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Perché la destra deve liberare la cultura

29 ottobre 2023

Riportiamo un estratto dell’intervista al Presidente Quagliariello rilasciata a Federica Fantozzi (Huffington Post) il 29 ottobre 2023.

La destra liberi la cultura. Se insegue lo schema dell’egemonia gramsciana è destinata a perdere

L’ex senatore e storico sulla nomina di Pietrangelo Buttafuoco a presidente della Biennale di Venezia: “È una buona notizia, ma non mi è piaciuto il modo in cui è stata annunciata. Se la contrapposizione culturale resta sul terreno fin qui prescelto sarà un’occasione sprecata: una scelta provinciale e di retroguardia”

Gaetano Quagliariello, storico e politico, ex senatore e ministro delle Riforme nel governo di Enrico Letta, è presidente della fondazione Magna Carta e professore ordinario di Storia contemporanea e di Storia delle istituzioni presso l’Università Luiss di Roma.

Professore, Pietrangelo Buttafuoco è stato designato dal ministro Sangiuliano presidente della Biennale di Venezia. E FdI ha festeggiato così: “È stato infranto un altro tetto di cristallo, era un feudo della sinistra per amici e accoliti”. La destra all’inseguimento dell’egemonia gramsciana?

Mi è sembrata una buona notizia la nomina di Buttafuoco ma non mi è piaciuto il modo in cui è stata annunciata. Da una parte mostra un complesso di inferiorità, dall’altra ripercorre schemi e modalità che si dovrebbero ormai superare. 

Ci vede legittimo desiderio di pluralismo o sete di rivincita?

Guardi, si dice che in Italia la cultura sia sempre stata di sinistra ma non è vero. Grandi nomi della letteratura erano conservatori: Federico De Roberto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Sciascia che pure a sinistra aveva militato, fu molto critico con la parte politica dalla quale proveniva. Poi Longanesi, Flaiano, e si potrebbe andare avanti. Nella poesia i primi nomi che mi vengono in mente sono D’Annunzio e, in ambito più contemporaneo, Montale. E ancora: pensatori come Croce e Gentile che hanno dato una fortissima impronta alla filosofia italiana. Potrei continuare per ore.

Scusi, allora perché a destra esultano ogni volta che piantano una bandierina?

Perché tutti i nomi che ho citato, ed altri, erano per lo più liberi battitori. Degli irregolari. Laddove la cultura di sinistra è sempre stata militante e irregimentata. E’ questo il problema. E questa situazione a sinistra è il frutto del combinato disposto della azione di due uomini che non si amavano per nulla e che nel 1926 se le diedero di santa ragione: Gramsci e Togliatti. Il primo ha plasmato la categoria dell’egemonia in chiave di opposizione al controllo dall’alto di stampo staliniano; il secondo ha recuperato quella categoria nella cornice del “partito nuovo” e l’ha piegata allo schema della “doppia lealtà” a Stalin e alla via nazionale.

Insomma, c’era una volta la cultura di destra vivace ma non egemonica perché fatta di lupi solitari. Ora che però quella parte governa con numeri solidi ha davvero bisogno di occupare qualunque posto a qualunque costo o servirebbe un orizzonte?

A mio avviso FdI è la cosa più simile a un partito della Prima Repubblica. La stessa Giorgia Meloni, nonostante la giovane età, politicamente è figlia della Prima Repubblica. Per paradosso, si potrebbe sostenere che è l’esponente politico proveniente dalla prima parte della storia repubblicana che fin qui ha avuto il maggior successo nella seconda parte, dopo Giorgio Napolitano. E, vista la sua giovane età, potrebbe conquistare il primato fin qui detenuto dal Presidente da poco scomparso…

Addirittura? Nonostante lei sia nata mezzo secolo dopo di lui?

Non parlo dell’età ma dell’impostazione politica. E quando mi riferisco alla Prima Repubblica, pur senza decantarne gli immortali pregi come fa Checco Zalone, non mi riferisco certo a un periodo buio della nostra storia. In quel tempo ci sono state tante cose positive ma alcuni suoi tratti vanno oggi considerati anacronistici. Ecco: il rapporto tra cultura e volontà di occupazione mi sembra uno di questi; un ritorno indietro. Da una destra moderna mi aspetto sì la forza di scardinare i santuari ma non la voglia di occupare le casematte.

