Pubblichiamo un articolo di Raimondo Cubeddu e Antonio Masala, tratto da Cosmopolis, rivista semestrale di cultura:
Liberalismo, liberismo e “antistatalismo”
I difficili anni del dopoguerra
A caratterizzare il liberalismo italiano nei primi anni della Repubblica fu la nota polemica tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi[1] riguardo la possibilità, sostenuta dal primo e negata dal secondo, che si potesse essere liberali senza essere liberisti, ossia che si potesse sposare la tradizione liberale pur senza attribuire particolare peso alla libertà economica, o, addirittura, negandone la fondamentale importanza. Anticipando i Liberals, per Croce l’economia era una sfera subordinata alla politica e all’etica, e la libertà economica poteva essere considerata come una libertà di second’ordine rispetto alla più ampia e pregnante libertà dello spirito. L’idea di Einaudi era invece che non vi può essere libertà se non c’è anche la libertà economica, per il semplice fatto che se si controllano i mezzi di produzione e di distribuzione della ricchezza si controllano anche i fini degli uomini, e gli si nega la possibilità di essere liberi; tesi questa sostenuta da tutti i liberali classici. L’autorevolezza di Einaudi diede per un po’ di tempo credito alla sua posizione, ma alla lunga fu l’idea di Croce ad affermarsi, e i liberali “einaudiani” vennero genericamente definiti liberisti, termine col quale, fino ad allora, nel linguaggio politico italiano, si era soliti designare, senza attribuirgli una precisa valenza filosofico-politica, quei sostenitori del libero scambio che si contrapponevano ai “protezionisti”.
Nell’Italia del secondo dopoguerra la storia di quello che i suoi avversari chiamavano “liberismo“(sovente qualificandolo con epiteti triviali), e che i suoi sostenitori intendevano invece come la continuazione di quel liberalismo (classico) occidentale che aveva influenzato anche il Risorgimento, è piuttosto travagliata. La si potrebbe definire come un tribolato tentativo di liberarsi da quella distinzione crociana – che Carlo Antoni definisce una «questione di natura universale […] una di quelle che travagliano la civiltà del nostro tempo, [che] è stata dibattuta da noi nei modi e nei termini propri della nostra tradizione [; a]ncora una volta, cioè, il pensiero italiano ha mostrato il suo peculiare interesse per la distinzione delle attività dello spirito umano» – cercando di dimostrare che non già di «questione di natura universale» si trattava, bensì di un dibattito che si manteneva aperto soltanto a cagione di una diffusa disinformazione sulla storia e sull’evoluzione della tradizione liberale, e che si fondava su un’anacronistica pretesa di voler conciliare l’hegelismo col liberalismo e di distinguere tra “liberalismo economico” e “liberalismo politico”. Se poi si tiene presente quanto lo stesso Antoni aggiunge, ossia che essa «ha attratto l’appassionato interesse del mondo intellettuale e specialmente dei giovani di allora [… e che] è stata determinante nella formazione dottrinale del nuovo partito liberale italiano, ma ha anche influito sugli atteggiamenti di molti intellettuali, che sono passati a costituire o a rafforzare i gruppi dirigenti dei partiti di sinistra»[2], si capisce quanto quella distinzione abbia pesato sulla storia del liberalismo italiano.
Ma per arrivare a staccarsi completamente dalla polemica ci vollero decenni, la scomparsa di molti di quanti ai due Maestri erano culturalmente ed affettivamente legati e, soprattutto, l’ingresso di nuove idee e di una nuova generazione di studiosi per i quali Croce costituiva l’esempio di una via da non seguire e Einaudi non bastava.
