avviso, agli anni Ottanta. E sono segnali differenti; alcuni persino assai pericolosi e sconvenienti come la ripresa di un islamismo radicale. Ma è un fatto che da allora il paradigma laicista – che nella sua forma più rozza spacciava la certezza che la religione sarebbe stata condannata, con l’avanzare del progresso, a un ruolo marginale e sovrastrutturale – è stato smentito.
Ciò porta con sé alcune conseguenze. La prima è che questo contesto esterno chiede alla fede di ritrovare e rivendicare i suoi fondamenti. La posizione di quanti, anche all’interno della Chiesa, avrebbero voluto relativizzare il sentimento religioso per farlo progressivamente scadere in un moralismo dai connotati assai mondani, è divenuta più difficile da sostenere. La seconda conseguenza è che, in questo nuovo contesto storico, se la fede sarà in grado di rivendicare questa sua alterità rispetto al mondo secolare potrà, paradossalmente, entrare più facilmente in contatto con esso e influenzarlo dall’esterno: non come “surrogato” che si adatta a un contesto di secolarizzazione, ma come “precipitato” in grado d’esercitare un’influenza culturale indiretta anche su quella parte di mondo non illuminato dalla fede, ma non per questo rassegnato a evadere una ricerca di senso.
Il combinato disposto di questi due effetti mette l’accento su una terza conseguenza. E la pone nella forma di problema aperto: che la religione non venga proposta dalla Chiesa come messaggio puramente interiore – che riguardi cioè soltanto le menti e al più i cuori – ma che essa chieda, anzi pretenda, di uscire dal ghetto della coscienza individuale per rivendicare una funzione e uno spazio pubblico, pur nella essenziale distinzione tra il ruolo della Chiesa e quello dello Stato.
In questo solco si pone il problema dei sacramenti: quello della loro forma esteriore e persino quello della disaffezione alla loro pratica. Anche in questo caso il riferimento obbligato è alla modernità che – nota Ouellet – “ha rotto il legame tra l’anima e il corpo, l’intelletto e i sensi, la fede e i sacramenti”. E’ certamente vero. Ma c’è in questa dinamica qualcosa di più profondo che rimanda, ancora una volta, alla convinzione a lungo egemone che la secolarizzazione sia inevitabile.
Il fatto è che, a ben vedere, il Novecento non ha negato la forza del simbolo né la pregnanza del rito in quanto tali. Ha provato a sottrarli alla sfera religiosa, per acquisirne la forza nel contesto civile. Non casualmente il Novecento è stato il secolo delle religioni politiche: ogni ideologia – innanzi tutto quelle totalitarie – si è dotata dei suoi simboli, dei suoi riti, persino dei suoi sacramenti spesso derivati da quelli della religione ufficiale che, invece, rigettava. E provando a sbarazzarsi del valore del sacramento come aspirazione dell’uomo al trascendente (“lungi dall’essere una trasmissione di verità astratte, la liturgia è la celebrazione di Cristo quale “mistero rappresentato”), trasferiva il significato del sacramento tutto su questo tema finendo, inevitabilmente, con l’assegnare al “sacramento laico” un valore totale, presupposto d’illiberalità quando non proprio di oppressione.
La ricollocazione del simbolo, del rito, del sacramento in una visione religiosa ha, dunque, una duplice valenza. Da un punto di vista teologico serve ad affermare una visione cristocentrica della religione, invertendo la pericolosa tendenza di creare fedi che si confanno a servire i bisogni dell’uomo, anche i più contingenti (sul punto le pagine di Ouellet sono quanto mai persuasive). Da un punto di vista storico-politico, invece, essa ha l’effetto di liberare il terreno del confronto secolare dagli assoluti dai quali tante tragedie sono derivate. Mentre l’interazione tra questi due processi tende naturalmente a promuovere un’idea di ragione meno presuntuosa e, per questo, meno limitata di quella che l’eredità razionalista ci ha consegnata. Una ragione che esiga rispetto dalla fede ma che, per questo, non risulti pregiudizialmente ostile al trascendente e alla fede come possibilità. E’ questa la grande tematica che domina questa prima parte del pontificato di Benedetto XVI.
Su tale sfondo si colloca la centralità teologica e storica del sacramento del matrimonio e, quindi, della famiglia cristiana che da esso deriva. Ouellet riconosce entrambe le dimensioni del problema. All’inizio del suo trattato evidenzia, infatti, come “l’obbiettivo immediato sia quello di rovesciare lo stato di vulnerabilità della famiglia, l’istituzione più minacciata ai nostri giorni, in una fondamentale risorsa di evangelizzazione”. E più avanti, per rimarcare la portata epocale della questione, ribadisce: “i problemi del matrimonio e quelli della famiglia hanno raggiunto proporzioni di vere e proprie sfide pastorali e culturali che minacciano l’avvenire dell’evangelizzazione e anzi della stessa civiltà”. Il quadro che viene tracciato è a tinte quanto mai fosche, al punto che Oullet si dice convinto che il Concilio stesso non sia stato in grado di intuire la mutazione epocale che avrebbe esposto matrimonio e famiglia cristiani al rischio di una sconfitta definitiva.
