Riproponiamo di seguito l’intervento integrale del Cardinale Camillo Ruini sull’Evangelium Vitae tenuto sabato 4 novembre all’inaugurazione della Scuola di alta formazione politica della Fondazione Magna Carta.
Nel presentare l’Enciclica Evangelium vitae mi pongo fin dall’inizio nell’ottica complessiva di questa XII edizione della Scuola di alta formazione politica della Fondazione Magna Carta: “Dove va l’Occidente?”, tenendo anche presente che nella giornata di domani si parlerà di “fine dell’umanesimo occidentale”. L’Enciclica, naturalmente, ha una destinazione universale e non limitata all’Occidente. Individua però le radici delle attuali minacce alla vita nella rivendicazione della libertà individuale: in qualcosa quindi che caratterizza soprattutto la cultura occidentale. Non è dunque una forzatura prendere in esame l’Enciclica stessa nel contesto dell’Occidente e della sua crisi.
La mia prima riflessione intende evitare un approccio soltanto negativo alla nostra situazione. Il tema della vita nell’attuale società e cultura è infatti oggetto di atteggiamenti contrastanti. Da una parte la vita è considerata un diritto intangibile e perciò è in corso una grande lotta contro la pena di morte, lotta faticosa ma ricca di successi. E’ in atto inoltre uno sforzo ingente, medico, scientifico ed economico, per salvaguardare la vita e migliorarne la “qualità”. Dall’altra parte assistiamo a una crescente assuefazione alla liceità dell’aborto, fino al tentativo di farne un vero e proprio diritto. Viene ampiamente praticato l’aborto eugenetico, in conseguenza delle diagnosi prenatali. Gli embrioni umani vengono sacrificati per uso terapeutico e per la riproduzione artificiale. Inoltre il fronte di attacco contro la vita oggi si concentra specialmente sul suo versante finale: l’eutanasia, prima negata a parole ma ammessa nei fatti, è ormai spesso rivendicata come diritto di libera scelta. Si fanno strada anche casi di eutanasia non richiesta, per gli “stati vegetativi”, per i malati terminali, perfino per i bambini nati con gravi handicaps. Pertanto l’atteggiamento positivo verso la vita, pur essendo forte e concreto, coesiste con quello negativo e non tende, o comunque non riesce, a frenarlo o limitarlo.
Veniamo ora all’Enciclica di Giovanni Paolo II: l’Evangelium vitae è stata scritta ventidue anni fa ma nella sostanza sembra scritta oggi, con l’unica variante che oggi la situazione si è appesantita e i rischi allora denunciati si sono largamente realizzati. Nel primo dei suoi quattro capitoli l’Evangelium vitae descrive infatti le minacce attuali alla vita umana, che sono quelle a cui ho accennato e che tutti, purtroppo, conosciamo. Non si limita però a descrivere la situazione ma ne esamina le cause. La giustificazione base degli attentati alla vita umana è – come ho accennato – la rivendicazione della libertà individuale: vedi lo slogan degli anni ’70 “l’utero è mio e lo gestisco io”. Oggi, sempre sulla base della libertà individuale, viene affermato il diritto al testamento biologico, nel quale non solo decido io ma vincolo gli altri, medici compresi, alla mia libera scelta.
L’Enciclica risponde che esiste un legame inscindibile della libertà con la vita e con la verità. Prima di prendere in esame questo punto chiave dobbiamo osservare che nei casi riguardanti l’inizio della vita la rivendicazione della libertà individuale in realtà è fuori luogo, perché si decide non di se stessi ma di un altro, il nascituro, a meno di non pensare che il nascituro stesso sia semplicemente parte del corpo della madre: assurdità insostenibile perché egli ha il proprio DNA, un proprio sviluppo e interagisce con la madre, come risulta sempre più chiaramente. L’alternativa è pensare che il nascituro non sia un essere umano ma potrà diventarlo soltanto dopo (dopo la nascita, o dopo la formazione del sistema nervoso, o dopo l’impianto nell’utero…). In realtà si tratta sempre dello stesso essere che si evolve, come fa anche dopo la nascita. La sua continuità è accertata come la sua distinzione dalla madre. Non è mai, dunque, un “animaletto” di specie non umana. Sopprimerlo è sempre, dal concepimento ossia dalla fecondazione dell’ovulo in poi, sopprimere un essere umano. Perciò l’Enciclica non esita a parlare di omicidio e mette in guardia dalle manipolazioni del linguaggio che nascondono la realtà. Chiede invece di avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: “aborto volontario” e non asettica “interruzione della gravidanza”.
