IL NAZIONAL-POPULISMO DEL PRESIDENTE RUSSO È UNA RISPOSTA ALLA CRISI DELLE CLASSI DIRIGENTI OCCIDENTALI CHE NON HANNO CAPITO QUANTO LE COMUNITÀ HANNO BISOGNO DI IDENTITÀ E DI PROTEZIONE
Hanno destato non poco scalpore le parole di Vladimir Putin sulla crisi del liberalismo, nel corso della sua intervista al Financial Time. «L’idea liberale» ha detto brutalmente il premier russo «ha superato il proprio obiettivo iniziale nel momento in cui la popolazione si è espressa contro l’immigrazione, i confini aperti e il multiculturalismo».
I liberali «non possono dettare niente a nessuno come hanno cercato di fare nel coso degli ultimi decenni».
Di qui l’elogio di Donald Trump per il suo tentativo di fermare il flusso di clandestini e di spacciatori provenienti dal Messico. La Casa Bianca non si rassegna all’ideale liberale che «presuppone che non ci sia bisogno di fare nulla» e all’idea che «i migranti possono uccidere, saccheggiare e stuprare impunemente perché i loro diritti devono essere tutelati».
Per Putin «ogni crimine deve avere una punizione. L’ideale liberale è divenuto obsoleto. E’ entrato in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione».
E il risultato è «uno spostamento nella bilancia del potere politico, dal liberalismo occidentale al nazional- populismo, quest’ultimo sempre più alimentato da un forte risentimento pubblico nei confronti dell’immigrazione, del multiculturalismo e dei valori secolari a danno della religione». Non meraviglia che il leader russo, che ha puntato tutto sul risveglio ortodosso e sull’orgoglio nazionale, lamenti che ci si è dimenticati di vivere «in un mondo basato su valori biblici».
E’ forse superfluo dire che Putin non ha alcun titolo per dare lezioni all’Occidente: il suo paese, nonostante il revival religioso post- 1991, vive immerso in una cultura “atea” dove solo Mammona è oggetto di culto, gli oligarchi mostrano un tenore di vita sfrontato, la corruzione è dilagante a riprova che sulle rovine dell’ideologia marxista di Stato è difficile ricostituire un tessuto di valori collettivi.
Dopo tanti anni di governo post- comunista, la Russia si ritrova un’economia a crescita zero e una costante diminuzione dei redditi. «Il compito più importante da realizzare— ha riconosciuto nell’intervista— è cambiare la struttura dell’economia e promuovere una sufficiente crescita di produttività lavorativa attraverso le nuove tecnologie». Vaste programme!, per citare il Generale.
La Russia di oggi, va ricordato agli ammiratori italiani di Putin, non può essere considerata un modello in nessun campo: né in politica estera ( vedi l’appoggio a dittatori cinici come Bashar al- Assad, in una guerra civile che ha provocato 500 mila morti e più di 5 milioni di rifugiati, o come Nicolas Maduro o la noncuranza di certi principi elementari dell’etica e del diritto internazionale, come l’eliminazione delle spie scambiate con la GB), né in politica interna ( vedi la limitazione delle libertà politiche, il pugno di ferro usato contro la stampa d’opposizione, la concezione plebiscitaria della democrazia, il diniego dei diritti degli omosessuali etc. ).
E’ vero che i nemici di Putin, dal canto loro, fingono di ignorare che la dissoluzione dell’impero sovietico— come del resto capita a tutti gli imperi della storia– ha lasciato venticinque milioni di russi fuori della Federazione e che un’operazione come l’annessione della Crimea, discutibile sotto il profilo del diritto internazionale non era priva di giustificazione alla luce di un “principio di nazionalità” che i governi fanno valere con molto juicio e sempre, comunque, con lo sguardo rivolto ai propri interessi politici e strategici ( vedi al riguardo l’illuminante saggio di Eugenio Di Rienzo, Il conflitto russo- ucraino. Geopolitica del nuovo ( dis)ordine mondiale, Ed. Rubbettino). Va segnalato incidentalmente che l’attenzione alle minoranze etno-culturali è riscontrabile nell’odierna Russia più che negli Stati ipernazionalisti sorti dopo il tracollo dell’URSS: emblematico è il caso dell’antica minoranza italiana della Crimea ignorata dall’Ucraina ma fatta riconoscere oggi per interessamento di Putin— un caso su cui ha richiamato l’attenzione il giornalista RAI Stefano Mensurati.
Insomma qualche freccia al suo arco ce l’ha pure il Presidente russo– il consenso di larghe fette della popolazione non si ottiene soltanto con lo scudiscio— ma a dargli spago, facendogli assumere un ruolo di primo piano nell’ “immaginario collettivo” sono i problemi epocali da lui posti (e non risolti) e ignorati dai suoi superficiali avversari.
E’ vero, Putin non è né liberale, né democratico ma che senso ha scrivere, come fa il superficiale Bernard Guetta su Repubblica, che «vuole imporsi sulla scena internazionale puntando su tre paure: quelle dei più deboli e degli immigrati, dell’erosione del patriarcato e del venir meno della tutela sociale da parte dello Stato»?
In democrazia, le paure sono “interessi” e valori e gli interessi e i valori (quando non ledono principi iscritti nelle Costituzioni) stanno tutti sullo stesso piano. Ripetere stancamente che certi timori sono infondati e che sono suscitati ad arte dai populisti significa non comprendere nulla del processo politico e, quel che è peggio, disarmare quanti, prendendo sul serio quei timori, predispongono strumenti istituzionali atti a renderli vani— ad esempio. “ripensando e riqualificando la tutela sociale da parte dello Stato”.