Questa volontà c’è eccome. Il Museo Egizio di Torino. Il Centro sperimentale di cinematografia. Il Teatro San Carlo di Napoli. A volte l’impresa riesce, altre fallisce. La Rai è l’esempio perfetto: via Fazio e Annunziata, promossi Pino Insegno e Nunzia De Girolamo con il titolo provocatorio “Avanti Popolo”, ma lo share latita. Qual è il punto debole dell’operazione?

E’ semplice: occupare le casematte richiede appartenenza e limita il numero di persone a cui ci si può rivolgere. Liberare la cultura invece è tutt’altro: implica premiare il merito, aprirsi e non chiudersi. Mi sembra paradossale ed emblematico che lo stia facendo Mediaset più della Rai. Credo che Piersilvio Berlusconi abbia voluto Bianca Berlinguer, oltre che per la sua professionalità, anche per ciò che evoca il suo cognome. In Rai vedo piuttosto una ricerca di maggiore identità, al netto dei furbetti che fanno scelte “pragmatiche” coprendole con il manto dell’ideologia.

Giuliano Ferrara declina la nomina di Buttafuoco in termini di inclusione e non di vendetta. In effetti è un intellettuale colto, uno scrittore immaginifico e un bravo romanziere. Potrebbe rappresentare un’inversione di tendenza?

Buttafuoco è uno degli irregolari di cui parlavo prima. Rassomiglia più a Longanesi che a un intellettuale organico. Il problema, in questo caso, non è la qualità delle persone, è la costruzione di una controffensiva rispetto all’egemonia gramsciana. Pur di avvalorare questo schema si fanno due cose, entrambe sbagliate: o si compiono operazioni scadenti o – come nel caso di Buttafuoco – si piegano le persone in schemi dentro cui non rientrano.

Non è un notevole paradosso che la destra Dio, patria e famiglia, quella di “io sono Giorgia, sono cristiana”, quella che ha chiesto la testa di Christian Greco per i biglietti scontati alle famiglie musulmane, esulti per la designazione di Buttafuoco che si è convertito all’Islam? Lo stesso che, nel 2015, per questo motivo Meloni non volle candidato in Sicilia?

Rimango dell’idea che non si libera la cultura opponendo allo schema di sinistra uno di destra. Bisogna recuperare il senso che la cultura conservatrice, liberale e riformatrice ha avuto in Italia premiando il talento e riattivando il confronto e, se vuole, la competizione.

Le casematte del potere in mano alla sinistra – redazioni dei giornali, tv, università, enti – sono state un chiodo fisso di Silvio Berlusconi. Dagli “editti bulgari” in Rai alla battaglia contro le “toghe rosse” all’idea dell’università del pensiero liberale. Ha un déjà-vu?

La storia del berlusconismo andrà riscritta con calma. Innanzitutto, tribunali, televisione e università per Berlusconi non si trovavano sullo stesso piano. Va poi considerato che il Cavaliere, che era una persona colta, credeva però di più alla cultura diffusa – quella che forma il senso comune, per capirci – che a quella delle élites. Parlava di “università del liberalismo” ma non ci ha mai puntato veramente. Infatti, la stagione culturale in Forza Italia è durata poco, più o meno dal ‘96 al ‘98: si potrebbe parlare del “biennio colto” animato dal gruppo dei professori Colletti, Pera, Melograni, Vertone ecc. Una piccola parentesi presto richiusa. Berlusconi, ribadisco, considerava marxianamente la cultura alla stregua di una “sovrastruttura”…

Non è ora di voltare quella lunga pagina?

Sì. Ci sono alcuni segni che l’insorgenza populista stia rallentando. Il cambiamento di fase potrebbe essere incoraggiato da un  investimento serio in formazione e cultura politica. E’ questo il momento di aprirsi al confronto con associazioni, fondazioni, intellettuali non solo italiani. Se la contrapposizione culturale resta sul terreno fin qui prescelto sarà un’occasione sprecata per la destra: una scelta provinciale e di retroguardia.

Vorrebbe una sorta di neo-futurismo europeo?

Qualcosa di dirompente e di nuovo come il futurismo certo non guasterebbe. Quel che però è certo è che il semplice recupero dello schema dell’avversario per impossessarsene non basta. Anche perché, come è noto, tra l’originale e la copia vince sempre il primo.

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