Ciò premesso, passiamo ai casi nei quali si tratta della vita propria, ad esempio nell’eutanasia voluta da una persona per se stessa, e vediamo se l’appello alla libertà individuale possa giustificare la decisione di rinunciare alla vita. Diciamo subito che esistono delle circostanze nelle quali rinunciare alla vita è lecito, anzi, può essere una decisione nobile e altamente meritoria. Il caso più rilevante è l’accettazione della morte in croce da parte di Gesù di Nazareth: al suo seguito molti cristiani hanno affrontato il martirio, da allora fino a oggi. Anche a prescindere dalla fede cristiana, si può rinunciare alla vita per salvare e proteggere i nostri fratelli in umanità, oppure per testimoniare le proprie convinzioni. La vita terrena, infatti, non è una realtà assoluta ma relativa, non è una “realtà ultima” ma “penultima”, come dice espressamente l’Enciclica (nn. 2 e 47). Tutto questo, però, non implica affatto una subordinazione della vita e del suo valore alla nostra libertà: in concreto non comporta che avremmo diritto di rinunciare alla vita semplicemente perché non ci piace più.
Il motivo di fondo è che la libertà non può essere sganciata dalla realtà del nostro essere, se va contro di questa va contro se stessa – è infatti la “nostra” libertà, una caratteristica del nostro essere e in particolare della nostra volontà – e quindi si autodistrugge. Una prima conseguenza è che non può essere una libertà puramente individuale: siamo infatti esseri relazionali, incapaci di esistere e di giungere all’esercizio della libertà se non ricevendo dagli altri e rapportandoci a loro, come anche all’ambiente nel quale viviamo. Perciò la cultura dei diritti soggettivi, se assolutizzata, diventa un’illusione, anzi, una tragica illusione che conduce alla negazione degli altri e dei loro diritti e alla fine anche alla negazione di noi stessi, come avviene appunto nell’eutanasia.
In tutto ciò si nasconde una profonda contraddizione, che è alla base del disagio e dell’infelicità della nostra epoca, quindi della sua tendenza a evadere da noi stessi e dalla realtà. Da una parte è grande la rivendicazione della libertà e dei diritti del soggetto, fino a erigere questa libertà a criterio assoluto delle nostre scelte. Dall’altra parte il soggetto è concepito semplicemente come un frutto dell’evoluzione, una “particella della natura” (Gaudium et spes, 14), che come tale non può essere realmente e interiormente libero e responsabile né può rivendicare alcuna centralità o alcun diritto di fronte alla natura che lo ignora e non si cura di lui. Questa contraddizione esplode drammaticamente in casi come la morte di un giovane o una malattia invalidante, che appaiono privi di senso e del tutto inaccettabili.
A questo punto l’Evangelium vitae fa un ulteriore e assai impegnativo passo in avanti (cfr nn. 21-22): per uscire dalla contraddizione e perché la rivendicazione della nostra libertà possa veramente avere un senso non è necessario che Dio non ci sia – come ha ritenuto gran parte del pensiero moderno – ma al contrario che Dio ci sia. Infatti, solo se all’origine della nostra esistenza non vi è soltanto una natura inconsapevole ma anche e ancor prima una libertà creatrice, possiamo essere realmente e interiormente liberi. E’ questa una grande intuizione di Kant, ripresa da Schelling, che l’Enciclica propone nella propria ottica.
Arriviamo così al fondo del problema. La vita umana è certamente qualcosa che conosciamo e amiamo di per sé, senza bisogno di ricorrere ad altro. L’amiamo istintivamente e l’amiamo razionalmente, avvertiamo subito che è un bene decisivo e fondamentale, da tutelare e incrementare, in noi stessi ma anche negli altri. In questo senso è, per eccellenza, un bene comune: si pensi al rapporto tra genitori e figli ma anche alla solidarietà dei corpi sociali nell’aiutare e proteggere la vita dei loro membri. Nello stesso tempo, quando riflettiamo su ciò che rende possibile che una vita umana sia realmente libera e abbia davvero un significato, ci rendiamo conto che non possiamo fare a meno di Dio, e non di un Dio qualsiasi ma di Dio nostro creatore, autore e fondamento della nostra vita e della nostra libertà.
