(Editoriale del 25° numero di Ventunesimo Secolo)
Nelle interpretazioni storiografiche che si sono succedute dal 1989 a oggi è raro imbattersi in tesi che in maniera convincente mettano in dubbio quanto, a sponde opposte, hanno per primi sostenuto François Furet ed Eric Hobsbawm: che il Novecento abbia avuto inizio con lo scoppio della Grande Guerra, l’evento che segnò un brusco e inimmaginabile mutamento del tempo storico.
Meno convincente, a nostro avviso, è che il secolo successivo si sia aperto con la caduta del Muro di Berlino. Non solo perché tanti fenomeni che pure sono stati generati dalla prima guerra mondiale non hanno in realtà trovato soluzione con l’implosione dell’Unione Sovietica − si pensi, ad esempio, alla crisi nei Balcani che rimanda alla dissoluzione dell’Impero asburgico o al problema delle nazionalità. Ancor più perché l’89 non ha segnato il passaggio diretto a un nuovo paradigma quanto, piuttosto, ha introdotto una fase di decantazione nella quale conflittualità, fratture ed equilibri del passato sono venuti meno senza far emergere la fisionomia di una nuova epoca.
Il passaggio tra un secolo e l’altro può dirsi definitivamente compiuto solo con l’avvento dell’11 settembre 2001. Sicché, per gli amanti delle periodizzazioni, si potrebbe affermare che l’89 segni l’ingresso del mondo in una sorta di limbo della storia nel quale i “residui” del vecchio secolo si combinano con l’enuclearsi di tematiche e sfide che avrebbero caratterizzato il nuovo. Fin quando i tragici fatti dell’11 settembre sarebbero giunti a squarciare il sipario facendo improvvisamente apparire sul palcoscenico del mondo nuove fratture, nuovi attori protagonisti, inedite consapevolezze delle pubbliche opinioni.
Il numero della rivista che qui presentiamo cerca di dare sostanza a questa tesi, attraverso la ricostruzione del primo decennio del Ventunesimo secolo: dall’abbattimento delle Torri Gemelle fino all’uccisione di Bin Laden. E in questa cornice gli articoli in esso contenuti descrivono un percorso di lettura organizzato intorno a quattro scansioni analitiche.
Il primo stadio di questo percorso è costituito dagli articoli di Antonio Varsori e Bruce Bawer che ricostruiscono come su opposte sponde − in Europa e in America − intellettuali e politici abbiano letto le conseguenze dell’11 settembre e il progressivo sedimentarsi delle inedite fratture del nuovo ordine mondiale. I due articoli, in realtà, non presentano lo stesso taglio analitico: più di ricostruzione storica quello di Varsori, più da intellettuale engagée quello di Bawer. Non di meno, il combinato disposto della loro lettura dà l’idea di quanto sia stata grave la frattura tra Europa e America, di come essa abbia investito motivazioni identitarie profonde e del perché, al termine del decennio, essa non possa ancora dirsi rimarginata.
Si potrebbe obbiettare: dalla lettura degli articoli di Varsori e Bawer emerge anche, certamente, come, in questi dieci anni, quanti nei due campi contrapposti hanno tematizzato il conflitto tra Venere e Marte, di fronte all’evidenza dei fatti, siano stati costretti a edulcorare le rispettive tesi. In particolare, coloro i quali nella “Vecchia Europa” hanno individuato nell’antiamericanismo un collante identitario in grado di generare un nuovo patriottismo continentale, hanno dovuto prendere atto dei ripetuti fallimenti accumulati lungo la via che avrebbe dovuto condurre alla Costituzione europea. E si sono trovati a confrontarsi con una crisi dell’Unione dalle cause profonde e complesse, che nessuna scorciatoia identitaria è stata in grado di alleviare. Sulla sponda atlantica, d’altro canto, ci si è trovati a fare i conti con strategie politiche che hanno fortemente corretto al ribasso gli ardori unilateralisti dell’immediato post 11 settembre.
