Lo statuto dei lavoratori, nel suo spirito, che conosco per aver vissuto a fianco del ministro del lavoro, Giacomo Brodolini, malato terminale che impiegò gli ultimi mesi della sua esistenza per adempiere a una missione di socialismo umanitario, era rivolto ad affermare la libertà e dignità dei lavoratori. Il titolo primo è, appunto, dedicato alla “Della libertà e dignità del lavoratore”. In coerenza con tale enunciato l’articolo 1 afferma che “I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche e sindacali e di fede religiosa hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.
Le norme successive di questa parte mirano tutte a tutelare e promuovere i principi di libertà politica, civile e personale dei lavoratori e la loro dignità. Il titolo secondo, in cui è contenuto l’articolo 18, è dedicato alla libertà sindacale, come ulteriore specificazione dei principi di libertà e dignità di cui al titolo I. L’articolo 18, in particolare, mira a tutelare i diritti politici e sindacali dei lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali, che, allora, quasi sempre erano parte dei lavoratori medesimi. L’articolo 18 voleva evitare il ricatto licenziamento del sindacalista che difendesse i propri compagni di lavoro in modo non gradito al datore di lavoro. Lo spirito e il messaggio di questo articolo che mirava ad affermare la dignità dei lavoratori, come cittadini liberi, stabilendo che non si può effettuare un licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, sono stati stravolti.
Esso è diventata, nella prevalente interpretazione, una norma di salvaguardia per lavoratori che si assentano sistematicamente dal lavoro senza giustificato motivo o che sono sotto processo per reati comuni, in attesa della sentenza definitiva di condanna. Mentre se è vero che nessuno può essere considerato colpevole sino a quando non ci sia una sentenza inappellabile, non si dovrebbe negare al datore di lavoro la possibilità di licenziare, con pagamento dell’indennità relativa, una persona nei cui confronti è venuto a mancare il rapporto di fiducia indispensabile.
L’interpretazione restrittiva e distorsiva dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che comporta il divieto di licenziare sempre e comunque, ha portato all’adozione di figure contrattuali diverse dal contratto a tempo indeterminato, per obbiettivi elusivi della sua rigidità.
Così ha gettato anche un’ombra ingiustificata sulle figure contrattuali flessibili quali il contratto a termine rinnovabile, quello coordinato continuativo, poi parzialmente surrogato dal contratto a progetto, quello di formazione-lavoro e quello di lavoro domestico: come se questi contratti fossero, di per sé, espedienti elusivi, rispetto a quello a tempo indeterminato, irrigidito dall’interpretazione distorta dell’articolo 18. Poiché questo si applica alle unità aziendali con più di 18 addetti, si è creata una barriera artificiosa alla crescita aziendale. Anche la contrattazione periferica, articolata, che era nello spirito dello statuto dei lavoratori, nella sua affermazione dei diritti di libertà, di tutela delle attività sindacali in azienda e nella sua difesa del rappresentante sindacale di base, è stata osteggiata, vista come pericolosa, in quanto la difesa del centralismo con le sue conseguenze di neocorporativismi e consociativismo è diventata un tabù.
La contrattazione nazionale concertata, e quindi l’irreggimentazione sindacale, come strumento per massimizzare le concessioni dello Stato, ha surrogato quelle che si possono ottenere nell’economia sulla base del merito personale della produttività. Il pluralismo dei contratti, fra quelli più o meno flessibili e quello nei contratti, fra quelli nelle diverse sedi territoriali e produttive, con l’aggancio al merito e alla produttività, vengono avversati. Sulla sponda opposta, ma con risultati talvolta incredibilmente convergenti, è emersa la tesi per cui vi dovrebbe essere un solo tipo di contatto di lavoro, quello a tempo indeterminato, privo di ogni clausola di giusta causa, quale tesi del vero liberalesimo, che in quanto vero sarebbe automaticamente di sinistra e quindi anche fonte di giustizia e crescita economica .Ma questa non è una linea di libertà.
