Lo scorso 3 aprile, presso la Sala Capitolare del Senato, si è svolto il seminario dal titolo “Una grande riforma per i corpi intermedi”, organizzato dalle tre fondazioni Magna Carta, De Gasperi e Riformismo e Libertà, in collaborazione con i Gruppi parlamentari del Nuovo Centrodestra. Vi hanno partecipato, oltre a numerosi parlamentari, Raffaele Bonanni, Luigi Angelletti, Giorgio Merletti e altri rappresentanti della società civile, oltre a diversi accademici già componenti della Commissione per le riforme costituzionali.
Il seminario ha fatto il punto sul progetto di riforma costituzionale – bicameralismo e Titolo V – presentato dal Governo Renzi, sul quale stanno fioccando le polemiche: da quelle dei “professoroni” a quelle di diverse esponenti politici. Il seminario ha messo in luce un approccio originale: da un lato si è, infatti, unanimemente convenuto che sui grandi temi (riforma dell’obsoleto bicameralismo paritario e perfetto, superamento del policentrismo anarchico generato dall’attuale Titolo V) del progetto governativo è assolutamente necessario andare avanti, senza arroccarsi in uno stantio conservatorismo costituzionale. D’altro, tuttavia, si è messo in evidenza che, sul piano della qualità dei contenuti di una riforma costituzionale di queste dimensioni, non si può sorvolare e tantomeno accontentarsi del populismo.
Da questo punto di vista, il seminario ha fatto emergerei vari limiti e diverse sgrammaticature costituzionali del progetto governativo, sulle quali nella fase parlamentare sarà necessario e imprescindibile intervenire: la Costituzione non è una legge come le altre, è il patto fondamentale sul quale si regge tutta la convivenza civile e l’efficienza del nostro sistema. Quest’ultimo deve senz’altro recuperare una seria funzionalità, ma questo non avverrà senza che il nuovo patto costituzionale si ispiri davvero ai principi di responsabilità e sussidiarietà.
Un neo centralismo in chiave municipalista non sarà in grado di determinare quel cambiamento che in tanti, dalle imprese ai cittadini, stanno ormai da anni aspettando. Per questo occorrono alcune decise correzioni sulla composizione del Senato: ad esempio, la Lombardia con dieci milioni di abitanti non può avere gli stessi rappresentati della Valle d’Aosta che ne ha poco più di centomila. L’affermazione per cui in altri sistemi, in ambito comparato, le camere territoriali hanno un numero fisso di rappresentanti non regge. Si tratta infatti di modelli come gli Usa o lo Svizzera che hanno carattere fortemente federale e in genere si tratta di Stati nati da processi di aggregazione, per cui conta l’istituzione federata a prescindere dalla popolazione. Non è il caso dell’Italia e nemmeno è il carattere del progetto governativo, che attua invece una decisa ricentralizzazione di materie.
Inoltre, come ha notato il senatore Quagliariello, si fa fatica a pensare che i sindaci possano adeguatamente fare contemporaneamente i sindaci, i presidenti delle città metropolitane e i senatori. Infine, i ventuno indicati dal Presidente della Repubblica non hanno alcun senso in un Senato che deve rappresentare gli enti territoriali: di nominati ne abbiamo già troppi in Italia. Nell’ambito della riforma del Titolo V, poi, manca una chiara valorizzazione degli enti che dimostrano virtuosi. Se non si prevedono infatti, anche rispetto all’esercizio della clausola di supremazia statale, seri meccanismi di geometria variabile e il rischio di rovinare i sistemi efficienti(basti pensare ai modelli di organizzazione sanitaria di Veneto ed Emilia Romagna) diventa molto forte. Nell’intento corretto di recuperare le Regioni canaglia, si finirebbe per devastare le peculiarità di modelli che costituiscono punti di riferimentoa livello mondiale.
Soprattutto quello che manca nel testo governativo è una vera lotta agli attuali sprechi. Si dice di sostenere la riforma Senato per risparmiare le indennità dei senatori (circa 100 milioni), ma si non razionalizza per nulla la spesa decentrata. L’80% della spesa regionale è sanità (oltre 110 miliardi), ma di costi standard non si parla e si ignorano pure i fabbisogni standard dei Comuni (oltre 30 miliardi). Non si impone nessun freno alle migliaia di società partecipate (circa 22 miliardi), che, spesso come colossali poltronifici, infestano i sistemi comunali.
Al riguardo è necessario inserire una clausola di sussidiarietà rinforzata che permetta di istituire un’impresa pubblica solo quando alle stesse condizioni il privato nonpotrebbe garantirebbe lo stesso risultato in termini di efficienza e di rispetto del principio di eguaglianza. Occorre poi agire su tutta la miriade di enti intermedi inutili (Ato, Bim, ecc.) che generano costi per circa 5 miliardi. Il rimedio efficace a tutte queste degenerazioni si colloca solo a livello costituzionale, mettendo al riparo il sistema una volta per tutte dalle ricorrenti lobby che in modo contingente riescono sempre a impedire il compimento delle riforme dirette a combattere sprechi e inefficienze.
E’ urgente quindi recuperare una nuova dignità alla riforma e il filo conduttore, oltre alla correzione delle diverse sgrammaticature costituzionali (qui se ne sono messe in evidenza alcune), non può che radicarsi nei principi di responsabilità e di sussidiarietà orizzontale. Solo così all’Italia si potrà aprire la prospettiva di una democrazia migliore.
*Luca Antonini è Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Padova e membro del Comitato Scientifico della Fondazione Magna Carta