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Con Fabio abbiamo trascorso insieme una vita; non ci siamo mai persi di vista. Quando l’ho conosciuto avevo poco più di vent’anni. Tutti e due avevamo appena perduto qualcosa: io avevo proprio allora lasciato il Partito Radicale, dove si era compiuto il mio apprendistato politico adolescenziale, e mi ero immerso negli studi; lui aveva da poco abbandonato una brillante carriera diplomatica per consacrarsi alla sua vera passione: la storia contemporanea.

Nel bagaglio di ricordi, che inevitabilmente si accumulano nel corso di un così lungo viaggio esistenziale, potrei selezionare e proporre numerosissime immagini ma, tra le tante, scelgo quella del nostro primo incontro. A posteriori quel primo approccio mi appare come una matrice che porta impresse le caratteristiche uniche di Fabio, mai smentite o contraddette dal trascorrere del tempo.

Fui io a cercarlo dopo aver letto un suo saggio su Tommaso Fiore, per coinvolgerlo nella presentazione di un libro a Bari e a Lecce. Si disse subito disponibile e, trovandosi a Bari, mi propose di recarci assieme nel capoluogo salentino per mettere a punto i dettagli dell’iniziativa. Ci demmo dunque appuntamento nella piazza della stazione, nei pressi della fontana: mi disse che lo avrei riconosciuto subito “dall’aria svagata di un uomo in attesa, ma mai in trepida attesa”. Mi recai nel luogo convenuto a bordo dell’Amì 8 un pò scalcinata di mia madre, e in compagnia di tre giovani amici se possibile più scapestrati di quanto lo fossi io allora. All’arrivo, mi resi subito conto di quanto la situazione fosse imbarazzante. Quel signore distinto e austero, in abito blu paltò e cartella di pelle, sembrava incarnare l’idealtipo weberiano del diplomatico di un tempo: come proporgli un viaggio su una utilitaria col cambio a cloche? E la compagnia di ragazzi poco più che diciottenni che si avvicinavano alla cultura come surrogato dell’impegno politico che era venuto loro a mancare? Soprattutto, come proporgli di sistemarsi in cinque in un abitacolo stretto e per di più sul sedile posteriore, in quanto uno dei miei amici aveva gambe così lunghe da renderne impossibile la collocazione nella parte retrostante dell’autoveicolo? Iniziai a sudare freddo ma Fabio mi sollevò immediatamente dall’imbarazzo. Non fece un plissé. Mi salutò con antica cortesia, si accomodò alla bene e meglio e iniziò a discutere con noi di storia e politica come se fossimo interlocutori in grado di reggere un confronto paritario. Ecco: questo è stato Fabio Grassi Orsini; uno snob politicamente scorretto indissolubilmente legato alle sue origini nobiliari ma curioso e pronto a creare un rapporto con chiunque condividesse il suo trasporto per la storia e, più precisamente, per la storia politica.

La biografia di Fabio, in realtà, può anche essere descritta come lo svolgimento di una passione coltivata per una vita intera. Dall’esperienza in diplomazia egli derivò la propensione a sprovincializzare la ricerca storica italiana. Non si trattava soltanto di allargare gli orizzonti abbracciando territori a lungo monopolio delle relazioni internazionali o, al più, della storia diplomatica. Quando Fabio iniziò a muovere i primi passi nell’ambiente accademico storia e politica quasi si sovrapponevano, nel senso che i ricercatori – con le dovute e spesso notevoli eccezioni – erano per lo più “ideatori di subcultura” al servizio di questa o quella ideologia, spesso legati a partiti – allora fortissimi – che mettevano loro a disposizione l’esclusiva delle carte e degli archivi “della casa”. C’era tanto da fare per dare respiro e profondità a quell’ambiente. L’esperienza diplomatica, e soprattutto la conoscenza delle carte d’archivio del Ministero degli Esteri, rappresentavano in tal senso un importante viatico.

La questione, tuttavia, non si limitava alla scelta dei temi, spesso asfittici. Agli occhi di Fabio si ponevano, ancor più, problematiche legate al metodo e alle domande di fondo che il ricercatore si sarebbe dovuto porre. Non fu soltanto un caso se la sua prima prova importante fu una ricerca di storia locale, nella quale trasfuse la conoscenza e l’amore per il Salento, ma anche qualcosa di più. Da essa scaturì il volume Il tramonto dell’età giolittiana nel Salento, che entrò a far parte – assieme agli studi di Simona Colarizi sulla Puglia tra le due guerre, di Giovanni Sabbatucci sulle organizzazioni ex combattentistiche, di Luciano Zani sull’esperienza di Italia Libera – della collana laterziana Biblioteca di Cultura Moderna, animata, tra gli altri, dai primi allievi di Renzo De Felice. Il problema di Fabio fu, allora, quello di esplorare le strutture sulle quali si reggeva un assetto di potere che rappresentava anche un equilibrio sociale; di scandagliare le ragioni della sua crisi; di comprendere cosa di esso si sarebbe perso e cosa si sarebbe invece conservato nel trapasso verso un altro tempo della vicenda della nazione. La natura “locale” dell’oggetto di ricerca consentì a Fabio di indagare con metodo chirurgico “le strutture” del periodo giolittiano: quelle situazioni plasmate dalle istituzioni non meno che da comportamenti sociali codificati, che condizionano l’azione degli attori politici la quale in ogni caso, nella sua imprevedibilità, restava per lui, oltre ogni determinismo, il vero motore della storia.