Dopo Einaudi, che fu l’ultimo esponente di una grande scuola di economisti, il liberalismo classico in Italia riscosse ben poco interesse. L’unico studioso a dare un contributo originale a quella tradizione di pensiero fu Bruno Leoni, la cui figura è emblematica sotto molti punti di vista. Studente di Einaudi ed allievo di Gioele Solari, Leoni seguì un percorso intellettuale autonomo il cui punto di svolta è costituito dal confronto, a partire dai primi anni Cinquanta, con gli esponenti della Scuola austriaca, e dallo sviluppo di una teoria del diritto e dell’ordine politico radicalmente liberale ed originale[3] che riscosse più interesse nella comunità scientifica internazionale che in Italia. Nel nostro paese persino il suo punto di partenza, la critica del positivismo kelseniano, aveva molte difficoltà ad essere compreso appieno, proprio per via delle conseguenze radicalmente liberali che egli ne traeva. Nelle sue opere mature, soprattutto Freedom and the Law del 1961, partendo dalla critica ad alcuni dei cardini del liberalismo classico, come ad esempio l’istituto della rappresentanza, arrivò ad avvertire l’insostenibilità, se non il fallimento, dell’equilibrio tra scelte collettive e libertà individuali tentato della democrazie liberali. Questo lo portò ad indicare la necessità, onde salvaguardare la libertà individuale, di una svolta in senso Libertarian caratterizzata, se non ancora da una scomparsa della politica, per lo meno da una netta riduzione delle competenze dello “stato”, ricondotto a garante delle dinamiche dello “scambio di pretese individuali”. Forse anche per questo motivo Leoni privilegiò il confronto con studiosi stranieri – ed è interessante notare come non si preoccupò di far tradurre la sua principale opera in italiano[4] – frequentando spesso varie università americane e soprattutto dedicando molte energie alla Mont Pélerin Society, l’associazione fondata da Friedrich Hayek nel 1947 che fu il luogo privilegiato di incontro e scambio di idee dei liberali di tutto il mondo, di cui fu prima segretario e poi presidente, e dei cui esponenti ospitò frequentemente saggi su “Il Politico”.
Nonostante il panorama del liberalismo italiano non fosse esaltante non mancarono però alcune significative manifestazioni di interesse per il liberalismo classico, il quale, lontano dall’Italia, viveva fin dagli anni Sessanta un periodo di straordinario rinnovamento e di fervore intellettuale, quantunque fosse politicamente minoritario pressoché ovunque. Quella che era una delle più importanti riviste economiche dell’epoca, “L’industria” diretta da Ferdinando di Fenizio, benché fosse su posizioni apertamente keynesiane dimostrò un certo interesse per gli studi degli Austriaci, e lasciò spazio a saggi sulla critica della pianificazione forse anche perché in quegli anni se ne discuteva tanto e si cercò di metterla in pratica con misure politiche che suscitarono la fiera disapprovazione dei “liberisti”. Sul fronte culturale è da segnalare la collana della casa editrice Vallecchi tramite la quale, nonostante lo scarso successo in termini di vendite e lo scarso impatto culturale, Renato Mieli aveva fatto tradurre alcuni importanti saggi di liberali contemporanei, quali Hayek (L’abuso della ragione, 1967, traduzione di The Couter-revolution of Science, del 1952, e La società libera, 1969, traduzione di The Constitution of Liberty, del 1960) e Milton Friedman (Efficienza economica e libertà, 1967, curiosa traduzione di Capitalism and Freedom, del 1962, quasi che il termine capitalismo risultasse sconveniente). Va poi ricordato come in quegli stessi anni uno dei maestri della scienza politica italiana, Giovanni Sartori, mostrò nei suoi scritti di conoscere bene le “nuove” idee liberali e tutte le potenziali tensioni tra liberalismo e teoria democratica. E vi fu poi Nicola Matteucci, che seppe tenere vivo lo studio dei classici del liberalismo, in particolare Tocqueville e la tradizione del costituzionalismo anglo-americano, e che con gli anni sarebbe poi entrato in contatto con il pensiero dei liberali classici contemporanei giungendo infine a scrivere un piccolo libro su Hayek[5] in cui tentava di conciliarne le idee con l’eredità della tradizione crociana. È anche da tener presente che in quegli stessi anni iniziò la parabola di Sergio Ricossa il quale, dopo essere stato per anni uno studioso di econometria, approdò a posizioni radicalmente libertarie illustrandone in modo originale, e con agile ed elegante scrittura, le tesi in libri, saggi ed articoli giornalistici che ebbero l’indubbio merito di mostrarne la consistenza teorica e l’importanza pratica.
La rinascita degli anni Settanta e Ottanta
Si è accennato in precedenza alla vigorosa rinascita della filosofia politica del liberalismo classico nei primi anni Sessanta, che avvenne soprattutto nell’ambiente scientifico di lingua inglese, e si è anche detto come a quella rinascita teorica non fosse inizialmente corrisposto un rinnovato interesse per una politica liberale. Tuttavia in molti paesi le cose iniziarono a cambiare durante gli anni Settanta. La crisi del socialismo e del keynesismo, i costi e le inefficienze del Welfare State e i problemi delle economie basate sul corporativismo (il riferimento è soprattutto al potere delle Trade Unions inglesi) iniziavano a segnare il passo e si guardava a ricette e modelli alternativi per tentare di uscire da quella crisi. Questa circostanza storica fece crescere l’interesse per le espressioni contemporanee del liberalismo classico, le quali si articolavano intorno a tre scuole di pensiero: la Chicago School, la Virginia School e soprattutto la Austrian School, e probabilmente contribuì al risveglio del liberalismo in Italia dove, anche se con considerevole ritardo, si iniziò a discutere delle principali opere filosofico-politiche scritte già nei primi anni Sessanta [6].
