Desidero innanzitutto esprimere un vivo ringraziamento a Magna Carta e a tutti coloro che hanno contribuito all’organizzazione di questo incontro: oggi ci è stata offerta davvero l’opportunità di un serio confronto sulla riforma dell’Università prospettata dal disegno di legge governativo attualmente all’esame del Senato. Registro poi con soddisfazione che, pur nella diversità delle posizioni oggi espresse, vi è stata questo pomeriggio una quasi generale convergenza su una valutazione positiva degli obiettivi di fondo del disegno di legge: il provvedimento costituirà una salutare medicina per varie patologie che soprattutto in questi ultimi dieci o venti anni hanno afflitto le nostre università, quali le perniciose derive corporative, un reclutamento del corpo docente non sufficientemente attento alla qualità, l’eccessiva moltiplicazione delle sedi, la finanza allegra.
Per parte mia, dovendo essere breve, mi limiterò ad alcune considerazioni di carattere generale e a poche osservazioni su specifici punti del disegno di legge, rimandando per un più approfondito esame al riassunto del mio intervento in discussione generale presso la VII Commissione al Senato nella seduta di mercoledì scorso 10 febbraio.
Prima considerazione. Il provvedimento si propone di conseguire gli obiettivi di un deciso miglioramento della qualità dell’offerta formativa e dello sviluppo dell’efficienza e della efficacia del funzionamento delle Università per mezzo dell’inserimento di un certo numero di controlli. E’ quello che di solito si fa quando si vuole intervenire in un sistema o in un processo per migliorarne le prestazioni. I controlli introdotti dalle varie disposizioni del provvedimento non sono affatto pochi. Ve ne sono di vari tipi, sia ex ante, sia ex post. Esempi di controlli ex ante sono le regole sulla “governance” delle Università. Esempi di controlli ex post sono la commissione “paritetica” professori-studenti per l’assicurazione della qualità della didattica e gli interventi dell’ANVUR. In linea di principio tenderei a limitare i controlli ex ante, onde lasciar spazio all’autonomia universitaria. Per i controlli ex post (che prevedono ovviamente incentivi e sanzioni) sottolineo, da ingegnere, l’importanza del tempo di retroazione, che deve essere più breve possibile. Tempi di retroazione troppo lunghi vanificano l’efficacia del controllo.
Seconda considerazione. Concordo con quanto è stato sottolineato in molti degli interventi: il disegno di legge contiene troppe disposizioni di dettaglio, va alleggerito e semplificato. Ad esempio, mi chiedo se sia opportuno stabilire per legge il numero minimo di 35 o 45 professori e ricercatori afferenti ad un Dipartimento, onde consentirne l’istituzione, nonché stabilire per legge il numero delle facoltà che possono essere istituite in una università in relazione al numero dei docenti e ricercatori presenti. Similmente mi chiedo se le dettagliate regole previste negli articoli 8 (“Istituzione dell’abilitazione scientifica nazionale”) e 9 (“Reclutamento e progressione di carriera del personale accademico”) non possano essere più opportunamente stabilite mediante regolamento. Mi pare anche eccessivo per la composizione del Consiglio di amministrazione richiedere che almeno il 40% dei Consiglieri sia esterno all’università .
Una terza considerazione, sulle due fondamentali attività dell’Università, la ricerca e la didattica. Ricercare e insegnare sono due azioni molto diverse, richiedenti modalità attuative, culture, attenzioni, linguaggi, forme di comunicazione tra di loro assai diverse, spesso divaricanti. Alla parola “ricerca” è ormai sottesa una tale enorme varietà di attività, che risulta difficile parlarne con precisione. All’università competono in particolare le ricerche di base, le ricerche “curiosity driven”, l’introduzione organica delle nuove scoperte nel corpus delle varie discipline, l’assimilazione della nuova conoscenza prodotta fuori dal nostro Paese. L’università partecipa inoltre con ricerche di appoggio alle imprese all’innovazione di nuovi prodotti, che è tuttavia ormai baricentrata sulle imprese, dato il costo e la grande complessità organizzativa.
Va anche aggiunto che, in buona parte delle materie scientifiche e tecniche, la vera ricerca richiede ormai un lavoro di gruppo assai complesso e multidisciplinare con strumenti costosi molto sofisticati, difficile da realizzare nelle nostre università. E’ opportuno infine sottolineare che la dinamica dell’esplorazione di una nuova nicchia di ricerca è abbastanza ben rappresentata da una curva ad “esse”: all’inizio si investe molto con pochi risultati (lentamente crescenti, ed è questa la fase – ad alto rischio – tipica dell’azione universitaria), poi i risultati arrivano copiosi e a costi ragionevoli, alla fine dell’esplorazione la redditività dell’investimento in ricerca si riduce e scompare.
Mi sono attardato in queste considerazioni in particolare per far rilevare quanto sia complessa e difficile la valutazione della ricerca universitaria e come una eccessiva enfasi su questa valutazione possa incidere su un “bene” molto importante, la libertà della ricerca universitaria, che è essenziale salvaguardare.
