Il nostro presidente Gaetano Quagliariello sarà a Parigi per celebrazioni dei 50 anni dalla Presidenza di Georges Pompidou. Sul tema del presidenzialismo francese, anticipiamo la sua introduzione al libro di Luigi Campagna, che è intitolato “Da Gambetta a Clemenceau” e che è in uscita per Rubbettino.
I DESTINI INCROCIATI DI CLEMENCEAU E DE GAULLE
In Francia la storia sociale e la storia politica si sono sfidate a duello, senza esclusione di colpi. E, tra i bersagli preferiti della scuola delle Annales e dei suoi seguaci, va annoverato “l’avvenimento”: la tendenza, cioè, ad attribuire centralità a eventi determinati più che all’ordito dei fenomeni di lungo periodo. Il polemico rigetto per la storia dei re e dei grandi uomini, d’altro canto, non poteva fare a meno di degradare tutto ciò che è evenementielle a materiaux negligeables che lo storico di rango deve ignorare – o quanto meno sottovalutare – a favore della ricerca di persistenze di longue duree, in grado di dar conto del contributo anonimo che le grandi masse avrebbero offerto al faticoso ma ineluttabile progredire della storia.
Alcuni decenni fa una nuova storiografia politica ha cercato di mettere fine alla guerra “franco-francese” tra storici. Nata e maturata sull’asse Paris X Nanterre – Sciences Po, la nuova scuola si è proposta d’inglobare, nella propria metodologia, contributi importanti della lezione degli annalisti. Tra questi, anche il proposito di riposizionare l’avvenimento e la sua rilevanza in una concezione del tempo storico “a geometria variabile”. Per questi storici il tempo scandito dall’orologio della politica non è uniforme. Esso si fa più o meno denso e scorre con differente velocità a seconda dei problemi iscritti nell’agenda e delle decisioni da assumere.
Ottimi propositi metodologici che, tuttavia, al momento di calarsi dal regno della teoria al terreno di una ricerca concreta, spesso e volentieri hanno concesso sin troppo agli avversari di un tempo. Nel senso che non sempre sono riusciti a scongiurare il rischio principale al quale la nuova storia sociale francese è andata incontro: accreditare percorsi obbligati ed esiti, in fondo, deterministici.
Si potrà obiettare: questo rischio non è un’esclusiva della storia politica francese. E come prove a discolpa si potrebbero citare, a ragione, per la Germania la Fischer Controversy e il suo tentativo di mettere in contatto l’Impero guglielmino con il Terzo Reich; per l’Italia quella che Rosario Romeo appellò “storiografia della disfatta”, in quanto propensa a scorgere in presunte tare originarie del processo risorgimentale cause genetiche che avrebbero dovuto inevitabilmente condurre al crollo dello Stato liberale.
In Francia però, proprio perché più che in ogni altro contesto questa tendenza è stata teorizzata, i rischi si sono fatti più palesi e, se si vuole, più diffusi; meno connessi cioè a rilevanti ma specifiche tesi storiografiche o alla produzione di qualche grande storico.
In questo contesto si inquadra anche la storiografia sulla Terza Repubblica degli ultimi decenni. Ripercorrendo la letteratura, in particolare quella che si occupa di istituzioni, si ha spesso la sensazione di qualcosa di troppo meccanico, ordinato, inevitabile. E’ come se quel periodo storico assurgesse a matrice originaria dalla quale poter ricavare ogni passaggio del futuro sviluppo istituzionale della Francia, fino a giungere alla “terra promessa” della V Repubblica. D’altro canto, la categoria stessa di “modello repubblicano” ha di fatto indicato una chiave di lettura, se non un vero e proprio schema interpretativo.
Lungo questa deriva, inevitabilmente, sono entrate in contatto e sono state messe in correlazione le figure storiche di Georges Clemenceau e Charles De Gaulle: personaggi distanti anni luce per ideali originari e propensioni biografiche ma che, trovandosi ai due estremi di un continuum, risulterebbero ineluttabilmente legati dal filo rosso della storia.
Sia chiaro: le parentele tra l’evoluzione della Terza Repubblica e le successive tappe della storia politica francese non sono solo il parto abusivo della mente di qualche “continuista” esasperato. E lo stesso richiamo a Clemenceau come precursore di De Gaulle, a ben vedere, è autorizzato dal Generale il quale in tempi non sospetti, in La discorde chez l’ennemi – la sua opera prima -, riconobbe al Tigre e alla sua arte di governo, durante la Grande Guerra, di aver avuto un ruolo importante nella propria conversione alla democrazia e al parlamentarismo. D’altro canto, non casualmente due tra i migliori storici italiani della Francia come Aldo Garosci e Sergio Romano, in tempi differenti ma sempre non sospetti, al riparo da ogni preoccupazione metodologica, avrebbero scorto in Clemenceau un anticipatore di De Gaulle.