Tutte e tre queste Scuole, le cui dottrine economiche non potevano essere a lungo ignorate dato il successo che riscuotevano nel panorama internazionale, seppero trovare in Italia interpreti (quasi tutti membri della Mont Pélerin Society) attenti e capaci di disvelarne le potenzialità, ma le storie sono tra loro diverse. A occuparsi inizialmente di Friedman fu un suo allievo italiano, Antonio Martino, che non soltanto ne fece conoscere il pensiero ma tentò anche di applicarne le ricette economiche nella situazione italiana, portando avanti diverse iniziative culturali e politiche. Delle idee della Virginia School si occupò per primo approfonditamente Domenico da Empoli, che fece anche tradurre molte opere in lingua italiana. A livello politico però le idee della Virginia School furono portate avanti da un economista amico di Buchanan, Francesco Forte, il quale, da esponente del Partito socialista, fu Ministro delle Finanze e tentò di fare un uso “tecnico” delle idee di Buchanan. Una caratteristica delle tesi sia della Virginia che della Chicago School è infatti quella di aver saputo elaborare delle ricette per migliorare le performances economiche, ricette che però non necessariamente possono essere applicate solo da politici liberali. Avvenne dunque in Italia, come in altri paesi era successo ad esempio con il monetarismo di Friedman, che ad entrare nel dibattito e nelle scelte politiche fossero le ricette economiche ma non le teorie liberali che stavano dietro quelle ricette, con risultati che spesso lasciavano decisamente a desiderare. Da non trascurare è poi l’interesse che Franco Romani manifestò, tra i primi in Italia, per le idee di Ronald Coase e di quello che si suole definire come “neo-istituzionalismo”. Tuttavia, al di fuori di Martino, che svolse un ruolo di primo piano nell’elaborazione del programma economico-politico della nascente Forza Italia (formazione politica che comunque in seguito si allontanò da una prospettiva, per così dire, radicalmente “liberal-liberista”), questo risveglio, quantunque largamente popolare nell’iniziale cultura politica vicina a quel partito (si pensi alle prime annate della rivista “IdeAzione”), non trovò un immediato sbocco politico.
Altrettanto tortuoso fu l’ingresso delle idee della Scuola austriaca in Italia, ma per motivi diversi. Tutto iniziò con la scoperta di Karl R. Popper da parte di Dario Antiseri, sin dai primi anni ’70. Popper non era però un esponente della Scuola austriaca in senso stretto, ma un filosofo della scienza e della politica con inclinazioni liberali il quale, con La miseria dello storicismo e La società aperta e i suoi nemici, aveva rivolto al determinismo della filosofia della storia (Historicism), destinato sfociare nella mentalità e nelle istituzioni totalitarie, critiche che i tanti marxisti di allora trovavano irritanti quanto difficili da confutare. Il suo pensiero, tuttavia, poteva essere utilizzato anche nell’abito “neutro” della metodologia delle scienze sociali e della filosofia della scienza (come ad esempio fecero Marcello Pera, Luciano Pellicani, Lucio Colletti) traendone allora conclusioni vagamente “socialdemocratiche” che rispondevano al tentativo di espellere il materialismo storico e le esperienze totalitarie sovietiche da una revisionata teoria politica che fondeva pienamente la socialdemocrazia con la democrazia liberale, e successivamente, come nel caso di Giancarlo Bosetti, al desiderio di una sinistra democratica in senso americano che faceva i conti col 1989. Naturalmente di Popper si poteva anche dare una lettura liberale, in maniera probabilmente più opportuna se si considerano le sue teorie e le sue personali convinzioni, cosa che avvenne negli anni Ottanta con lo stesso Antiseri ma anche con i più giovani Raimondo Cubeddu, Lorenzo Infantino e Angelo M. Petroni. A partire da questi studi su Popper nacque l’interesse per la Scuola austriaca, interesse che si sarebbe progressivamente accresciuto catturando l’attenzione, oltre che degli studiosi citati, di vari scienziati sociali e di alcuni economisti, tra i quali, per la rilevanza teorica dei contributi e per l’interesse ad altre componenti della tradizione economica liberale contemporanea, come quella dei Property Rigths, va segnalato Enrico Colombatto. Nel campo delle scienze giuridiche spicca il contributo di Pier Giuseppe Monateri che confronta una profonda conoscenza della tradizione giuridica liberale con le nuove problematiche dei diritti di libertà.