Veniamo ora all’altra attività fondamentale dell’università, la didattica. Osservo per prima cosa che il compito di alta formazione affidato attualmente all’università riguarda ormai nel nostro Paese un’imponente massa di giovani, una frazione considerevole della popolazione giovanile. Nel 2007 su 100 venticinquenni ben 44 erano laureati (36,6 uomini e 51,7 donne). Sempre nel 2007 (ultimo anno per cui disponiamo di statistiche complete) i laureati in Italia sono stati circa 300.000 (300.131), di cui 51.040 di laurea specialistica a doppio ciclo. L’Italia è ormai diventato uno dei Paesi al mondo che sforna annualmente più laureati. Alla grande maggioranza di questi giovani vanno forniti solo gli elementi fondamentali nelle varie discipline, assai distanti dal fronte delle conoscenze. A tale fronte accederanno solo i pochi che vogliono intraprendere con il dottorato di ricerca la carriera del ricercatore.
Su questo argomento può essere rilevante anche la seguente considerazione. L’Italia conta attualmente poco meno dell’1% della popolazione mondiale e contribuisce con la sua ricerca a non più di qualche percento (3-4%) alla nuova conoscenza che ogni anno viene prodotta al mondo. Per i nostri giovani (e per la competitività del nostro sistema economico) la cosa più importante è che tutta la nuova conoscenza prodotta nel mondo venga prontamente inserita, se del caso, nell’offerta formativa del sistema universitario. Per queste ragioni, così sommariamente delineate, a mio avviso, nelle nostre università una buona didattica è molto più importante di una buona ricerca.
Ed ora alcune osservazioni più puntuali. Per quanto riguarda l’art. 4 (“Fondo per il merito”) mi chiedo se sia opportuno prevedere che il merito venga individuato, come previsto dal comma 1, “mediante prove nazionali standard”. Ammettendo che il merito riguardi solo il 10% dei laureati di ogni anno, e quindi, con l’attuale ritmo di lauree, 30mila persone, non solo non è affatto facile effettuare prove nazionali standard per 30mila persone all’anno, oltre a tutto aventi una gamma assai estesa di lauree, ma è anche discutibilissima l’adeguatezza di prove nazionali standard a qualificare il merito, quale che sia il contenuto delle prove stesse. Ben vengano, comunque, ragionevoli forme di facilitazione della possibilità di autofinanziamento degli studi universitari.
Comunque, come stabilisce la Costituzione, prima di tutto va promosso il diritto allo studio degli studenti capaci e meritevoli. A questo fondamentale diritto il provvedimento al nostro esame dedica esplicita attenzione all’art. 5 (comma 5), che prevede una delega legislativa al Governo (con il pieno coinvolgimento delle Regioni) per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) da garantire su tutto il territorio nazionale agli studenti capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, onde consentirne l’accesso ed il conseguimento dei più alti gradi di istruzione.
Una esplicita osservazione meritano le disposizioni di cui al comma 7 dell’art. 10 e di cui al comma 9 dell’art. 12. Il comma 7 dell’art. 10 prevede da parte del Ministro, con apposito bando su base nazionale, la destinazione annuale di una quota del finanziamento ordinario delle università al finanziamento di assegni di ricerca, da attribuire a giovani studiosi di elevate e comprovate capacità. Similmente il comma 9 dell’art. 12 prevede, da parte del Ministro, con apposito bando su base nazionale, la destinazione annuale di una quota del finanziamento ordinario delle università al finanziamento di bandi per il reclutamento di ricercatori a tempo determinato, da attribuire a giovani studiosi di elevate e comprovate capacità. A mio avviso entrambi queste disposizioni costituiscono una centralizzazione eccessiva, non opportuna anche perché sia assegni di ricerca sia posizioni di ricerca a tempo determinato vanno inseriti fin dall’inizio nel contesto di un Dipartimento universitario, non piovere dall’alto da parte del Ministero. Sono personalmente favorevole alla soppressione di queste disposizioni.
Segnalo infine la grande importanza delle norme transitorie di cui all’articolo 15. Dobbiamo assolutamente evitare che le procedure di reclutamento in corso al momento dell’entrata in funzione della legge al nostro esame siano ipso facto interrotte, come sembra prescrivere il comma 1. Concludo con l’apprezzamento fatto poco fa dal prof. De Vergottini circa la forma di disegno di legge (e non di decreto legge) adottata dal Governo per il provvedimento al nostro esame: una forma che consentirà al Parlamento – ne sono certo – sull’importantissima disciplina della governance della Università e del reclutamento del personale docente (i principali oggetti del disegno di legge) di esprimere al meglio le proprie capacità di legislatore.
(Il testo dell’intervento del Senatore Guido Possa al Convegno della Fondazione Magna Carta sulla riforma dell’università).