Intervenendo su Formiche, Corrado Ocone ha scritto che ad andare in crisi non è, come pensa Putin, il liberalismo («dottrina incompiuta, mai definita e sempre da ridefinirsi in base alle concrete sfide della storia e dei tempi») ma il dispositivo liberal-liberista. «Quelli che sono riapparsi sono i conflitti e, con essi, la volontà di agire nel mondo della forza, cioè nella politica, per far conquistar agli uomini sempre maggiori spazi di libertà».
Ocone ha colto un punto centrale: il ritorno della politica che una versione libertaria del liberalismo aveva azzerato e una lettura parziale dei liberali classici aveva fatto ritenere una dimensione estranea al mondo dei Montesquieu, dei Tocqueville, dei Mill, dei Croce, degli Aron.
In realtà, i padri della società aperta sapevano bene che la ricetta liberale significa maggiore libertà degli individui e minore inframmettenza del pubblico nel privato entro una comunità politica, lo stato moderno, segnata da una propria “ragione”, da una inevitabile chiusura all’esterno (i dileggiati confini) e da una “cura” per chi fa parte del “noi” non estensibile a chi sta fuori.
In fondo, è il bilanciamento tra la “comunità” e la “società”, tra l’universalismo dell’etica e del diritto— che conosce solo gli individui, tutti “figli della Terra”, da una parte, e il particolarismo e l’unicità dell’appartenenza— che alla res publica può sacrificare la vita e il benessere dei cittadini, dall’altra, che ha fatto la grandezza dell’Occidente.
Con i totalitarismi— di destra e di sinistra— si è avuto il discredito più assoluto dello Stato, strumento indispensabile del loro progetto di dominio mondiale e, a poco a poco, le libertà nello Stato sono diventate libertà dallo Stato sicché le parole di Margaret Thatcher (una nazionalista in politica estera, v. la guerra delle Malvinas) hanno conquistato persino quanti, un tempo, avevano una visione organicistica dei rapporti sociali e politici: «Non esiste la società, esistono solo gli individui».
In pratica, è il trionfo assoluto dell’universalismo: sono reali solo gli interessi individuali e gli scambi sul mercato (oggi liberalizzati dalla globalizzazione), illuminismo anglosassone, A. Smith, e i diritti spettanti ad ogni uomo indipendentemente dal colore della pelle, dal credo religioso, dal sesso etc, illuminismo francese, Voltaire. La logica dell’economia e la logica del diritto sono rimaste le sole arbitre della Vita.
Ne deriva, come ci dicono le cronache di questi giorni, il conflitto stucchevole tra Antigone, che fa valere gli agrafoi nomoi, le leggi non scritte sulla carta ma nel cuore degli uomini, e Creonte, il bieco tiranno che sacrifica alla “ragion di Stato” ogni forma di pietas.
Sennonché il primato del diritto “superiore” e il discredito delle ragioni della politica rischia di sprofondare la società europea in una guerra civile assai più devastante di quelle del passato giacché la posta in gioco non sono più “le forme di governo”— quali norme imporre ai condomini di uno stabile— ma l’erosione del terreno istituzionale in cui competono per il potere i loro portatori.
Contrapporre, con diritto di invalidazione, alle leggi emanate dal governo e approvate dal Parlamento ( da un libero Parlamento, in democrazia) le sentenze dei tribunali, in quanto depositari di una verità più alta delle prime, significa minare alla base la concezione moderna della democrazia, che non è il regime che intende realizzare il bene e la felicità di tutti ma il regime che conta le teste e porta alla guida dello Stato i partiti che rispecchiano le opinioni della maggioranza (che potrebbero, benissimo, essere sbagliate e mutate, qualora ispirassero politiche disastrose). Questo rimettersi al diritto comincia a preoccupare, e non poco. anche esponenti della sinistra più avanzata.
Lo storico della Columbia University, Mark Lilla, ha scritto in proposito un saggio, L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica (Ed. Marsilio) su cui non si è meditato abbastanza. «La sfiducia nel processo legislativo— vi si legge— e il crescente affidamento ai tribunali per raggiungere gli obiettivi ha allontanato l’élite liberale da una base più ampia.|…| ha infuso nei liberal l’abitudine di trattare tutto come una questione di diritto inviolabile, senza lasciare spazio per un negoziati e dipingendo gli oppositori alla stregua di mostri immorali, invece di considerarli cittadini con opinioni diverse». Senza un sentimento civico, «le democrazie sono soggette all’entropia». Solo sul «noi universale e democratico» si può «costruire la solidarietà, instillare il senso del dovere e ispirare l’azione».
Questo, però, comporta la riconquista della dimensione comunitaria e statale del vivere in società e se lo Stato nazionale non può essere più il riferimento privilegiato della politica, si pensi pure, e ci si batta pure, per una comunità più vasta— lo Stato federale europeo— ma che sia una comunità non la societas di tutti gli abitanti del pianeta. Forse prima di dare troppo addosso (come, d’altronde, merita ampiamente) a Putin si dovrebbe riflettere su un passo dello Zibaldone citato da Giulio Tremonti, ne Le tre profezie. Appunti per il futuro (Ed. Solferino)– e molto evidenziato nella ponderata recensione che Danilo Breschi gli ha dedicato nel suo blog: «Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto». E’ la sorte che ci riserva il “diritto cosmopolitico”.
LO ZAR NON PUÒ DARCI LEZIONI MA LA SUA STRATEGIA È STATA COERENTE: LOTTA AI GLOBALISMI E ALL’IMMIGRAZIONE, RISCOPERTA DELLO STATO, DELLA SICUREZZA E DELLA RELIGIONE CRISTIANA
(Articolo pubblicato su Il Dubbio del 6 luglio 2019)