Delle tre Scuole del liberalismo classico novecentesco quella Austriaca è probabilmente la più radicale, nel senso che, al contrario delle altre due, non ha ricette economiche pronte da usare da parte di qualunque governo e in tutte le circostanze, e al contempo non si presta molto a compromessi con chi non ne condivida i presupposti liberali. Ma, al di là dell’influenza che Ludwig von Mises in particolare ebbe sulla rinascita del Libertarianism americano (Murray N. Rothbard, per fare un solo ma assai significativo esempio, fu suo allievo a New York) è probabilmente anche la più articolata e filosoficamente fondata delle tre. Infatti essa, già col suo fondatore Carl Menger, propone una spiegazione riguardo il formarsi e l’evolversi delle istituzioni sociali e una chiara idea su quale sia l’ordine politico “buono”, spiegazione che si fonda su una teoria generale dell’azione umana connessa alla “teoria dei valori soggettivi”. Per questo non stupisce che la Scuola austriaca abbia richiamato l’attenzione di studiosi con formazione e interessi assai diversi: dalla metodologia economica alla teoria pura della conoscenza e all’urbanistica. Se dunque l’interesse per la Scuola austriaca non ha avuto un impatto politico immediato pari a quello delle altre due Scuole di pensiero, essa ha certamente avuto un impatto culturale di lungo periodo che ha trovato nella casa Editrice Rubbettino un canale privilegiato tramite la traduzione delle principali opere dei suoi esponenti.
Il Libertarianism a partire dagli anni Novanta
La scoperta degli Austriaci, e di Leoni in particolare, ebbe poi come naturale conseguenza il richiamare l’attenzione su un’altra corrente di pensiero che portava il ragionamento austriaco sino alle estreme conseguenze, sconfinando dal liberalismo al pensiero libertario se non, in alcuni casi, all’anarchismo individualistico. A partire dagli anni Novanta, ad opera di Cubeddu (il quale, diversamente da Antiseri, teso a conciliare le idee “austriache” con quelle del cattolicesimo liberale, ne fornisce un’interpretazione per così dire “laica” spingendosi a chiedersi se la crisi dello stato contemporaneo non sia anche una crisi della stessa idea di politica come sviluppatasi nella tradizione occidentale) e di una nuova generazione di studiosi, tra cui Carlo Lottieri, Luigi Marco Bassani e Nicola Iannello, si manifesta un crescente interesse per la tradizione antistatalista americana del Libertarianism, che ha i suoi riferimenti principali in Rothbard, in Ayn Rand (tuttora oggetto di scarsa attenzione) e in Robert Nozick. Le tesi di questo liberalismo “estremo”, nonostante abbiano talune caratteristiche che possono talvolta risultare “urticanti”, presentano alcuni pregi. Come prima cosa hanno riproposto sotto una nuova veste il problema non solo dei limiti della politica, ma della stessa legittimità dell’esistenza dello stato e dell’autorità, un tema classico della filosofia politica. Hanno poi contribuito a vivacizzare anche in Italia il dibattito sul Diritto naturale, idea di diritto peraltro cara al mondo cattolico, con il quale esiste un rimarchevole confronto e al quale alcuni dei Libertarian italiani apertamente si ispirano.
Prima degli anni Novanta la tradizione Libertarian, con la parziale eccezione per l’interesse nei confronti del volume di Nozick Anarchy, State and Utopia, e per l’originale rivista “Claustrofobia” pubblicata da Riccardo la Conca alla fine degli anni Settanta, era pressoché sconosciuta in Italia. Ma dagli anni Novanta ad oggi si è riscontrato un interesse piuttosto ampio, sia dentro sia fuori l’accademia, fatto inconsueto per un movimento di pensiero così radicale, e forse segnale di una certa insoddisfazione per una teoria liberale che sembrava essersi dimostrata incapace di porre dei freni strutturali alla dilatazione del potere politico. Anche per questo motivo, in Italia come all’estero, molti autori che prima si collocavano nell’alveo del liberalismo classico hanno deciso di definirsi libertari, proprio perché ritenevano troppo compromessa la parola liberale. Il movimento libertario ha anche trovato una casa editrice, la Liberilibri di Aldo Canovari, particolarmente attiva nel promuovere la traduzione e diffusione dei testi libertari e dei classici della tradizione liberale anglosassone, e un Think Tank, l’Istituto Bruno Leoni guidato da Alberto Mingardi, assai agguerrito tecnicamente ed abile nel richiamare l’attenzione sulle idee e sulle proposte politiche libertarie.