Questa attitudine metodologica lo portava ad attribuire una importanza decisiva alle carte d’archivio; a contrapporre lo studio delle “strutture” alla creazione delle “categorie”, spesso proposte ai suoi occhi al solo fine di semplificare la ricerca storiografica e condurla verso esiti emblematici. A tal riguardo non posso dimenticare le sue “tirate” polemiche contro coloro i quali avrebbero derubricato “l’azionismo”, a suo parere con inaccettabile superficialità: “Come si fa a parlare indistintamente di azionismo – argomentava Fabio -? Come si fa a mettere Gobetti e Salvemini sullo stesso piano? Ma hanno considerato la differenza che passa tra Omodeo e Foa? E hanno compreso che da quelle storie sono derivate vicende completamente differenti nei loro esiti?”. Inutile ribattere che, in ogni caso, un’origine comune di quei percorsi si sarebbe rintracciata nelle vicende che nel primo dopoguerra segnarono la storia dei gruppi ex combattenti e che lì si sarebbe collocata anche una matrice condivisa di fascismo e anti-fascismo. Fabio non voleva sentire ragioni. Per lui la ricerca storica avrebbe dovuto distinguere, precisare, approfondire; non uniformare per amore di polemica.

Furono queste propensioni, all’inizio della sua carriera di ricercatore, ad avvicinarlo da esterno alla scuola defeliciana, che a lui appariva meno disponibile di altre a interpretare la storia generale del Paese – per parafrasare Gramsci – monograficamente, dall’angolo visuale privilegiato di questo o quel partito. Si trattò di una esperienza non lunga ma della quale Fabio conservò un ricordo venato di nostalgia perché ritenne che il successivo concentrarsi del Maestro, e soprattutto dei suoi allievi, sullo studio del Ventennio avrebbe comportato un restringimento del campo d’indagine che avrebbe rischiato di far perdere al panorama degli studi politici quel respiro e quella apertura che, invece, le indagini pionieristiche delle quali lui era stato partecipe promettevano.

Fabio, in realtà, ritrovava con più difficoltà in una nuova stagione di studi quello che va considerato il centro del suo interesse storiografico: scoprire le persistenze, le connessioni, le relazioni “pericolose” tra le diverse stagioni della nostra storia nazionale, al fine di ricondurla a una interpretazione organica. Per lui, oltre il periodo liberale, fascista e repubblicano, c’era la storia della nazione, necessariamente unica e unitaria. Fabio era stato nipote da parte di madre di Arturo Rocco, l’ultimo guardasigilli del fascismo, e da parte di padre di Giuseppe Grassi, il primo guardasigilli del periodo repubblicano che con Einaudi e De Gasperi ha firmato la Carta Costituzionale del 1948. Anche da qui derivava la sua esigenza di ristabilire la continuità della storia italiana: una ragione profonda, quasi antropologica nutrita dai ricordi di una vita. A suffragio di quella sua tesi, a più riprese mi ha raccontato delle visite di Alcide De Gasperi – nei panni di Presidente del Consiglio e ancor più di national builder – a Lecce: “Veniva a dormire a casa nostra, a casa del vecchio liberale Giuseppe Grassi, seminando il panico nelle fila dei suoi amici democristiani. Era un modo per dire loro che la nuova Italia si sarebbe dovuta edificare col coinvolgimento delle esperienze vissute e maturate nella stagione risorgimentale e liberale”. Fabio, crocianamente, considerava il fascismo una parentesi il cui significato, però, si sarebbe potuto cogliere solo considerando quello che c’era stato prima e quello che sarebbe venuto dopo. Non disconosceva l’enorme contributo fornito da quanti – De Felice in testa – avevano riportato lo studio di quel periodo innanzi tutto alle ragioni della storia. Temeva che un’attenzione esclusiva lo avrebbe isolato dal contesto, prestando involontariamente il fianco a quanti erano portati a segmentare piuttosto che unificare le interpretazioni della nostra storia nazionale. “Finirà – mi disse una volta – che avremo una prosopografia del fascismo che non dimenticherà neppure le vicende del più oscuro funzionario di un ministero, mentre ci mancherà ancora una vera biografia di Visconti di Venosta”.