Il principio della libertà di scelta contrattuale, comporta una dottrina di “cento fiori” di pluralismo verticale fra contratti, ed orizzontale nei contratti. E non mi pare illiberale la clausola per cui non si può licenziare un lavoratore o una lavoratrice senza “giusta causa”: in una società libera, in cui i lavoratori hanno dignità, non è giusta causa di licenziamento l’opinione politica o la fede religiosa espresse dal lavoratore, se ciò non intralcia il lavoro assegnato a ciascuno, non è giusta causa, il licenziamento di una lavoratrice che non concede i propri favori al capo ufficio o al figlio dell’amministratore delegato. L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori va mantenuto, con il chiarimento della nozione di giusta causa. E nello spirito dei principi di libertà, dello statuto dei lavoratori vanno mantenute le libertà contrattuali dei lavoratori, sia per quanto riguarda le varie tipologie di contratto, sia per quel che concerne la contrattazione e la rappresentanza sindacale decentrata. Ma dallo statuto dei lavoratori occorre muoversi allo statuto fiscale dei lavoratori, al fine di realizzare le altre specie forma di libertà e di dignità, quelle dei lavoratori nei riguardi del fisco del governo (statale, regionale e locale) e del fisco previdenziale. Fra i due statuti vi è una correlazione in termini di diritti, fondati sul proprio lavoro personale, ed una correlazione in termini economici di sviluppo della produttività e della crescita economica.
Le proposte di statuto fiscale dei lavoratori o dei lavori su cui io mi intendo soffermare riguardano cinque tematiche del lavoro o meglio dei lavoratori, che investono cinque diversi condizioni dei lavoratori, e cinque principi politici ed economici e cinque proposte fiscali specifiche, che appaiono emblematiche, per la attuazione di tali principi.
I) Innanzitutto nello statuto fiscale del lavoro va stabilito il principio che la tassazione personale del reddito del lavoro deve essere impostata secondo criteri di produttività e pertanto deve premiare la retribuzione collegata al merito e quindi alla produttività e al prodotto nazionale. La tassazione progressiva del reddito di lavoro va sostituita o corretta dalla tassazione produttivistica. Ciò allo scopo di incentivare le politiche salariali che contribuiscono al miglioramento del reddito dei lavoratori, in modo sostenibile dal punto di vista collettivo, ossia mediante un incremento del reddito prodotto, che risulta vantaggioso anche per le aziende e per il pubblico erario. La proposta specifica riguarda la riduzione alla metà della tassazione fiscale e della pressione contributiva sulla retribuzione del straordinario, con un beneficio che varia fra il 30 e il 40 per cento della retribuzione netta per ogni ora in più di lavoro rispetto a quelle dell’orario ordinario. La proposta riguarda soprattutto il grande esercito dei lavoratori con contratto a tempio indeterminato.
Dal punto di vista del lavoratore è logico che le ore di lavoro straordinario siano tassate di meno, in quanto il sacrificio che egli fa, per effettuarle, è incrementale, rispetto a quello di un orario di lavoro normale. In una situazione di schiacciamento delle retribuzioni dei lavoratori italiani generata dalla competizione internazionale e dal cambio della lira all’euro, che ha generato un nuovo ventaglio di prezzi dannoso al potere di acquisto dei redditi da salario e stipendio, la via di uscita non consiste in aumenti di paghe a parità di prodotto e produttività, ma nell’incremento del prodotto e della produttività. E quindi, una delle soluzioni più semplici consiste nell’incrementare il reddito della famiglia e della nazione, mediante un aumento delle ore lavorate, nell’arco delle settimane e delle giornate. Ciò accresce l’utilizzo degli impianti e, quindi, aumenta la produttività in senso fisico. L’aumento degli orari straordinari, inoltre, consente di sviluppare l’offerta nelle epoche in cui essa è più pregiata e quindi aumenta la produttività in termini di valore economico.
