Il 4 novembre 2020 la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge Zan, che si propone l’obiettivo di “realizzare un quadro di maggiore tutela delle persone omosessuali e transessuali, cercando di colmare il vuoto normativo determinato dalla mancata approvazione, nella passata legislatura, del progetto di legge di contrasto all’omotransfobia (…)”.
La proposta, che muove dall’asserito presupposto di un vuoto normativo in relazione alla tutela delle persone omosessuali o transessuali, mira ad estendere l’ambito applicativo degli artt. 604-bis e 604-ter del codice penale (Sezione I-bis: Dei delitti contro l’eguaglianza) ai comportamenti motivati da sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità.
La formulazione attuale del testo di legge – che, ricordiamo, non è ancora stato approvato al Senato – ha suscitato numerose e accese critiche, la cui trasversalità testimonia il permanere dell’esigenza di un dibattito ampio e responsabile in merito alle criticità da più parti sollevate.
Al centro della discussione pubblica sul d.d.l. Zan vi sono alcuni temi di cruciale importanza, tra cui l’evidente contrasto del progetto di legge con la libertà di manifestazione del proprio pensiero, diritto di matrice costituzionale riconosciuto dall’art. 21 Cost., e con i principi fondamentali in materia di diritto penale di offensività, determinatezza, tassatività e del diritto penale come extrema ratio.
All’esito della novella legislativa, il reato di cui alla citata lett. a), che prevede la fattispecie dai confini maggiormente incerti, punirebbe “con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.
Trattasi, dunque, di fattispecie “meramente” discriminatorie, agite o istigate ma comunque non violente (diversamente dal reato previsto alla successiva lett. b) del medesimo comma, che punisce l’istigazione alla e la commissione di violenza, nonché la provocazione alla violenza), destinate a rimanere circoscritte nel perimetro, costituzionalmente tutelato, delle manifestazioni di pensiero: un vero e proprio caso, insomma, di reato di opinione, basato, per di più, su un presunto movente d’odio.
La fattispecie che si verrebbe così a delineare risulta del tutto disancorata da un fatto offensivo di danno: non vi è, infatti, la previsione di una condotta volontaria che possa attentare all’ordine materiale della pacifica convivenza, bensì un delitto basato esclusivamente sui motivi ad agire.
Ciò che viene sanzionato, dunque, non è un comportamento violento o persecutorio, connesso a una condotta chiaramente identificabile e qualificabile come omotransfobica (che, peraltro, risulterebbe già perseguibile in base alle disposizioni in vigore), bensì un modo di pensare.
La creazione di un reato basato sui motivi d’odio finirebbe con l’affidare al libero apprezzamento di un giudice la valutazione sulla concreta offensività delle condotte potenzialmente discriminatorie (circostanza che appare ancor più problematica alla luce del principio vigente nel nostro ordinamento dell’obbligatorietà dell’azione penale) e dunque il compito di decidere se una determinata opinione sia stata espressa per convinzione scientifica, per convinzione religiosa, per scelta culturale, per tradizione familiare, ovvero per odio, e ciò in totale assenza di una base empirica per poter operare simili distinzioni.
L’odio attiene alla sfera soggettiva degli stati d’animo e non può essere suscettibile di obiettiva valutazione da parte di una legge o di un giudice poiché non costituisce un motivo per agire, bensì un movente dell’azione: non a caso, l’aggravante di cui all’art. 61 del codice penale fa riferimento ai motivi “abietti e futili”, che possono formare oggetto di valutazione obiettiva circa il loro disvalore, e non ai motivi d’odio, che, come s’è detto, afferiscono esclusivamente a uno stato d’animo.
L’introduzione nel nostro ordinamento di una fattispecie generale di reato d’opinione basata sul presunto movente d’odio genera, inoltre, pesanti tensioni con il principio di libertà di espressione sancito dall’art. 21 della Costituzione (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”) e altri diritti costituzionalmente tutelati come la libera espressione delle convinzioni religiose, delle opinioni scientifiche e storiche e della libertà di associazione.
Simili criticità erano già state mosse nei confronti della legge Mancino-Reale – sul cui impianto poggia il d.d.l. Zan – e tuttavia il delicato bilanciamento tra i reati di opinione a proposito di razza, etnia e confessione religiosa (attualmente disciplinati dagli artt. 604-bis e 604-ter del codice penale) e la libertà di manifestazione del pensiero è stato ritenuto ragionevole in forza della portata obiettiva del disvalore delle opinioni incriminate, oggettivamente riconosciute come errate e pericolose nella coscienza sociale.