Sempre a questo interesse per le continuità e le connessioni della nostra storia vanno ricondotti i lavori collettivi che ha promosso e coordinato negli ultimi anni: la fondazione dell’Istituto per la storia del liberalismo, il dizionario del liberalismo, i lavori prosopografici dell’Archivio Storico del Senato che, coordinati da Emilia Campochiaro, si sono avvalsi del suo indispensabile contributo. In quest’opera metteva a frutto una esperienza antica e una naturale gentilezza d’animo. Fabio, infatti, che appariva distratto, svagato, chiuso in un mondo tutto suo, è stato in realtà un “aggregatore dolce”. Dovunque si sia trovato, al Ministero degli Esteri, a Lecce, a Siena, ha “fatto squadra” non assumendo mai come criterio la selezione in base alle idee politiche o ai convincimenti storiografici quanto, piuttosto, la condivisione della passione per la ricerca e la disponibilità a non considerare le proprie propensioni alla stregua di dogmi immodificabili. Quando concepiva e incominciava un progetto collettivo, Fabio non ti mollava più: ti coinvolgeva, ti telefonava per discutere lo stadio di avanzamento dell’intrapresa, ti metteva a parte dello stato dei lavori, infine ti sollecitava e ti fissava delle scadenze che tu sentivi l’obbligo di onorare, anche per rispetto nei confronti dell’amico e della sua fattiva cortesia. E’ capitato più volte – da ultimo con il dizionario del liberalismo – che Fabio sia riuscito laddove nessuno avrebbe scommesso nemmeno un centesimo si potesse giungere!

A questa sua capacità di tenere insieme ambienti e persone – che poi era anche un modo per non distaccarsi mai del tutto da nessuna delle sue tante esperienze esistenziali – io, negli ultimi anni, debbo anche qualcosa di particolare. Fabio, infatti, è stato partecipe sin dagli esordi della avventura di “Ventunesimo Secolo”, la rivista che nel 2002 ho fondato con Victor Zaslavsky e che ho continuato a dirigere per alcuni anni dopo l’improvvisa scomparsa di Victor. Quel contenitore, in fondo, ha mantenuto in collegamento tre esigenze (e le persone che avvertivano tali esigenze come priorità): inquadrare la storia d’Italia nel contesto più ampio dei rapporti internazionali; mettere in connessione saperi e conoscenze allentando steccati disciplinari spesso asfittici; deideologizzare la lettura della storia nazionale e, per questo, proporre periodizzazioni più libere rispetto all’accettazione acritica delle scansioni convenzionali. Fabio era partecipe soprattutto di quest’ultima impellenza. Quando gli impegni politici sono divenuti per me troppo pressanti, ho abbandonato la direzione della rivista, promuovendo la soluzione che mi pareva potesse garantire meglio la continuità dei propositi iniziali e, inevitabilmente, mi sono distaccato dalla vita di quella intrapresa editoriale. E’ stato Fabio a consentirmi di mantenere un filo di rapporto. Con persistente e caparbia precisione mi teneva informato sui lavori, mi dava i suoi giudizi sui numeri pubblicati, mi chiedeva consigli sui temi da prendere in considerazione. Così avrebbe voluto tenermi legato a un ambiente agevolandomi un’eventuale riammissione nel mondo degli studi, una volta chiusa la parentesi politica. Era questa la sua speranza e il suo convincimento. Lo aveva confessato al suo allievo Gerardo Nicolosi, che il giorno della sua morte me lo ha riferito. Vi era in ciò affetto e amicizia vera, ma anche un giudizio che investiva l’attività politica. A Fabio la politica piaceva. L’aveva maneggiata sin da bambino e le sue opinioni erano sempre non convenzionali: al limite del politicamente scorretto e, a volte, anche oltre il limite. La riteneva, però, un’attività inferiore rispetto alla ricerca storica ed era convinto che chi aveva praticato quest’ultima con passione, prima o poi sarebbe stato destinato a tornare al suo originario amore.

L’ultimo mese della vita di Fabio è stato caratterizzato da un susseguirsi repentino di stati di salute e di coscienza. La duplice caduta dalla quale sono derivati i mali che ne hanno provocato la fine gli aveva prodotto un versamento che premeva sul cervello e, fino a quando non è stato riassorbito attraverso un intervento medico, gli provocava stati di torpore che si alternavano con repentine riprese di lucidità. In questi momenti, richiedeva le sue carte di studio e provava ad andare avanti. Il lavoro al quale attendeva era la recensione ad un libro sui Codacci Pisanelli: ancora il Salento, ancora la storia d’Italia e i percorsi della sua continuità. In qualche occasione quelle carte le ha chieste anche a me che ero andato a fargli visita. Ci ho ripensato e il pensiero mi ha consolato, perché quando si muore mantenendo integre le proprie passioni significa che si è vissuti bene.

 

 

Tratto da Ventunesimo Secolo n. 43