Perciò la pretesa di essere noi i padroni della vita e della morte, nostra o addirittura altrui, è sbagliata anzitutto per i motivi che ho già ricordato: la libertà non è qualcosa di isolato e di assoluto ma può esistere solo in relazione alla realtà, cioè agli altri e all’ambiente in cui viviamo. In secondo luogo si tratta di una pretesa sbagliata perché la nostra vita e la nostra stessa libertà vengono da Dio e sono intrinsecamente in rapporto con Lui, sono legate a Lui e in ultima analisi dipendono da Lui. E’ infondato perciò trattarle come qualcosa di soltanto nostro, di cui non dovremmo rispondere a nessuno: dobbiamo risponderne davanti alla realtà che noi siamo, davanti alla società a cui apparteniamo e in ultima analisi davanti a Dio nostro creatore.
Nel dibattito pubblico non parliamo mai di questo rapporto con Dio per evitare l’accusa di difendere la vita per motivi confessionali, ed è giusto procedere così. Viceversa, in sede di approfondimento mi sembra doveroso accennare a questo aspetto, che getta luce sulle radici ultime della nostra libertà. Chi difende la vita e non è credente può, naturalmente, non essere d’accordo: la difesa della vita è senz’altro possibile anche a prescindere dal rapporto con Dio.
Dobbiamo ora accennare a una parola che usiamo spesso in riferimento a questi problemi, la parola “relativismo”, che vuol dire che tutto è relativo ai nostri personali punti di vista. E’ un atteggiamento oggi molto diffuso, che esclude che una cosa sia in se stessa vera o falsa, giusta o ingiusta, buona o cattiva. Questo atteggiamento viene spesso teorizzato come l’unico giusto e valido, cadendo così in una contraddizione: proprio il relativismo sarebbe giusto in sé e non relativo ai nostri punti di vista. Si verifica allora la “dittatura del relativismo” (Benedetto XVI). Su queste basi viene costruito il ben noto argomento: lasciamo ciascuno libero di abortire, o di scegliere l’eutanasia ecc., mentre al tempo stesso viene escluso il diritto di pensare che l’aborto e l’eutanasia siano un male in se stessi e di agire di conseguenza.
Un filosofo cattolico come Dario Antiseri ha giustamente messo in guardia dalla negazione del carattere relativo delle nostre conoscenze e delle nostre scelte, citando a proprio sostegno anche parole di Joseph Ratzinger. Sono d’accordo con lui, a patto però di evitare ogni generalizzazione: come non è vero che la conoscenza umana non sia mai relativa, così non è vero che lo sia sempre e sotto ogni profilo. L’espressione “dittatura del relativismo” è molto felice proprio perché individua esattamente il nostro vero avversario: una contraddittoria assolutizzazione del relativo.
Mi permetto ora una considerazione più generale. L’Enciclica Evangelium vitae – nella linea dell’altra Enciclica, Veritatis splendor, che l’ha preceduta di due anni e alla quale l’ Evangelium vitae è strettamente collegata – intende affermare e difendere il ruolo fondamentale della verità oggettiva nei nostri comportamenti morali. Va però inserita, come ogni pronunciamento della Chiesa, nel contesto complessivo della rivelazione, della tradizione e del magistero cattolico: in particolare del Concilio Vaticano II e della sua Dichiarazione Dignitatis humanae sul diritto alla libertà sociale e civile in materia religiosa. Questa Dichiarazione, al n. 7, pone quello che potremmo chiamare un “principio di libertà”, ossia il principio generale che “nella società va rispettata la consuetudine di una completa libertà, secondo la quale all’uomo va riconosciuta la libertà più ampia possibile, e non deve essere limitata se non quando e in quanto è necessario”. Perciò non solo la verità oggettiva ma anche il diritto del soggetto umano alla libertà fa parte a pieno titolo dell’insegnamento della Chiesa. E’ questa, a mio parere, una cosa della più grande importanza: infatti solo tenendo insieme i due aspetti evitiamo, da una parte, di restare vittime del soggettivismo attualmente dominante, che subordina la verità alla libertà, ma anche, dall’altra, di ricadere nell’oggettivismo medievale che subordinava invece la libertà alla verità. Questa mi sembra la strada da percorrere se vogliamo difendere il diritto alla vita in maniera adeguata alle presenti circostanze storiche: in concreto allo sviluppo attualmente raggiunto dall’autocoscienza della nostra umanità.