Alla luce dell’attualità – in particolare dell’attualità legislativa che mi è più prossima – è difficile smentire quest’analisi nonché l’allarme che da essa deriva. La distruzione della famiglia è divenuto un caposaldo necessario di una nuova pretesa di controllo assoluto di un processo finalizzato alla conquista della felicità su questa terra che, dopo il fallimento del sogno egualitario, ha come terreno di sperimentazione non più il sociale ma l’antropologia individuale. E’ la nuova ideologia progressista, non meno pericolosa dal punto di vista liberale di quelle novecentesche sconfitte.
Tuttavia, mi sia consentita una nota di relativo ottimismo. A me pare che proprio la drammaticità della situazione stia ponendo le premesse affinché inizino ad agire gli anticorpi che la nostra civiltà ha nei secoli prodotto contro la prospettiva della sua autodistruzione. Ecco perché il nuovo sforzo di evangelizzazione della Chiesa si può accordare con la preoccupazione di settori sempre più ampi di quella società secolarizzata che, senza rigettare la modernità, sanno però individuare i capisaldi su cui quella modernità è nata e si è sviluppata, e non intendono distruggerli.
Qualche segno di tale resipiscenza? L’autore ci parla dell’appoggio che Giovanni Paolo II dovette richiedere alla fine degli anni Novanta alle nazioni musulmane per bloccare la strategia degli Stati Uniti “clintoniani” d’utilizzo dell’aborto come strumento per il controllo delle nascite. Sono passati meno di dieci anni ma il quadro appare assolutamente mutato. Proprio Oltre Oceano si è sviluppato una reazione popolare che ha influenzato e continua a influenzare la politica, che ha imposto ai temi della biopolitica un andamento che solo pochi anni fa era imprevedibile.
La situazione è senz’altro differente in Europa, che a torto si era pensato potesse offrire un terreno più fertile a una ripresa religiosa. Tuttavia anche qui, se si considera il modo di trattare i temi demografici, è necessario notare che le tendenze neo-malthusiane, se valgono ancora per il Terzo Mondo, sono contraddette da una preoccupazione crescente per l’andamento delle nascite nel quadro nazionale e continentale e per le ricadute che esso potrà avere in termini sociali, economici ed anche identitari. Sicché, inseritosi il germe della contraddizione, vi è quanto meno uno spiraglio per cercare di demolire quello che fino a ieri sembrava senso comune inattaccabile.
Infine l’Italia: per la sua identità, la sua storia e l’evoluzione della sua società, si tratta di una realtà che si colloca in controtendenza rispetto al resto d’Europa. La mobilitazione che lo scorso anno si produsse spontaneamente in occasione del Family Day è, in tal senso, emblematica. Questa diversità è una ricchezza che va difesa e che dev’essere sfruttata per indurre un ripensamento negli altri contesti europei. Per questo, da un punto di vista politico-legislativo l’opera di evangelizzazione che la Chiesa si propone può essere assecondata se si avrà la forza, innanzi tutto culturale, di non interpretare la battaglia in favore della famiglia in chiave solo difensiva.
Io non voglio entrare nella disputa teologica inaugurata dal cardinale Tettamanzi sulla posizione che la Chiesa deve assumere rispetto ai separati e ai divorziati, per incompetenza ma anche perché questa disputa non ha riflessi possibili sul piano civile in quanto nessuno, proprio nessuno, propone di rivedere la legislazione sul divorzio.
Quel che mi sembra assai più rilevante è che tra i politici ci sia chi con orgoglio rivendichi la nostra identità di popolo, per la quale la famiglia ha avuto un ruolo importante. In questo frangente si deve avere la forza di riconoscere come l’evoluzione della legislazione positiva sulla famiglia abbia fin qui tutelato la posizione dei più deboli: i minori e il coniuge sfavorito, che per lungo tempo è stata la donna. Poiché i diritti non sono materia dilatabile a piacimento, bensì un gioco a somma zero – se se ne creano di nuovi assai spesso si limitano quelli esistenti – bisogna far bene attenzione che ciò che è stato acquisito dai più deboli non sia messo in discussione. Si deve, anzi, avere il coraggio di non deturpare il modello di famiglia che la nostra tradizione ha consolidato per offrirlo come riferimento ai “nuovi deboli” che affollano la nostra società.
Per tanti nostri concittadini, presenti e futuri, il modello familiare della tradizione cristiana è un approdo di libertà e di dignità personale: chiunque crede all’universalità dei diritti umani farebbe bene a non dimenticare le condizioni di prostrazione morale e a volte anche fisica nelle quali si vengono a trovare minori e donne in altri modelli familiari e a non tollerarli in nome di un malinteso multiculturalismo. Non distruggiamo, in nome di un esasperato individualismo che ha quasi sempre possibilità di tutela già all’interno dell’attuale legislazione, riferimenti che possano agevolare una già così complessa opera di integrazione. E, soprattutto, non sacrifichiamo sull’altare di una nuova ideologia gli spazi di libertà reale e di libertà interiore che, nonostante tutte le sue storture e i suoi limiti, la famiglia occidentale ha consentito alla persona.
(Intervento del Senataore Gaetano Quagliariello, presidente della Fondazione Magna Carta, in occasione della presentazione del libro di Sua Eminenza il Cardinale Marc Ouellet, “Teologia del matrimonio e della famiglia per la nuova evangelizzazione”, edito da Cantagalli)