Il sacrificio che ciò comporta può essere premiato con una riduzione delle aliquote fiscali e contributive, perché si basa, dal punto di vista economico, sui vantaggi arrecati alla collettività dall’aumento delle ore di lavoro ,quindi su una base imponibile aggiuntiva rispetto a quella ordinaria. Si può obbiettare che, in parte, il ricorso agli straordinari degli addetti ordinari comporta che si utilizza meno lavoro di altri addetti, ma ciò è vero solo in parte. Nel complesso, il sistema degli orari straordinari flessibili si traduce in un maggiore massa totale di ore lavorate. E il conto si può chiudere, per il fisco, quanto meno alla pari. Dal punto di vista fiscale la manovra rientra nei principi della curva di Laffer: ridurre le aliquote per avere più offerta e quindi più base imponibile, con un vantaggio per il contribuente che ha un maggior reddito Inoltre, per il fisco non vi è una perdita di gettito, in quanto la nuova norma presumibilmente, fa emergere anche ore di lavoro straordinario che sono attualmente effettuate con metodi di economia sommersa, a causa delle levata incidenza degli oneri fiscali e contributivi. Il ragionamento appena fatto per il fisco statale e locale per l’Irpef può essere fatto per il gettito dei contributi sociali riguardanti il bilancio dell’Inps.
Va anche aggiunto che poiché la pensione contributiva non è commisurata alle ore di lavoro effettuate ma a quelle dell’orario di lavoro normale, la detassazione al 50% per i contributi sociali relativi alla pensione contributiva corrisponde a un criterio perequativo.
In passato la tesi della riduzione al 50 per cento degli oneri fiscali e contributivi sul lavoro straordinario si poteva prestare all’obbiezione che l’allungamento dell’orario lavorativo può ridurre il numero di occupati. E in presenza di una elevata disoccupazione l’argomento, per quanto discutibile, in termini economici, poteva avere il suo peso. Ma la disoccupazione in Italia è ora il 5,7% contri il 12% di un tempo e nelle aree ove si concentra maggiormente l’attività produttiva è nulla. Sicché il principio lavorare meno, lavorare tutti, che già in passato era molto discutibile, attualmente è totalmente errato: sopratutto se ciò di cui si tratta non è la durata dell’orario ordinario, ma un aumento di orari, che accresce la flessibilità e che non è obbligatorio, ma volontario. Il principio “lavorare di più e meglio-lavorare tutti” deve rimpiazzare lo slogan “lavorare meno-lavorare tutti”. In questo ordine di considerazioni si possono immaginare altre detassazioni del lavoro basate sulla crescita della produttività, a condizioni che abbiano, come quella qui presentata, una base oggettiva e pertanto possano dare luogo a una norma fiscale e contributiva di detassazione oggettiva, facilmente attuabile, di carattere generale, sena creare aree di privilegio, volte a facilitare questo o quel contratto di categoria, a spese del contribuente nazionale.
II) Il secondo principio dello statuto fiscale del lavoro deve essere quello per cui al di là di un certo livello minimo garantito mediante il sistema pensionistico obbligatorio. il lavoratore ha diritto a provvedere autonomamente alla propria pensione, mediante il proprio risparmio. Sino ad ora questo principio è stato attuato in modo molto imperfetto e parziale, con riferimento all’impiego dell’indennità di fine rapporto, allo scopo di costituire il secondo pilastro del sistema previdenziale. In realtà, la manovra che è stata fatta è servita soprattutto per accrescere la disponibilità di fondi dell’Inps, che probabilmente non li investe, ma li redistribuisce, sicché al punto di vista della creazione di risparmio derivante dal lavoro, il risultato è stato esattamente il contrario di quello cui si vorrebbe mirare con il secondo pilastro previdenziale, ossia una pensione integrativa del lavoratore