Cari amici,
qualche breve considerazione per concludere i nostri lavori. Ringrazio gli autorevoli relatori che hanno accolto l’invito dell’Associazione Amici di Marco Biagi e della Fondazione Magna Carta, ringrazio tutti voi per essere intervenuti, e consentitemi un ringraziamento particolare a Maurizio Sacconi non solo per aver ideato e animato questa iniziativa, ma anche per il più coraggioso tentativo di riforma del sistema di protezione sociale umanisticamente orientato che l’Italia abbia conosciuto negli ultimi decenni.
Non sfuggirà a nessuno la profonda attualità del tema che abbiamo discusso quest’oggi. Affrontare il tema del welfare, e più in generale il tema del lavoro inteso in una accezione globale, non significa semplicemente far quadrare i conti e perseguire un equilibrio di bilancio, ma, soprattutto in un momento di crisi profonda come quello che stiamo attraversando, che in Italia oltre ad essere crisi economico-finanziaria è anche crisi demografica e crisi di sostenibilità di un sistema di relazioni sociali discriminatorio e fondato su presupposti sbagliati, parlare di welfare significa interrogarsi sulla concezione della persona umana che si ha in mente e sul modello di Stato che si intende realizzare. Significa compiere delle scelte: scelte di impiego contingente delle poche risorse a disposizione, e di indirizzo strutturale per il futuro della nostra società.
E’ evidente a tutti che nessuno può pensare di avere la bacchetta magica: non ce l’aveva il governo Berlusconi, non ce l’ha il governo tecnico che pure rispetto al precedente esecutivo poteva contare su due elementi di vantaggio non indifferenti: una larghissima base parlamentare, e l’assenza di un originario veto pregiudiziale da parte di alcune formazioni sindacali che invece al ministro Sacconi non avevano concesso neppure lo sforzo di sedersi intorno a un tavolo e – come si dice – “andare a vedere le carte”. Del resto, il fatto che non esistano ricette miracolistiche né tecnici della provvidenza lo dimostrano proprio alcune polemiche di questi giorni: a dire che “la manovra sembra fatta da mio zio” non è stata infatti una forza politica di opposizione all’attuale esecutivo, e non è stato neppure il PdL che responsabilmente sostiene il governo Monti ma rispetto ad alcune scelte ha molto da dire e continuerà a dirlo. Leggiamo piuttosto che a evocare zii e parenti prossimi digiuni di economia sono stati leader sindacali moderati particolarmente attivi nell’ultima fase nel chiedere al governo Berlusconi più che un cambio di passo un vero e proprio passo indietro, e riconducibili a un’area che nell’attuale compagine è tutt’altro che sottorappresentata. E leggiamo oggi la Camusso individuare un “tratto autoritario” nella decisione del governo tecnico di volersi intestare grandi riforme di sistema che – bontà sua – il capo della Cgil riconosce oggi essere prerogativa della politica.
Insomma, mi pare che l’arrivo della manovra abbia sgomberato il campo da illusioni miracolistiche e dal tentativo di trasformare un governo d’emergenza nato per volontà e per responsabilità della classe politica nella panacea di tutti i mali o in un club di salvatori della patria titolare di improprie forme di legittimazione.
E allora, se è vero che la politica è anche empiria e confronto con i dati di realtà, e se il cambio di governo e l’attuale fase consentono una maggiore serenità di giudizio rispetto a quella che si è avuta sul tema del lavoro e del welfare nei primi tre anni e mezzo di legislatura, nei quali le forme di dissenso hanno rasentato toni da periodi bui della storia d’Italia, per tirare le somme vorrei partire proprio da ciò che è stato fatto e si sarebbe voluto fare, e soprattutto dall’idea di fondo che sottende un’azione politica che continua.
L’idea di fondo è che al centro di tutto, prima delle sovrastrutture, vi sia la persona umana e la sua realizzazione, nella sua dimensione individuale e relazionale. E dunque che la presa in carico da parte dello Stato segua un approccio solidale e non assistenziale, e a fronte di situazioni di disagio agevoli la creazione di opportunità e solleciti l’esercizio di una responsabilità. L’idea è che in un tessuto sociale così profondamente segnato dalla crisi internazionale e dal divario fra Nord e Sud, se si vuole consentire a chi è più indietro di colmare il gap di sviluppo, ferma restando la concertazione con le parti sociali si deve consentire alla contrattazione di esplicarsi in forme diverse e decentrate a seconda del contesto, affinché la domanda e l’offerta di lavoro possano più facilmente incontrarsi, e mettere in moto un meccanismo virtuoso di sviluppo laddove esso ancora non c’è.
