L’ex Ministro dell’Economia e delle Finanze e illustre componente del nostro Comitato Scientifico, Giovanni Tria, e il suo collega docente ed economista dell’Università Tor Vergata, Pasquale Lucio Scandizzo, hanno avanzato qualche giorno fa una proposta chiara, concreta, univoca – la prima dall’inizio dell’emergenza sanitaria ed economica connessa al Coronavirus – pubblicata dal quotidiano Formiche.
A distanza di una settimana riteniamo utile riproporre il documento dei due economisti, cercando di illustrarlo ed interpretarlo. La teoria alla base della proposta è semplice e di immediata comprensione: il blocco delle attività economiche pone due problemi urgenti cui occorre far fronte con assoluta urgenza. Il primo, assicurare ai cittadini italiani i mezzi di sostentamento nel corso del blocco stesso e il secondo, impedire la distruzione di capacità produttiva che determinerebbe una più profonda recessione e soprattutto un allungamento dei tempi della ripresa. Dunque sostenere la disponibilità di sussistenza dei cittadini e congelare le imprese prima che perdano la loro capacità produttiva, in parole semplici: prima che perdano cassa, non siano in grado di pagare imposte e dipendenti e, di conseguenza, falliscano.
Tria e Scandizzo propongono di far fronte a due problemi contemporanei, due soluzioni da assumere in modo integrato, una già parzialmente adottata dal governo attraverso il decreto liquidità, cioè la garanzia statale sui finanziamenti bancari alle imprese (anche se tra le righe del documento sembra trasparire la necessità che tali garanzie siano disponibili in modo quasi automatico – elemento che le recenti polemiche su istruttorie bancarie e intervento autorizzatorio di Sace sembrano smentire – e che, in modo contemporaneo e contemperato lo Stato preveda interventi diretti a fondo perduto.
Ma ciò che risulta così intuitivo e quindi illuminante di questi tempi è il metodo che questi finanziamenti diretti dello Stato dovrebbero avere: la compensazione tra debiti e crediti dei privati e delle aziende verso la pubblica amministrazione.
Cioè che si comprende da questa impostazione è il fatto che in una situazione anomala, inaspettata e rischiosa come quella attuale la base del successo della ripresa non possa che essere un patto tra Stato e imprese. Un patto in base al quale lo Stato garantisce da un lato piena garanzia statale al sistema bancario perché fornisca immediato credito aggiuntivo alle imprese che lo richiedano per far fronte sia alle immediate esigenze di pagamento, sia per finanziare una rapida ripartenza delle attività, dall’altro un risarcimento – comunicato oggi per domani, fornendo una prospettiva rassicurante – alle imprese delle mancate entrate per il periodo di totale o parziale lockdown.
“Senza questo secondo intervento di risarcimento a fondo perduto – secondo gli autori – , per molte imprese il ricorrere a debito addizionale, seppur agevolato, non sarebbe sufficiente per una ripresa delle attività su basi solide e potrebbe addirittura creare situazioni di moral hazard, tali da determinare una allocazione inefficiente di risorse.“
Questo risarcimento a fondo perduto sarebbe fornito non con interventi a pioggia, ma tramite un meccanismo di compensazione proporzionato alla perdita di valore che l’attività economica risulta aver perso rispetto all’anno precedente. Questo intervento sarebbe “su misura” – e quindi incredibilmente equo – su ogni settore e su ogni singola azienda. Se l’azienda dovesse, per ipotesi, aver perso il 50% del valore, questa non pagherebbe più nessuna imposta fino a pareggiare l’ammontare di denaro perduto a causa del Covid.
In cambio l’imprenditore dovrebbe dimostrare di aver mantenimento i posti di lavoro e aver pagato regolarmente i contributi, o in caso di cassa integrazione di parte dei dipendenti, le somme erogate ai dipendenti attraverso questo canale dovrebbero essere detratte (in quanto ammontare di salari non erogato dalle imprese) dalla somma della compensazione.
Ultimo ragionamento pienamente condivisibile, ma che sfugge ai più, è che agendo in questo modo lo Stato non fornisce soltanto un salvagente alle imprese e al sistema produttivo, ma paradossalmente lo fornisce anche a se stesso e alle casse dell’erario. Una crisi economico-recessiva della portata di quella che si delinea all’orizzonte vedrebbe anche lo Stato in una posizione di rischio: se le imprese non producono e falliscono, i lavoratori non guadagnano e perdono le proprie occupazioni, la più parte di coloro che pagano le imposte, le tasse e le tariffe locali smetteranno di avere disponibilità per versare all’erario e il gettito dello stato centrale, così come quello degli enti locali crollerebbe. Al contrario, utilizzare risorse a debito per supportare le finanze di cittadini ed imprese permetterebbe un riavvio più celere, e quindi un impatto ben inferiore sulle casse dello Stato. Secondo le stime riportate nella simulazione nella prima opzione (quella in cui ci troviamo oggi) lo Stato perderebbe circa 173 miliardi, mentre nella seconda ipotesi il tracollo negativo incredibilmente inferiore, che si attesterebbe a circa 25 miliardi, circa 2 punti di PIL.
Insomma, la lettura di questa riflessione risolleva e ricorda che in questo Paese ci sono ancora menti brillanti, che possono contribuire al rilancio della nostra amata Patria anche solo stilando un documento, semplice e profondo, di meno di trenta pagine.