basata sul risparmio effettivo, non sul debito intergenerazionale. La proposta specifica, suscettibile di ulteriori applicazione, si riferisce a un regime di risparmio previdenziale volontario, dotato degli stessi privilegi fiscali e contributivi, di quello obbligatorio, a favore dei lavoratori con contratti atipici, assoggettati a un regime contributivo obbligatorio ridotto, in sostituzione della aberrante elevazione al 27 per cento dei contributi previdenziali obbligatori a loro carico, che ha chiaramente lo scopo di scoraggiare questi contratti. La proposta consiste nella detassazione almeno sino al 10 per cento della retribuzione dei lavoratori atipici sottoposti a regioni di aliquote contributive ridotte, qualora sia devoluta a forme di risparmio pensionistico volontario vincolato scelto dal lavoratore medesimo ,con trattenuta sulla sua busta i paga. Tali somme andrebbero esonerate da imposte e contributi sociali, in modo da essere equiparate ai contributi sociali devoluti alla pensione Ciò allo scopo di accrescere la prospettiva di pensione di questi lavoratori, senza sottoporli ad aggravi di contributi obbligatori, riducono la libertà di disposizione del proprio reddito dei lavoratori e che riducono la convenienza del lavoro atipico e non accrescono minimamente il risparmio derivante dal lavoro, destinato alle pensioni, ma accrescono il debito pensionistico dei contribuenti e, quindi, dei lavoratori. Si possono immaginare analoghe soluzioni, per altri lavoratori, per assicurare loro una futura pensione dignitosa, tramite la crescita del risparmio nazionale.
III) Nello statuto fiscale dei lavoratori occorre introdurre il principio per cui chi ha pagato pienamente la propria pensione ed ha aggiunto l’età di pensionamento stabilita dalla legge, ha diritto a effettuare liberamente, nella sua terza età, una attività di lavoro di ogni specie, in esenzione da nuovi contributi pensionistici, e senza decurtazione della sua pensione. Se la pensione deriva dai contributi pagati, non si comprende perché chi la ha ottenuta, con il proprio sacrificio, non debba essere libero di goderne senza alcun obbligo sociale ulteriore. Egli non dovrebbe pagare contributi sociali obbligatori per una nuova pensione aggiuntiva ipotetica, che risulta solo come un obbligo solidaristico verso terzi, totalmente infondato per chi ha soddisfatto a tutti i suoi obblighi di solidarietà sociale pensionistica, semmai dovrebbe avere diritto a un esonero fiscale per un accantonamento per ima assicurazione sanitaria e sulla vita. La consiste nell’esonerare da obblighi contribuivi nuovi e nel rendere pienamente liberi di lavorare in qualsiasi tipo idi attività, senza decurtazione della pensione, i lavoratori privati, uomini e donne, che hanno superato i 65 anni di età e hanno versato almeno 40 anni di contributi pieni. Si applicherebbe anche a quelli del pubblico impiego che hanno raggiunto la maggiore età di pensionamento ordinario stabilita per essi dalla legge e versato almeno 40 anni di effetti contributi pieni. Oltreché corrispondere a criteri di giustizia, questa proposta incentiva a ritardare l’età di pensionamento e può avere un effetto molto rilevante nel regolarizzare rapporto di lavoro informali. Farebbe emergere un’economia sommersa che è particolarmente sgradevole, perché riguarda forme i sfruttamento del lavoro di persone della terza età che hanno desiderio o anche bisogno pressante di lavorare per integrare il reddito familiare e dovrebbero poterlo senza problemi alla luce del sole. Il pensionato che ha prepagato tutto ciò che prende dall’Inps o dall’Inpdap, non va considerato come una persona che è stata messa fuori dal mondo del lavoro, dalla collettività, in cambio della pensione, ma come un cittadino che ha diritto di lavorare oppure no, godendo la pensione che ha costruito col suo lavoro.