Viceversa, l’estensione che vorrebbe operarsi con il d.d.l. degli art. 604-bis e 604-ter del codice penale all’orientamento sessuale e all’identità di genere annienta il già precario bilanciamento individuato a proposito di razza, etnia e confessione religiosa e conduce a una deriva che rischia di sanzionare non già la discriminazione, bensì l’espressione di una legittima opinione: salterebbe, cioè, quel requisito della obiettiva erroneità delle tesi che prospettano un trattamento differenziato per certe situazioni rispetto ad altre, che ha permesso alla Consulta di ritenere costituzionalmente legittima la legge Reale-Mancino.
Né la questione può dirsi risolta dalla clausola c.d. “salva-idee” inserita all’art. 4 del disegno di legge, che fa salve “la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”.
La clausola, nella sua versione attuale, suona più come una excusatio non petita del legislatore, il quale, riconoscendo la legittimità dell’istigazione solamente a determinate condizioni, conferma la difficile convivenza tra il d.d.l. Zan e una società in cui vive il pluralismo culturale.
In disparte l’infelice formulazione letterale della norma – che qualifica come lecite condotte già “legittime” (sic!) – lo snodo critico fondamentale resta il problema della vaghezza della nozione di “concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”, che si traduce, ancora una volta, in un problema di carenza di determinazione e tassatività della norma, destinato a tramutarsi in un’eccessiva discrezionalità consegnata al giudice in sede di applicazione della norma.
Nel tentativo di ridurre l’indeterminatezza del significato normativo delle fattispecie incriminatorie previste nel testo del disegno di legge, l’art. 1 fornisce le definizioni normative dei concetti di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere. La disposizione, tuttavia, lungi dal conseguire il perseguito obiettivo di chiarezza, contiene nozioni conformi a concetti mainstream, non esaustive e affatto condivise nel panorama scientifico e culturale.
L’“identità di genere”, ad esempio, viene qualificata come “percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrispondente al proprio sesso biologico”: in termini, dunque, di stato soggettivo psicologico e interno, come tale non oggettivamente percepibile da parte dei terzi, e non come una categoria certa che possa fornire contenuto obiettivo alla fattispecie incriminatrice.
Vi è il rischio, inoltre, di fornire rilevanza giuridica autonoma a espressioni, come quella di identità di genere, portatrici di valori tutt’altro che condivisi nella comune coscienza sociale (basti pensare al recente sondaggio realizzato da alcune associazioni femministe e pubblicato su La Stampa), che potrebbero facilitare l’ingresso, nel nostro ordinamento, al riconoscimento di controverse questioni connesse all’ideologia gender, alla cui stregua l’identità della persona non è determinata dalla biologia, bensì dalla libera scelta dell’individuo, aggirando l’indispensabile passaggio parlamentare.
Come si è detto, a presunta giustificazione della necessità di introduzione del disegno di legge Zan viene spesso richiamato un vuoto normativo, nel nostro ordinamento, di fattispecie incriminatrici delle condotte offensive poste nei confronti delle persone omosessuali o transessuali. Una lacuna normativa che, tuttavia, non sembra sussistere realmente, considerando che ogni fattispecie presente nel nostro ordinamento penale che intervenga su condotte di offesa alla persona (percosse, violenze, stalking, e altro genere di violenze) risulta applicabile quale che sia l’orientamento sessuale dell’offeso. Non solo: l’intento di punire l’offesa rivolta a una persona in considerazione del suo orientamento sessuale può farsi rientrare nell’alveo applicativo dell’aggravante dei motivi abietti e futili di cui all’art. 61 co. 1 n. 1 codice penale.
Da quanto sopra sinteticamente esposto emerge un primo dato inconfutabile: il dibattito politico e culturale sul disegno di legge Zan non può essere circoscritto – come si è visto spesso fare – ad una logica dicotomica del tipo “illuminati vs oscurantisti” e testimonia, viceversa, la delicatezza e l’importanza dei temi sottesi al d.d.l.
Una prospettiva liberale nella lettura del d.d.l. impone, insomma, legittimi dubbi sulla bontà metodologica e sull’opportunità politica di un intervento legislativo che appare come l’ennesima dimostrazione di un uso simbolico e particolaristico del diritto penale, in spregio ai principi fondamentali di determinatezza, tassatività e di extrema ratio che dovrebbero sempre accompagnare tale materia dell’ordinamento.
Ma il dato che preoccupa maggiormente rimane senza dubbio l’evidente contrasto del testo Zan con l’art. 21 della Costituzione.
L’importanza del diritto di manifestare liberamente le proprie idee è tale da non poter subire ingiustificate compressioni in una società democratica, caratterizzata dalla libera circolazione delle idee e dal libero confronto tra chi le sostiene, soprattutto ove si consideri che ciò che la Costituzione difende è proprio la libertà di esprimere le opinioni che “urtano, scuotono o inquietano” (per usare una formula utilizzata dalla Corte EDU): nei confronti di quelle condivise, facili e tollerate, non si pone alcun bisogno di tutela.