L’idea è che la burocrazia non debba essere ostile e nell’intrapresa il divieto debba essere l’eccezione, per cui è permesso tutto ciò che non è proibito e non viceversa. L’idea è che il fisco non debba essere indifferente agli sforzi della persona, ma riconoscere la particolarità di quelle prestazioni che derivano da uno specifico impegno e da una specifica disponibilità del lavoratore. L’idea è che l’equilibrio fra tutela e flessibilità possa funzionare in maniera tale da impedire che un imprenditore prima di assumere una persona debba pensarci cento e mille volte e alla fine magari decidere di non assumerla, per il timore di non poter modificare un domani l’assetto della propria impresa in caso di oggettive difficoltà economiche.
Su tutti questi versanti, i veti, le campagne di disinformazione e gli innumerevoli ostacoli frapposti non hanno impedito a Maurizio Sacconi, al governo Berlusconi e al centrodestra di avviare una profonda opera di modernizzazione. E anche di fronte alla durezza della crisi, con sobrietà e consapevolezza si è scelto di scegliere. Le imprese, strette tra il drastico calo di ordini e la richiesta di rientrare delle loro esposizioni bancarie, si sono trovate davanti al problema di cosa fare del personale alle loro dipendenze. La sinistra aveva in tasca la propria ricetta di bandiera: rivedere l’applicazione dell’indennità di disoccupazione allargandola a tutte le posizioni lavorative. Sarebbe stato un devastante e generalizzato invito a licenziare. Il governo ha deciso invece di investire sugli ammortizzatori sociali: ha messo in campo ben 32 miliardi per la cassa integrazione, estendendone la copertura ai tanti settori che fino a quel momento ne erano privi. Il risultato è che tanti posti di lavoro sono stati salvaguardati, e a fronte di una crisi finanziaria internazionale che si è fatta sempre più acuta il ricorso alla cassa integrazione ha fatto registrare i primi segnali di flessione.
Non era semplice decidere il da farsi: le risorse erano e sono assai limitate, e a fronte di un debito pubblico abnorme accumulato da generazioni che hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità scaricando sui figli il costo del proprio benessere, la priorità strutturale era sottoscrivere un nuovo patto generazionale che ridimensionando i privilegi presenti degli adulti restituisse ai giovani il diritto al futuro. Ma c’era un problema serio nell’immediato: quello dei padri che usciti dal mercato del lavoro in età adulta a causa della crisi rischiavano di non rientrarci. Come ha ricordato ieri Maurizio nella sua bella lettera al Corriere della Sera, nel pieno dell’emergenza il governo Berlusconi ha puntato le poche risorse disponibili sugli ammortizzatori sociali e il sostegno al reddito per la generazione dei padri, riservando ai figli incisive riforme del sistema che per il loro carattere strutturale necessitano di un tempo più lungo di quello dell’emergenza, durante il quale sarebbe stato un disastro sociale abbandonare le famiglie al loro destino. Oggi rischia invece di abbattersi sugli adulti una scure recessiva e priva di ogni gradualità, e sui giovani l’illusoria panacea di interventi finalizzati all’aumento immediato del reddito piuttosto che alla moltiplicazione delle opportunità.
Sappiamo che trovare un equilibrio non è facile, e non ripeteremo l’errore di quanti criticavano noi senza misurarsi con la realtà. Ma non rinunceremo a batterci per una rivoluzione culturale prima ancora che economica o giuridica, che riporti la persona al centro delle scelte politiche e sostituisca la nozione di “diritto del lavoro” con la concezione di un “diritto del mercato del lavoro per un diritto al lavoro” che dia piena attuazione al senso profondo del dettato di cui all’articolo 4 della nostra Costituzione.
Se vogliamo lasciare ai nostri figli un futuro con maggiori opportunità dobbiamo scardinare quella visione classista, discriminatoria e oserei dire razzista per la quale la tutela del lavoro coincide sic et simpliciter con la tutela degli attualmente occupati – e addirittura di una minoranza di occupati -, nella totale indifferenza nei confronti di inoccupati e disoccupati, per non parlare di chi svolge mestieri che non siano alle dipendenze altrui. Come se l’occupazione meritevole di tutela fosse solo quella conseguita in determinate forme e in un determinato momento; come se la rete di protezione del mercato del lavoro non dovesse riguardare anche e soprattutto chi un’occupazione non ce l’ha o chi l’ha momentaneamente perduta e deve poter ambire a riconquistarla; come se il posto di lavoro fosse una nozione ideologica e non già strumento e viatico della realizzazione personale.
Sono questi gli unici presupposti possibili per guardare al futuro e scrivere un nuovo patto con i nostri figli. Noi continueremo a fare la nostra parte. Prendiamo atto delle intenzioni del nuovo governo di voler abbattere totem ritenuti intoccabili. Il governo Berlusconi, il ministro Sacconi, avevano iniziato a farlo senza mai perdere di vista l’equità e la solidarietà sociale. Attendiamo alla prova dei fatti se il nuovo esecutivo saprà fare altrettanto. Grazie.