IV) Il quarto principio che lo statuto fiscale dei lavoratori deve enunciare riguarda il lavoro non retribuito delle lavoratrici casalinghe. La casalinga, che a tempo pieno, nella famiglia, ha svolto un lavoro domestico continuativo non retribuito e, per questo poco appariscente, ma impegnativo e spesso faticoso dà alla società un contribuito a che sovente è interamente paragonabile a quello del lavoratore retribuito a pieno tempo. Dovrebbe, perciò, avere una tutela sociale maggiore di quella che ha attualmente, che consiste nella condivisione della pensione del codice che ha lavorato e poi nella fruizione della pensione di reversibilità se gli sopravive e nella pensione sociale se no n ha altro reddito adeguato. Ma essa, se inizia a lavorare nella terza età, può perdere la pensione sociale ed ha l’obbligo di versare contributi sociali, per una pensione futura di cui probabilmente non potrà fruire e, quindi, in realtà, por un illogico obbligo di solidarietà contributiva. La proposta pecifica consiste nella eliminazione degli obblighi contributivi per le persone hanno svolto un lavoro di casalinga, non retribuito, in famiglia con persone a carico per40 anni e che hanno superato i 65 anni di età. Inoltre qualora tali casalinghe abbiano diritto a una pensione sociale, qualora non svolgano attività lavorative retribuite, avranno diritto ad verla, sino alla concorrenza di un reddito pari al 50% della stessa, a titolo di pensione sociale della casalinga. Attualmente una donna di 65 anni che per necessità o perché libera da impegni di cura domestica si dedica a un lavoro paga i contributo sociali, a molto spesso non riceverà, verosimilmente alcuna pensione, non maturando i 15 anni minimi di contributi. Questa proposta, che mira a riconoscere la dignità del lavoro domestico e a tutelare la libertà di lavoro delle donne anziane che hanno svolto la attività di lavoro domestico non retribuito, per la famiglia, per una intera vita, avrà anche l’effetto di far emergere forme di economia sommersa, che riguardano questa categoria di lavoratrici, accrescendo la loro tutela e il livello di legalità nazionale. Il costo della copertura finanziaria è, pertanto, sicuramente molto modesto e, probabilmente, nel medio termine, risulterà nullo.
V) Il quinto tema, che occorre porre nello statuto fiscale dei lavoratori, riguarda i lavoratori pendolari. Essi sono costretti a un orario di lavoro, che, tenuto conto del tempo del viaggio, è molto maggiore di quello normale. Il viaggio pendolare spesso comporta disagi. E il lavoratore pendolare ha poco tempo per la famiglia e per il tempo libero, durante la settimana lavorativa. Spesso i mezzi di trasporto dei pendolari sono inadeguati. E lo statuto dei lavoratori andrebbe integrato da norme a favore dei pendolari, riguardanti l’obbligo della comunità locale di provvedere a lavoro favore a servizi adeguati di trasporto, ad asili nido e servizi di trasporto peri loro figli piccoli ,a parcheggi adeguati per i mezzi privati con cui, all’andata, raggiungono il mezzo pubblico di trasporto pendolare e, al ritorno, raggiungono la propria abitazione. Ma nello specifico, per quanto riguarda lo statuto fiscale dei lavori, la proposta che qui viene presentata è quella di un credito di imposta pari alla spesa per il mezzo pubblico di trasporto, ai fini dalla tassazione in Irpef, sulla base della documentazione dell’esborso effettivamente effettuato. Il credito di imposta non competerà, se la spesa del trasporto è a carico dell’impresa, in via diretta o mediante rimborso ma solo quando riguarda un onere sopportati dal lavoratore. Preferibilmente questo dovrebbe consistere in un abbonamento al mezzo (o mezzi) di trasporto, per il percorso al e dal luogo di lavoro, per tutto il periodo di svolgimento del lavoro, sulla base della tariffa ordinaria corrente. In tal modo il costo del trasporto, per quanto riguarda il mezzo pubblico, passa a carico del fisco. Inoltre il credito di imposta andrebbe trasformato in detrazione dall’imponibile, sino a un certo massimale, sopra i 2 mila euro mensili di retribuzione netta. Ma anche con queste limitazioni questa misura fa perdere al fisco una somma consistente, che andrebbe quantificata. A fronte del suo onere si avrebbe però un grosso beneficio collettivo, in quanto verrebbe incentivato l’impiego dei mezzi pubblici per il lavoro pendolare, rispetto al ricorso al mezzo di trasporto personale.