La figura di Sergio Marchionne, scomparso il 25 luglio, è stata commentata e analizzata praticamente in tutti i suoi aspetti. Ricordi personali, retroscena societari, ipotesi da romanzo (c’è chi è arrivato addirittura a sostenere la tesi che – come Elvis Presley – il manager non sia affatto morto e stia ordendo chissà quale complotto finanziario globale). Di certo c’è che non si è trattato di un uomo qualunque, capace di essere riservato a tutto tondo, in famiglia come sul lavoro, ma di farsi sentire eccome quando si trattava di incidere e decidere sulle scelte della comunque più rilevante societàmanifatturiera del Paese. Per anni si è ironizzato sul suo pullover, oggi ci si rende conto che sotto quel maglione c’era parecchio di più.
In 14 anni, la Fiat ha cambiato nome, volto e dimensioni. Lo ha fatto non senza sussulti, con decisioni forti: dall’addio a Confindustria allo spostamento della sede legale all’estero, quotazioni e dismissioni, approcci sindacali muscolari ma sempre nel pieno rispetto dei diritti dei lavoratori, ai quali Marchionne portava il rispetto insegnatogli dal padre, maresciallo dei carabinieri.Non a caso, la sua ultima apparizione pubblica, con la fatica della malattia a segnargli la voce e l’incedere, ma non lo sguardo, è stata dedicata proprio alla consegna della nuova Jeep all’Arma, quella divisa onorata per dieci anni anche come segretario della sezione dei militari in congedo a Toronto, un’altra delle tappe della sua lunga vita da emigrato.
L’Abruzzo nel cuore e nel sangue, il mondo come punto di riferimento professionale. Difficile sintetizzare in un’immagine o in un aneddoto una figura tanto “prevedibile” nel suo quotidiano, fatto di lavoro, lavoro e ancora lavoro, ma complessa caratterialmente perché, come amava dire, “chi comanda è destinato a essere solo”. Restìo alle interviste, incurante delle polemiche per la sua residenza in Svizzera o per le stock options da brivido, parco di sorrisi anche con gli amici, capace di tenere testa alla famiglia Agnelli senza timore, perché sapeva di essere nel giusto, restano di lui alcune uscite pubbliche destinate a diventare culto, come il discorso al Meeting di Rimini rivolto ai giovani, una sorta di Steve Jobs tricolore che solo nella morte, purtroppo, riceve il giusto tributo.
Quella che Marchionne lascia è una Fiat, anzi una Fca diversa e più fortea livello mondiale perché saper anticipare le rivoluzioni industriali, tecniche e globali non è da tutti. Certo, non ci sono solo record e trionfi in questa storia, ma è indubbio che nel 2004, quando un po’ a sorpresa la “famiglia” si affidò a questo semisconosciuto manager dell’Ubs, la casa automobilistica torinese rischiava di essere assorbita dai competitors che volevano addirittura smembrarla. Da quel giorno a oggi il fatturato auto è aumentato del 408,3%; la cassaforte finanziaria degli Agnelli, la Exor, che perdeva ogni giorno 356 mila euro, fa utili quotidiani per 3,8 milioni; il titolo Fca è salito in Borsa dell’867,4%; i dipendenti in Italia e nel mondo sono aumentati da 161 a 236 mila.
Un leader naturale, dicono tutti oggi. Anche coloro che hanno storto la bocca nel vederlo sottobraccio a Obama e poi lodare (ricambiato) Trump, lui così amato negli Usa dopo aver creduto nella salvezza di Chrysler, che era in realtà la salvezza di Fiat. Qual’era dunque il vero Marchionne? Di certo un manager che ha fatto la fortuna di una famiglia, di un’industria, di tante persone, specie in quel Sud che di occasioni di impresa e di lavoro ne ha sempre meno (il caso di Melfi è sintomatico nella sua semplicità: investimenti, determinazione, successo, rispetto). Marchionne ha lasciato anche un’eredità non da poco, il raggiungimento della posizione finanziaria netta positiva del Gruppo, un obiettivo che sembrava fino solo a pochi anni prima un’utopia.
E adesso? Il dolore dei suoi cari, il rispetto dei lavoratori e l’omaggio della famiglia Agnelli-Elkann lasciano spazio alla necessità di investire in persone e risorse che sappiano consolidare i risultati e reiterare l’esempio. Non deve stupire che la prima linea di Fca sia praticamente tutta straniera: siamo di fronte a una realtà che – pur radicata con forza nel Paese d’origine – ha respiro e ambizioni ben più ampie. Ma questo non significa esterofilia a tutti i costi perché sono molti i manager tricolori in grado di competere a tutti i livelli e non solo in Fca. E magari farlo avendo in mente lo spirito di Sergio Marchionne, capace di pensare in grande pur rimanendo legato alle tradizioni abruzzesi e agli insegnamenti mai dimenticati di una adolescenza, non facile, da emigrato.
Lelio Alfonso