La kermesse di Copenaghen – che avrebbe dovuto comporre il puzzle del clima globale – ha prodotto la rottura di tutte le speranze negoziali. A determinare un simile esito sono stati diversi fattori, ciascuno dei quali prevedibile e ciascuno, se preso singolarmente, gestibile. Probabilmente, il convitato di pietra al meeting era la crisi economica: gli organizzatori – le Nazioni Unite e la presidenza danese – sono rimasti del tutto spiazzati dall’indisponibilità al dialogo di alcuni tra i principali partecipanti, almeno quando dai massimi sistemi si passava agli aspetti concreti (i soldi). Anzitutto, gli Stati Uniti: il presidente del “change”, Barack Obama, di fatto si è presentato al vertice con le mani vuote, non potendo offrire l’approvazione al Congresso del suo climate bill, né avendo alcuna prospettiva certa di un suo passaggio nel futuro prossimo. Troppi ostacoli frenano la strada del progetto, dalle elezioni di medio termine nel 2010 (che raffreddano gli entusiasmi di molti democratici, specie quelli provenienti dagli Stati che sarebbero più fortemente impattati) alle altre priorità politiche dell’amministrazione (la riforma sanitaria, e presto probabilmente l’immigrazione).
La Cina ha giocato le sue carte in modo spregiudicato: muovendosi, tatticamente, assieme ai paesi africani, pur avendo interessi fondamentalmente diversi. I cinesi proteggevano la crescita economica, mentre gli africani – avendo solo una vaga speranza di sviluppo – puntavano a capitalizzare sui sensi di colpa occidentali, attraverso l’attrazione di una nuova ondata di aiuti. Così, il fondo da 100 miliardi di euro l’anno, di cui si è più volte parlato, ha preso sostanza solo nel momento in cui il suo varo è stato agganciato al successo del round negoziale, e ha sempre avuto la consistenza di un miraggio. Comunque, questa strana alleanza ha fatto venir meno l’odore di santità attorno all’incontro, portando in primo piano il fortissimo scontro di interessi geopolitici, economici e finanziari che, finora, solo gli osservatori più attenti avevano colto in tutta la sua portata.
L’Unione europea non ha, sostanzialmente, toccato palla. Partendo da una posizione estrema – col suo impegno a tagliare le emissioni del 20 per cento qualunque cosa fosse successa, e puntando al 30 per cento se solo si fosse raggiunta una qualche intesa – si è mossa per tutto il tempo in un orizzonte ortogonale rispetto a quello effettivo dove si collocavano le discussioni. A questo punto, l’Ue si trova costretta a mantenere la rotta, senza alcuna assicurazione che nessuno degli altri soggetti farà lo stesso, e dunque correndo un serio rischio di perdita di competitività. Del resto, nella storia sono rari i casi di vittoria, per chi giochi a carte scoperte e punti tutto sugli altrui buoni sentimenti. D’altra parte, nelle posizioni europee c’era anche un elemento di ipocrisia: i buoni sentimenti erano anche la sovrastruttura di una politica industriale, tedesca e britannica in primis, tesa a massimizzare le opportunità per l’industria verde e le piattaforme finanziarie per lo scambio di certificati di emissione.
Infine, è rimasta relativamente in secondo piano – perché travolta dagli eventi – la frattura che si è determinata tra la burocrazia dell’Onu e le Ong ecologiste, da sempre allineate nella partita climatica. La frattura non dipende da questioni ideologiche o divergenze di visione – sebbene gli ecologisti avrebbero apprezzato un atteggiamento più forte del Palazzo di Vetro, nel momento del collasso negoziale – ma dalle gravi carenze organizzative dei funzionari delle Nazioni unite. L’inadeguatezza del Bella Center a ospitare tutti i delegati, assieme alle condizioni climatiche estreme (ironia della sorte…), e alla gestione non ideale delle contestazioni, hanno aperto un’inattesa voragine di incomunicabilità che potrebbe avere conseguenze non triviali, nel futuro.
Negli anni scorsi, infatti, la burocrazia Onu e le organizzazioni ecologiste si sono sovente mosse in parallelo, in una sorta di gioco di ruolo non formalizzato nel quale rappresentavano, rispettivamente, il poliziotto buono e quello cattivo. Gli ambientalisti in piazza e sui media dovevano mettere sotto pressione i leader politici, i funzionari delle Nazioni unite offrire loro dei compromessi apparentemente ragionevoli. Il fatto che molte migliaia di attivisti accreditati siano stati lasciati fuori, esposti alle intemperie, mentre all’interno il castello di carte climatico crollava, ha determinato un’improvviso senso di frustrazione, come la perdita di un’alleanza a lungo sperimentata. Ricucire sarà difficile.
Soprattutto, però, nelle prossime settimane sarà sempre più chiaro che la logica di Kyoto – obiettivi quantitativi e vincolanti – rappresenta una sfida quasi insormontabile. Nonostante l’enfasi che era stata posta sulla conferenza, non è stato possibile non solo chiudere un accordo, ma neppure avvicinarsi a quell’obiettivo. Anzi, paradossalmente, il mondo non vi è mai stato tanto lontano. Poiché Kyoto scade nel 2012, il tempo per rimettere assieme i cocci è davvero limitato, specie se si considera che, qualunque decisione si prenda, le modalità di implementazione richiederanno impegno, fatica, e altro tempo. La prospettiva più probabile, ora, è quella di una balcanizzazione delle politiche climatiche, che verranno sempre più ricondotte a una dimensione nazionale o, al più, “plurilaterale” (quella degli accordi tra gruppi ristretti), anziché alla cornice multilaterale che, sulla carta, si voleva dare. Sono solo due le possibili vie d’uscita: o si cambia totalmente logica, abbandonando la pretesa europea di avere “targets and timetables” e cercando di focalizzarsi su tecnologie e processi secondo lo spirito della moribonda Asia-Pacific Partnership di George W. Bush.
L’altra alternativa – in questo momento più probabile – è quella di un mondo a più velocità, con l’Europa “leader” nella lotta al cambiamento climatico (qualunque cosa significhi), gli Usa così così, il resto del mondo meno incline a sacrificare risorse in tale direzione. Se questo fosse l’effettivo esito di Copenaghen, allora, specie in Europa, è probabile che si torni a parlare di dazi ambientali ai danni dei paesi privi di politiche climatiche (Cina in primis), per tutelare le industrie esposte alla concorrenza internazionale. Questa sarebbe una direzione sciagurata, perché un avvitamento protezionista non salverebbe né il clima né l’economia, ma solo gli interessi politicamente più forti.
Aspenia online
21 Dicembre 2009