E queste novità, è bene sottolinearlo, hanno preceduto l’avvento del nuovo presidente democratico Obama, essendosi già generate nel secondo mandato di George W. Bush. Non solo: anche in quanti si confermano nella convinzione che il conflitto di civiltà rappresenti la struttura del nuovo secolo − Bawer è senz’altro tra questi − vi è la consapevolezza di un sostanziale cambiamento di strategia da parte del “nemico” che impone una revisione dell’analisi. Alle pratiche della guerra di civiltà d’inizio millennio sarebbe succeduta la “ihad dolce”: una sorta di revisione dei processi d’islamizzazione dal vago sapore gramsciano, per la quale “la conquista” si starebbe compiendo evitando conflitti cruenti e puntando [per puntare], piuttosto, sull’espropriazione, casa matta dopo casa matta, di tutte le postazioni degli infedeli, complice la deriva demografica che alla lunga lascerebbe assai poche chances ai resistenti.
Sicché, per contrastare questa inedita versione della jihad, s’imporrebbe, come logica conseguenza strategica, un più sofisticato utilizzo del soft power. Tutto ciò è vero. È altrettanto vero, però, che le novità emerse nei due campi contrapposti modificano ma non sanano il conflitto originario che l’11 settembre ha evidenziato. E proprio l’indagine sulla profondità di una frattura culturale e strategica, al di là di esasperazioni momentanee dettate dalle contingenze, rappresenta il secondo stadio del percorso d’analisi proposto.
Il suo approfondimento è affidato al saggio di Alia Nardini sui neo-con: quella che a tutti gli effetti può considerarsi la corrente intellettuale più caratteristica del post 11 settembre. L’articolo chiarisce innanzitutto come l’epifania dei neo-con, se per i profani è strettamente connessa allo shock dell’11 settembre, in realtà ha un retroterra ben più ampio che affonda le sue radici nel decennio della cosidetta “vacanza strategica” (quello che per gli Usa s’inaugurò dopo la vittoria della guerra fredda e segnò in particolare l’ultima fase della presidenza di Clinton) e nella conseguente necessità di ripensare il ruolo strategico degli Stati Uniti in un nuovo ordine mondiale. Proprio per questa ambizione, il fenomeno appare difficilmente collocabile lungo il tradizionale continuum destra- sinistra. Non rappresenta certo un caso che molti dei suoi esponenti della prima ora provengano dalle fila dei democrat. Per la stessa ragione, molti tra i neo-conservatori, dopo essersi convertiti al “bushismo”, non hanno avuto remore a distaccarsi dal “loro” presidente quando, nel corso del suo secondo mandato, egli è sembrato rinnegare, o quanto meno mitigare, alcuni capisaldi della politica estera interpretata nell’immediato post 11 settembre. Per rintracciare il fondamento delle posizioni neo-con, dunque,
Alia Nardini consiglia di cercare lontano dalle categorie politiche tradizionali, guardando a quella sintesi tra idealismo e realismo, di volta in volta differente ma costante nel tempo, che è sempre stata la cifra più vera e caratteristica della politica estera americana. Ed è proprio questa ricerca che, in fondo, impedisce di considerare i neo-conservatori una meteora che ha dato quel che poteva nel corso della presidenza di George W. Bush per poi eclissarsi con la stessa rapidità con la quale è assurta alle cronache. Alia Nardini chiarisce come le idee del gruppo non possono certo declinarsi al passato e lo stesso sforzo dell’attuale presidenza Obama di sedimentare il ruolo dell’America in un ordine mondiale che lentamente va consolidandosi non può ritenersi del tutto estraneo all’orizzonte teorico che i neo-conservatori hanno sdoganato. Proprio questa convinzione conduce verso il terzo stadio dell’analisi: è possibile riannodare i fili del decennio individuando i tratti di fondo che − oltre gli avvenimenti straordinari, gli effetti speciali, i cambi di presidente e le repentine svolte elettorali − consentono di mettere in comunicazione l’inizio con la fine del primo decennio del nuovo secolo, il crollo delle Torri gemelle con le rivoluzioni che stanno sconvolgendo l’Africa del nord? La risposta a questo quesito di fondo è affidata a un trittico di articoli.
