Provo a ripartire dall’11 settembre 2001. La reazione all’aggressione del terrorismo, non soltanto negli USA, ma anche in Europa, ha conosciuto un adeguamento normativo (che ha puntato ad anticipare la soglia di difesa), un adeguamento strutturale (la riorganizzazione del sistema di intelligence operata dagli USA è esemplare), un adeguamento delle tecniche di investigazione. Si è rafforzata la collaborazione militare negli scenari di crisi individuati come strategici, con successi importanti dentro i nostri confini – penso alla quantità di reti logistiche disarticolate in Europa – e con successi importanti anche al di fuori – penso al ristabilimento delle basi della democrazia in Iraq, ma anche (nonostante l’attuale crisi in Afghanistan) all’aver costretto le centrali del terrore a restare circoscritte alle aree montagnose al confine tra Afghanistan e Pakistan.
Con franchezza, tutti riconosciamo che gli effetti maggiormente positivi della collaborazione fra USA ed Europa si sono riscontrati sul piano delle relazioni bilaterali fra USA, da una parte, e singoli Stati europei dall’altro, piuttosto che fra USA e UE nel suo insieme. Questo dipende dalle differenti velocità e dalle differenti sensibilità, anche istituzionali, all’interno dell’Unione europea: per un verso ci sono importanti decisioni contro il terrorismo della Commissione e del Consiglio dei ministri dell’UE (penso alla definizione del terrorismo, con una decisione-quadro del 2003), per altro verso vi è la frequente e concreta disarticolazione di quelle decisioni da parte di organismi giurisdizionali, come la Corte europea dei diritti umani, o da parte di giudici di singoli Stati europei.
Come migliorare il quadro generale della collaborazione? Prima ancora: che cosa non ha funzionato?
Dopo l’11 settembre il terrorismo di matrice islamica colpisce il territorio europeo in Spagna e nel Regno Unito: nel primo caso avvalendosi di decisive collaborazioni in loco, nel secondo caso attraverso figli o nipoti di immigrati. Gli attentati prima si erano compiuti al di fuori dell’area europea, in luoghi di vacanza frequentati da europei, o per punire paesi a maggioranza islamica la cui leadership non viene ritenuta collaborativa con la ricostituzione del califfato. Tuttavia, l’Europa continua a essere considerata solo territorio di reclutamento, indottrinamento, formazione e addestramento per azioni terroristiche da compiere altrove: in Iraq, in Afghanistan, in Turchia (un reclutamento che avviene o all’ombra di moschee compiacenti o attraverso internet, o grazie alla combinazione dell’una e dell’altra modalità).
Tutti siamo lieti che l’Europa oggi non sia colpita dal terrorismo. Ma vi è un rischio che va scongiurato: che si radichi la convinzione che, poiché non ci sono vittime, o poiché le vittime sono lontane, il pericolo è diminuito; è una convinzione presente non fra gli addetti ai lavori, ma a livello di opinione pubblica. E tutti noi sperimentiamo quotidianamente quanto sia tenue la linea di confine fra le convinzioni dell’opinione pubblica, le convinzioni dei mass media e le decisioni della politica. Quando parlo di “decisioni della politica”, mi riferisco soprattutto all’entità delle risorse impegnate: l’intelligence costa, gli interpreti affidabili di lingua araba costano, le operazioni militari (quando sono necessarie) costano.
I1 terreno sul quale possono lavorare realtà, come le nostre fondazioni, che cercano di porre in collegamento la cultura e la politica, l’approfondimento e l’operatività, è quello di segnalare due profili. Il primo di scenario: quand’anche in aree dell’Europa si svolgessero “soltanto” attività di reclutamento, indottrinamento, formazione e addestramento, sarebbe profondamente sbagliato tollerarle confidando sul fatto che questa tolleranza costituisca una sorta di assicurazione sulla vita, e quindi sia in qualche modo ripagata.
Il secondo è un profilo di dettaglio: la galassia del radicalismo islamico in Europa è estremamente frammentata; una sola persona o un gruppo ristretto possono togliere la vita a un regista ritenuto blasfemo (Theo Van Gogh) e possono mettere in ginocchio una metropoli (Londra, 2005), senza necessità di ricevere input precisi dalle montagne afgane. La parcellizzazione è tale che nessuno può escludere di principio atti terroristici gravi, al di fuori di qualsiasi pianificazione.
Fra USA ed Europa non è solo questione di sensibilità attenuata. È pure questione di sensibilità diverse. Dobbiamo dircelo con la massima franchezza per ridurle il più possibile le differenze. Non so se è in corso una inversione di ruoli fra USA ed Europa, con riferimento all’analogia (che stamani riproponeva il senatore Quagliariello) fra i due continenti e le figure di Venere e di Marte. So che i problemi ci sono, e sono anzitutto culturali.
Quando voi parlate di “guerra al terrorismo” adoperate il termine “guerra” non in senso metaforico: la intendete come una guerra vera. Personalmente condivido questa impostazione, ma non è quella prevalente in Europa: e questo rappresenta una fonte significativa di non comprensione reciproca. Per gli europei l’opzione militare non è necessariamente quella centrale e decisiva; in Europa ha un peso rilevante il contrasto per via giudiziaria, con conseguenze paradossali, che rasentano l’assurdo, come emerge dalla rassegna delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per gli USA la peculiarità della minaccia terroristica fa individuare una certa flessibilità nelle regole di prevenzione e di contrasto. Le regole europee invece sono rigide (non solo, mi par di capire dal dibattito precedente sulla Russia, in tema di contrasto al terrorismo).
In Europa c’è poca sensibilità ai rischi derivanti dalla saldatura politica fra l’Iran e quella sub specie di internazionale comunista che si è ricostituita in America Latina (Cuba, Venezuela, Nicaragua…). Le strutture dell’intelligence europee escludono riflessi sul fronte del terrorismo, ma vorrei capire fino in fondo se quelle di Carlos sono soltanto aspirazioni, o se c’è già qualcosa di più concreto.
Sono dati di fatto. Può piacere o non piacere che sia così, ma è così. Se non teniamo conto di queste differenze rischiamo il corto circuito; e qualche corto circuito, per esempio in materia di extraordinary renditions, lo si è realizzato. Ma, se è così, dobbiamo aumentare il lavoro perché la collaborazione sia effettiva e convinta, senza alti e bassi, con una maggiore reciproca fiducia, con una maggiore intelligenza operativa. E se chiamiamo in causa un supplemento di intelligenza, forse è il caso di non scomodare come nume tutelare né Venere né Marte, ma di far entrare sulla scena Minerva.