Un´onda “neoguelfa” – lunga, persistente, di fondo – sta scuotendo il Paese. Non trovo di meglio che questo aggettivo di sapore risorgimentale (ma la parola originaria arriva dal cuore tedesco e italiano dell´Europa fra dodicesimo e quattordicesimo secolo) per descrivere un atteggiamento culturale e politico che da qualche tempo si sta proponendo come uno dei poli del nostro dibattito pubblico. Un compatto movimento di idee che tende ad attribuire alla figura del Papa l´esercizio di una specie di protettorato “super partes” nei confronti dell´intera vita civile italiana, fino a fare del magistero della Chiesa il custode più alto della stessa unità morale della nazione.
È un pensiero forte e invasivo, che si riflette in mille segni e iniziative che stanno riempiendo le nostre cronache: il Foglio e le sue campagne ne sono diventati ormai il simbolo e la bandiera, capaci di mescolare con raffinata sapienza snobismo intellettuale e populismo mediatico (Giuliano Ferrara ha così completato il suo percorso, concluso per ora in una sorta di formula trinitaria, efficace ma non senza contraddizioni: Berlusconi in Italia, l´America nel mondo, il Papa su tutto – il Papa, si badi, non Dio, che vorrebbe dire ben altra cosa).
Aver scomodato un nome che viene addirittura dal nostro passato medievale, per definire l´orientamento cui mi sto riferendo, aiuta a capire come non vi sia niente di davvero nuovo nel suo nocciolo concettuale. Siamo invece di fronte al ripetersi di un´antica tentazione della storia politica e intellettuale italiana: quella del neoguelfismo come attitudine nazionale, definitivamente fissata con la Controriforma negli infelici esordi della nostra dimezzata modernità – quando a noi toccò la parrocchia, mentre gli altri, in Europa, costruivano gli Stati. «Non si può tenere stati secondo coscienza, perché (…) tutti sono violenti (…) e da questa regola non eccettuo (…) e manco è preti, la violenza de´ quali è doppia, perché ci sforzano con le arme temporale e con le spirituale», così Guicciardini, nei Ricordi, intorno al 1528: la Francia ci aveva già invaso, e meno di venti anni dopo sarebbe iniziato il concilio di Trento.
Questa inclinazione a sottomettere il Paese al sentimento religioso storicamente dominante ha però sempre nascosto dentro di sé – nella sua lunga durata – un elemento oscuro, un radicato vissuto di inferiorità e di impotenza: la percezione che L´Italia fosse troppo fragile e debole per farcela da sola, e che ci fosse un insopprimibile bisogno di consegnarla nelle mani di una potenza più grande, più efficace e più solida di quanto apparissero le sue istituzioni e la sua vocazione civile: la forza universale del cattolicesimo e degli apparati che su di esso si fondano. Si è determinato così una specie di riflesso condizionato, che riaffiora nei momenti di crisi e di sconnessione. Esso spinge a rinunciare allo Stato, e ad affidarsi alla comunità dei fedeli (oggi irrobustita dall´apporto degli atei devoti). È il segno di una patologia, non ne è il rimedio: dobbiamo saperla curare, non abbandonarci a lei.
Il nome dell´Italia sembra ormai impronunciabile, se non accompagnato dall´evocazione del suo declino. Fra i molti – veri o presunti – degradi, quello della nostra cultura politica e della nostra etica pubblica sono certo i più visibili e pericolosi. Ed è nel vuoto lasciato aperto da queste ferite che trova spazio la suggestione neoguelfa: se lo Stato si dissolve nelle sue inadempienze, se il Parlamento diventa un´arena, se i partiti si decompongono nella mancanza di progetti e di idealità, se la misura della moralità si identifica con l´interesse privato o con il capriccio soggettivo, si metta fin dove possibile al loro posto la Chiesa e la sua dottrina: l´assemblea dei vescovi sarà comunque migliore delle riunioni di qualunque sgangherata maggioranza di governo.
Ora il problema è di riuscire a capire e a spiegare come in questa scelta non è sbagliata tanto la preferenza in sé – e che quindi sia meglio anteporre Veltroni a Ruini, o Bobbio a Ratzinger, oppure il Consiglio dei ministri alla Cei – , no; è sbagliata l´idea stessa che sia comunque possibile, oggi, nelle condizioni date, una supplenza, una sostituzione (totale o parziale, esplicita o nascosta) della Chiesa e del suo magistero nei confronti dello Stato e del dibattito etico di una società complessa; che una religione – quale che sia, anche una religione di verità – possa occupare il posto della politica e del suo discorso, e mettere la sfera pubblica sotto tutela. Ci sarebbe, in una simile scelta, un attitudine così radicalmente antimoderna (attenzione: non di critica ad alcuni aspetti, anche fondamentali, della modernità, che è sempre benvenuta, ma di contrapposizione disperata e radicale con essa), da renderla fallimentare e improponibile. E non è un caso se anche la Democrazia cristiana, negli anni del suo fulgore, ha evitato sempre di farla propria, decidendo di essere fino in fondo un partito politico, e non una congregazione di devoti.
Non sarà la Chiesa a salvare l´Italia, mettendola sotto la sua protezione. L´Italia si salverà da sola, se ne sarà capace, rigenerando la sua cultura politica e ricostruendo la sua etica pubblica. Ma la Chiesa potrebbe contribuire a rovinarla, se, nella pretesa di sostituirsi allo Stato approfittando della sua inconcludenza, volesse trasformarsi a sua volta in soggetto politico, in parte impropriamente opposta a un´altra parte, come accade appunto nelle cose politiche.
C´è tuttavia una ragionevole speranza che – a dispetto delle molte sollecitazioni – questa strada non verrà intrapresa. Tutto il Cristianesimo moderno si è formato nella separazione fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio. Oggi per la Chiesa, per ogni credente, c´è più che mai bisogno di definire ancor meglio questi confini capitali, di proiettarli con convinzione su nuovi territori, non di confonderli o di cancellarli. È distinguendo, non oscurando, che la parola di Dio rigenera la sua forza. Questo vale anche per l´Italia, anche per noi, per quanto incerti si possa apparire. Il nostro smarrimento chiede rispetto, non tutori. Perché dopotutto non siamo indifesi, e, soprattutto, siamo diventati moderni.
(da Repubblica)