Finora ho riproposto l’insegnamento dell’Evangelium vitae con argomenti razionali, come raccomanda l’Enciclica stessa, che è rivolta a tutti e chiede a tutti attenzione e simpatia per la causa della vita. Ma la medesima Enciclica è rivolta in primo luogo ai cattolici, a cominciare dai Vescovi, e propone una verità che vale per tutti ma vale a titolo speciale per i credenti. Nel pubblicarla, Giovanni Paolo II ha inteso compiere un atto del più alto valore dottrinale, massimamente impegnativo per i credenti. E’ questo infatti il documento del suo pontificato nel quale impegna maggiormente il suo magistero, affermando che il comandamento “Non uccidere” ha un valore assoluto quando si riferisce a persone innocenti: questa precisazione, “innocenti”, è importante in rapporto al problema della legittima difesa, che può condurre lecitamente fino all’uccisione dell’ingiusto aggressore, e anche per la questione della pena di morte, che la Chiesa oggi esclude perché si può difendere la convivenza umana senza ricorrere ad essa, ma non ha sempre escluso nel passato.
Secondo l’Evangelium vitae questa “inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità morale esplicitamente insegnata nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta nella Tradizione della Chiesa e unanimemente proposta dal suo Magistero”. Essa è frutto del senso della fede, suscitato e guidato dallo Spirito Santo, che “garantisce dall’errore il popolo di Dio, quando esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi”. “Pertanto, con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale” (n. 57). Questa formula solenne esprime un pronunciamento infallibile e irreformabile. L’espressione uccisione “diretta” si oppone al caso in cui la morte sia invece effetto indiretto e non voluto, né come fine né come mezzo, di un’altra azione, di per sé lecita, come ad esempio la morte del feto può essere effetto indiretto di una cura di cui la gestante ha bisogno per non morire. Il Papa usa la parola “confermo” – e non “dichiaro” – per sottolineare che si tratta di una verità già prima appartenente al patrimonio della fede cattolica.
Poi Giovanni Paolo II applica questa dottrina al caso dell’aborto: “con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, … dichiaro che l’aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente” (n. 62: al n. 61 aveva premesso “E’ già un uomo colui che lo sarà”). Questa decisione infallibile e non riformabile riguardo all’aborto prima dell’Evangelium vitae non era stata ancora così esplicitamente formulata come decisione infallibile. Di tutto ciò molti cattolici anche praticanti non sembrano purtroppo consapevoli: sostengono infatti e mettono anche in pratica riguardo all’aborto posizioni incompatibili con la fede che professano. Giovanni Paolo II aggiunge che questa valutazione morale dell’aborto vale anche per gli interventi sugli embrioni umani che ne comportino inevitabilmente l’uccisione (n. 63).
E’ interessante quello che possiamo qualificare come il risvolto intraecclesiale di questo intervento: nell’Enciclica Veritatis splendor il Papa aveva affermato che esistono verità di ordine morale contenute nella rivelazione divina e che il magistero della Chiesa può definire infallibilmente. Vari teologi cattolici, di parere contrario, avevano obiettato che di fatto non ci sono verità morali su cui il magistero sia intervenuto infallibilmente. La presa di posizione non riformabile dell’Enciclica Evangelium vitae riguardo all’inviolabilità della vita umana innocente e in particolare all’aborto risponde in maniera molto concreta a un’obiezione del genere.
Più avanti, nella medesima Enciclica, Giovanni Paolo II “conferma”, in continuità con il magistero dei suoi Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, che l’eutanasia, nel suo senso vero e proprio, cioè come un’azione o un’omissione (di cura, di alimentazione ecc.) che di sua natura e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare il dolore, è a sua volta “una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana”. Questa presa di posizione si differenzia dalle precedenti sull’uccisione di un essere umano innocente e sull’aborto perché non fa riferimento all’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori: sembra quindi collocarsi a un livello leggermente meno impegnativo.
Dall’eutanasia va distinta la decisione di rinunciare all’accanimento terapeutico, ossia a interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia (n. 65). Da notare anche, cosa spesso dimenticata, che, “sotto il profilo oggettivo”, “il suicidio è sempre moralmente inaccettabile, come l’omicidio” (n. 66).
Poi l’Enciclica parla della legislazione civile su queste materie (nn. 68-74), tema massimamente controverso, e prende anche qui una posizione netta e forte: i valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa del nostro essere ed esprimono e tutelano la dignità della persona, non possono essere né creati né modificati o distrutti da nessuna maggioranza e da nessuno Stato, che devono invece riconoscerli, rispettarli e promuoverli. Perciò la legalizzazione dell’aborto e dell’eutanasia non è mai lecita e, come già insegnava Giovanni XXIII nella Pacem in terris, ogni legge in tal senso “rimane destituita di ogni valore giuridico” (Evangelium vitae, n. 71). L’obiezione di coscienza è quindi un diritto fondamentale (nn. 73-74).
