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“Debito ecologico” è un’espressione che va molto di moda al vertice di Copenaghen. In soldoni, vuol dire che i Paesi che inquinano ed hanno inquinato di più nella Storia dovrebbero tagliare maggiormente le proprie emissioni di gas serra. La Cina, ad esempio, che oggi rappresenta una “superpotenza dell’inquinamento” – ma che è arrivata più tardi di altri al decollo economico – ha detto di essere pronta a valutare la proposta di un dimezzamento globale delle emissioni entro il 2050, a patto che le grandi potenze di vecchia industrializzazione taglino le loro emissioni del 25/40% entro il 2020. In ogni caso, Pechino non si straccerà le vesti se i negoziati sul clima dovessero essere rimandati ancora di qualche mese per raggiungere un accordo di massima.

Meglio ancora hanno saputo fare i Paesi dell’alleanza “Alba” (Venezuela, Cuba, Repubblica Dominicana, Nicaragua, Honduras, Bolivia) che lo scorso aprile hanno redatto un documento comune – la “Dichiarazione di Cumanà” – in cui si dice esplicitamente che i Paesi più progrediti devono pagare quelli in via di sviluppo (con miliardi di dollari, tecnologie avanzate e maggiori riduzioni di gas serra). Tutto questo “per sdebitarsi delle emissioni rilasciate nell’atmosfera a partite dal 1750”.

Se i presupposti della discussione sono questi (in fondo anche il protocollo di Kyoto stabiliva che “chi più inquina, più paga”), si può comprendere perché ieri il “Gruppo dei 77” abbia reagito in malo modo quando è stata diffusa una bozza del documento finale della conferenza, in cui si propone di dare alle singole potenze (e non all’Onu) il controllo sulla riduzione delle emissioni – stabilendo dei tassi pro-capite di inquinamento per i Paesi industrializzati doppi rispetto a quelli delle nazioni in via di sviluppo. Figurarsi! I Paesi del Terzo Mondo hanno minacciato di ritirarsi dalla conferenza se dovesse passare un documento del genere… Al contrario, i “creditori climatici” avanzano la richiesta di suddividere equamente le emissioni pro-capite di gas serra: ognuno di noi avrebbe circa una tonnellata di consumi a testa, a fronte delle 10 di cui gli abitanti dei Paesi avanzati possono godere attualmente.

E’ interessante analizzare la posizione assunta dai Paesi del Terzo mondo, e in particolare da quelli legati al blocco dell’Alba: dietro la battaglia contro il riscaldamento climatico emerge chiaramente un’impostazione anticapitalista e una ideologia che imputa alle vecchie potenze coloniali tutti i mali del mondo. “La crisi economica globale, il climate change, la fame nel mondo, le crisi energetiche – dicono gli estensori della dichiarazione di Cumanà – sono il risultato del declino del capitalismo, che minaccia di distruggere la vita umana e quella del Pianeta Terra”. Insomma, più che combattere il global warming a Chavez e ai suoi alleati interessa contrastare l’Occidente e l’economia capitalista.

l’Occidentale
10 Dicembre 2009