Quello di Maurizio Molinari − uno dei più profondi conoscitori dell’America post 11 settembre − analizza come le novità strategiche introdotte dal presidente Bush all’indomani della “grande paura” si siano modificate alla luce dei progressi tecnologici nei sistemi d’arma ma ancor più per la necessità di applicare queste novità ad approcci e strategie inedite imposte innanzi tutto delle cangianti mosse del nemico. Tutto ciò, però, non ha fatto venir meno − e neppure scalfito − l’idea originaria di una lunga guerra contro il terrorismo dai caratteri non convenzionali: un aspetto che, al di là di ogni pur rilevante modificazione, lega nel segno della continuità le scelte dei due ultimi presidenti americani.
L’articolo di Michel Ledeen ruota, invece, intorno a un’altra persistenza: il problema iraniano che, con evidenza, l’autore ritiene centrale nel quadro delle opzioni strategiche che l’America deve assumere per ricoprire efficacemente il suo ruolo di baluardo della democrazia di fronte ai problemi di un nuovo secolo. Problema che, Ledeen ritiene, con la stessa evidenza, essere stato inevaso da Bush così come da Obama. È questo, in fondo, il motivo per il quale egli ha giudicato con scetticismo l’azione dell’amministrazione Bush in Iraq: si sarebbe scelto l’obiettivo sbagliato. E lo stesso giudizio scettico egli riserva, in fondo, alla rivoluzione democratica nord-africana. Obama, appoggiando quel magmatico fenomeno, starebbe, secondo Ledeen, seguendo le tracce del suo predecessore, sfiorando solo il nocciolo del problema da cui dipende la stabilità del Medio Oriente, senza avere la forza e il coraggio per portare l’insurrezione democratica laddove veramente sarebbe vitale per le sorti del mondo.
Loquenzi e Quagliariello, infine, ricostruiscono i tratti salienti della “dottrina Bush” così come essi furono esposti e posti in atto all’indomani dell’abbattimento delle torri. Ne rintracciano le radici sia nel passato remoto che in quello più prossimo della politica americana. E analizzando in particolare le differenti fasi della guerra contro Saddam − il principale terreno di sperimentazione dell’efficacia della “dottrina” – hanno cercato di comprendere quanto di quel sistema d’idee sia stato annientato dalla sua applicazione concreta, cosa possa essere corretto e cosa, invece, rimanga di bruciante attualità di fronte alla sfida democratica lanciata in nord Africa.
Attraverso questi tre articoli si è cercato di fornire al lettore una sorta di catalogo delle rotture e delle continuità della politica estera americana dell’ultimo decennio, utili ad interpretare lo stato di quell’instabile equilibrio mondiale che l’11 settembre ha disvelato. Quando il numero si trovava già in fase di lavorazione, è sopraggiunta la notizia dell’uccisione di Osama Bin Laden. Abbiamo allora affidato a Roberto Santoro il compito di leggere le reazioni che la sua morte ha suscitato e di interpretare il trattamento riservato al cadavere dell’uomo che nell’immaginario occidentale ha impersonato la responsabilità del dramma dell’11 settembre.
Le analisi consacrate al corpo del nemico possono considerarsi ormai un classico degli studi antropologici. Quella di Santoro attesta che, in questo caso, il modo nel quale la morte di Bin Laden è venuta ed è stata gestita, più che alle esigenze di un finale di partita sembra rispondere alle necessità di una guerra ancora in atto che si conferma lunga, così come fu annunziato dopo quel tragico giorno che sconvolse il mondo. La scelta di rendere quel corpo definitivamente invisibile, insomma, non si limita a suggellare la fine di un decennio. Ancor più, certifica la matrice di un inizio: quella di un secolo da poco in cammino.