Di fronte a posizioni così chiare e forti sembrano appartenere ad un altro pianeta i comportamenti di molti politici che si ritengono e dichiarano cattolici, senza dubbio sinceramente, ma sono a favore delle leggi per l’aborto e per l’eutanasia. Altrettanto poco consapevoli e convinti appaiono tanti elettori cattolici praticanti ma quasi indifferenti, nelle loro scelte, a queste questioni. Si tratta di un problema grave, per almeno due aspetti. Uno è quello dello scarso senso di appartenenza ecclesiale, o di una laicità malintesa, che rivendica una totale autonomia di giudizio morale in sede politica e legislativa. La traduzione in norme di legge di valori umani essenziali passa certamente attraverso l’esercizio della libertà degli elettori e degli eletti ma, se essi sono consapevoli dei contenuti antropologici della loro fede, non possono, senza una grave incoerenza, decidere prescindendo da questi.
Emerge così il secondo aspetto del problema, che è di ordine culturale e più precisamente riguarda i rapporti tra fede e cultura. Troppo spesso la fede non è per noi ciò che dovrebbe essere: un fondamentale criterio di indirizzo e di orientamento per la nostra vita e per le decisioni che la vita sempre richiede. Sono questi criteri la dimensione basilare della cultura, che si può trovare in un analfabeta non meno che in un intellettuale. Se non cresceremo sotto questo profilo siamo condannati, come cristiani, a una crescente irrilevanza o insignificanza, che paralizzerebbe (e spesso già paralizza) le nostre capacità di evangelizzazione, non solo nella sfera pubblica e non solo sul tema della vita, ma in ogni aspetto e dimensione della proposta cristiana.
Nell’ultimo capitolo, “per una nuova cultura della vita umana”, l’Enciclica si dedica a promuovere la cultura della vita, contrapposta alla cultura della morte che misconosce e tende a sopprimere il valore decisivo della vita stessa. L’Evangelium vitae fa questo presentando la Chiesa come “popolo della vita”, mandato, come popolo, ad annunciare il Vangelo della vita, che è parte integrante dell’annuncio di Gesù Cristo. Passa quindi in rassegna i vari soggetti a cui è affidato il Vangelo della vita, dai Vescovi alle varie categorie di laici, nelle loro molteplici articolazioni (volontariato, politici, operatori dei media ecc.). Chiede in particolare di non temere l’impopolarità e di non scendere a compromessi (n. 82). Insiste soprattutto sulla famiglia, “santuario della vita”, sui compiti della donna e della madre, del padre…, sul prendersi cura di tutta la vita e della vita di tutti, poiché la vita è un bene indivisibile (n. 87): quest’ultima indicazione prelude chiaramente a ciò che espliciteranno Papa Benedetto e Papa Francesco riguardo alla necessità di tenere insieme l’impegno per la vita e la famiglia e quello per la giustizia sociale e la pace, reagendo alle tendenze, purtroppo diffuse, a separarli e perfino a contrapporli.
L’Enciclica ribadisce inoltre che il Vangelo della vita è per tutti, non solo per i credenti, e che tutti possono capirlo, come tutti sono chiamati a promuovere uno Stato “umano”, che come tale rispetta la vita. Incoraggia le realtà organizzate (Movimento per la vita, centri di aiuto alla vita, consultori familiari) e iniziative come la Giornata per la vita. Riconosce infine la sproporzione delle forze in campo ma pone la propria fiducia nel Dio fonte e amico della vita, quindi nella preghiera per la vita.
Concludo osservando che l’Evangelium vitae è, sotto molteplici profili, un testo forte. Oggi può apparire fuori dalla realtà, tanto è disattesa – come dicevo – nelle idee, nelle scelte e nei comportamenti anche di molti cattolici, non solo in politica. Ma, con le sue prese di posizione definitive e non riformabili, questa Enciclica impegna per sempre la Chiesa a promuovere e difendere la vita umana e pone la coscienza di ciascuno, anche non credente, di fronte a istanze difficili da eludere. In particolare la cultura occidentale, nel confronto con questa Enciclica, sembra messa davanti a un bivio: o proseguire sulla strada di un post-umanesimo che in realtà è un integrale naturalismo, dove “l’eccezione umana” cessa di esistere, o invece trarre dalle radici sia cristiane sia “laiche” del proprio umanesimo la linfa per un suo nuovo sviluppo e per una sua nuova pienezza, dove la centralità dell’uomo non sia alternativa al valore della natura e alla centralità di Dio.
Vedi L’Occidentale.it