Più in generale, il dibattito attuale tra gli esponenti italiani del liberalismo classico e del Libertarianism, e sottolineata la difficoltà di operare una distinzione netta tra i due, non appare caratterizzato tanto da diverse posizioni circa i “limiti dell’azione dello stato”, considerando la condivisa necessità di elaborare un modello di ordine politico che superi, per adoperare una felice espressione di Frédéric Bastiat, la «grande finzione [dello stato moderno] per mezzo del quale tutti si sforzano di vivere a spese di tutti». A caratterizzare tale dibattito è invece soprattutto una diversità di vedute in merito alla possibilità di una fusione tra la filosofia politica della Scuola austriaca (dalla quale in gran parte deriva anche la filosofia politica dei Libertarians) e quella della tradizione del cattolicesimo liberale (nell’interpretazione che di essa fornisce Antiseri), diversità che, tra le altre cose, solleva due ordini di questioni. Da un lato vi è la discussione, apparentemente accademica, sulla relazione tra il Cristianesimo e Liberalismo e sulla continuità o discontinuità tra la tradizione della Legge Naturale e quella dei Diritti Naturali (temi d’interesse anche per altri esponenti della galassia liberale italiana). Dall’altro vi sono le diverse opzioni politiche riguardo al tema della libertà individuale in relazione alle implicazioni sociali delle innovazioni scientifico-tecnologiche e al conseguente ruolo della politica di fronte all’incertezza sociale che si lega ai mutamenti economici e sociali connessi all’instabilità dei processi di mercato e delle aspettative individuali e sociali.
Un tale dibattito, per quanto ancora in via di definizione, sembra avere delle conseguenze fortemente innovative per gli studi liberali. Come prima cosa segna probabilmente il superamento delle vecchie discussioni sull'”antistatalismo”, discussioni secondo alcuni ormai rese sterili dalla consunzione dello stato e dalle implicazioni politico-economiche della concorrenza tra gli stati. Ha poi delle conseguenze importanti riguardo alla necessità di una profonda riformulazione dell’idea stessa di “politica” e all’utilità, se non l’esistenza stessa, di una filosofia politica in relazione al ristretto orizzonte culturale di una dottrina costituzionale che si intende come l’unico limite all’azione politica.
[1] B. CROCE, L. EINAUDI, Liberismo e liberalismo, a cura di P. SOLARI, Ricciardi, Milano-Napoli 1988. La disputa in realtà iniziò già nel 1927.
[2] C. ANTONI, Il tempo e le idee, a cura di M. BISCIONE, ESI, Napoli 1967, pp. 225 e 243-244.
[3] Leoni purtroppo non riuscì a dare una stesura definitiva alle sue numerose intuizioni, e in particolare alla sua teoria del diritto come pretesa, nonostante la sua riflessione fosse nella sostanza arrivata a conclusione. Gli scritti di Leoni al riguardo, alcuni inediti, sono stati ripubblicati in Il diritto come pretesa, a cura di A. MASALA, con una perspicace Introduzione di M. BARBERIS e una Postfazione di A. FEBBRAJO, Liberilibri, Macerata 2004.
[4] B. LEONI, Freedom and the Law, Van Nostrand, Princeton 1961 fu tradotta in italiano solo vari anni dopo la morte di Leoni, La libertà e la legge, Introduzione di R. CUBEDDU, Liberilibri, Macerata 1995.
[5] N. MATTEUCCI, L’eredità di von Hayek, Società Aperta, Milano 1997.
[6] La rinascita del liberalismo classico è ben simboleggiata dalla pubblicazione quasi simultanea di tre fondamentali opere di quelle tre scuole, rispettivamente Capitalism and Freedom, del 1962, di Milton Friedman, The Calculus of Consent, del 1962, di James Buchanan e Gordon Tullock, e The Constitution of Liberty, del 1960, di Hayek.