Non si tratta, dunque, di negare ogni parentela tra uomini e sistemi istituzionali. Il problema è piuttosto quello di ricercare con pazienza gli elementi che possano confermare quei legami di affinità, percorrendo dal di dentro gli avvenimenti di una storia lunga e contraddittoria, indicandone i punti di forza non meno dei limiti. Ed è questo il compito che si dà Luigi Compagna nelle pagine che seguono, sottraendosi sia dallo sposare tesi preconfezionate sia dal declinare le vite parallele di plutarchiana ispirazione in una più dozzinale “agiografia bilaterale”.
Per sfuggire a questi rischi Compagna getta lo scandaglio della sua ricerca nelle acque più profonde della Terza Repubblica, da dove tutto avrebbe preso le mosse: tempo di passioni violente, di veri e propri drammi della storia. Luigi non evita di raccontarli, senza però mai scordare come, proprio in quelle temperie, dietro il palcoscenico dei grandi eventi, alcune grandi passioni della storia francese – quelle che Tocqueville avrebbe visto come l’essenza dei “grandi partiti” da contrapporre ai “piccoli partiti” d’Oltreoceano – si sarebbero secolarizzate e vicendevolmente contaminate. Al punto che la Terza Repubblica che l’affresco di questo libro ci restituisce sembra l’incarnazione di alcuni tra i versi più belli che Apollinaire consacrò all’amore: “Comme la vie est lente/Et comme l’Esperance est violente”.
La scena che Compagna ricostruisce è tutta occupata dal duello all’ultimo sangue tra antiparlamentarismo e parlamentarismo. Anche per questo, nelle pagine che seguono – quelle dedicate alle prime decadi della Terza Repubblica -, Boulanger assurge al ruolo di antieroe. L’autore ci avverte preventivamente: “Se Clemenceau era simbolo di parlamentarismo, Boulanger sarebbe stato alfiere di antiparlamentarismo”. E ancora: “L’antiparlamentarismo aveva trovato nella figura de le brave général quel che Clemenceau aveva mirato fino ad allora ad essere, e sarebbe stato anche in seguito, per il parlamentarismo”.
Il Generale Boulanger incarna, dunque, il leader nazionalista in grado di unificare in campo repubblicano ciò che De Gaulle, nel suo percorso, sarebbe infine giunto a distinguere: revanche e antiparlamentarismo. Ma al di là dei simboli, della sua vicenda personale e della stessa forza evocativa della sua leadership (“la Francia si era innamorata di Boulanger dopo Sedan perché era un soldato, un ufficiale quotidianamente a cavallo, che intendeva contrapporsi, almeno nell’immagine parolaia e affaristica dei professionisti della politica”), la vicenda della quale “il Generale a cavallo” fu protagonista è più complessa e, soprattutto, non è meccanicamente sovrapponibile a quella del movimento che la sua epifania avrebbe suscitato.
Non tanto e non solo perché l’ondata boulangista creò una “nuova destra”, che attinse a piene mani “a sinistra”, dal patrimonio del giacobinismo e della Montagna. E nemmeno soltanto perché la forma organizzativa della Ligue inverò istanze e bisogni di socialità del tutto estranei all’orizzonte politico del Generale. Ancor più perché egli, al dunque, non colse la portata obbligatoriamente ultimativa dello scontro in atto che i suoi seguaci, all’attiva ricerca del Coup d’Etat, non avrebbero mai perso di vista. Egli, al momento decisivo, dopo la sua elezione plebiscitaria alle suppletive parigine del 1889, si considerò capo di partito in grado di sradicare il parlamentarismo con le armi che il parlamentarismo gli aveva messo a disposizione. Dimostrando così di ignorare la vera natura politica di ciò che aveva suscitato e, soprattutto, concedendo alla Terza Repubblica il tempo per non concedere nulla al suo proposito. Il che avrebbe portato Georges Barrès a chiosare: “Il Generale Boulanger mancava di una fede boulangista …”.
Ma se sul fronte del sistema politico, nel duello con la Terza Repubblica, Boulanger fu a tratti troppo accomodante finendo con l’offrire il fianco, per quanto riguarda la devozione alla Patria lo fu forse troppo poco. E pur tuttavia, attraverso percorsi ancora più contorti, in queste stesse temperie si assisterà a ibridazioni inedite tra l’idea di patria e di nazione e, da qui, tra patriottismo e nazionalismo.
Il fatto è che per Boulanger l’idea di patria si congeda da una obbligatoria e scontata egemonia monarchica e, attraverso questa dinamica, approda in campo repubblicano a un nazionalismo che ha come imperativo categorico la “revanche”, per raggiungere la quale – in nome della patria – è pronto ad abbattere l’ordine liberale e l’istituzione che più di ogni altra lo incarna: il Parlamento. E tale percorso appare del tutto speculare a un altro che si compie in un ambito che, in questo caso, è obbligatoriamente ed esclusivamente repubblicano. Per Clemenceau, infatti, l’inimicizia permanente tra Francia e Germania è un pericolo da superare, fosse soltanto per ragioni di realpolitik. Il che porta Compagna a evidenziare come, lungo questa deriva, vi sia un patriottismo che inizia a distaccarsi da un bellicismo costante e obbligatorio. Sicché ad alimentare il duello permanente tra parlamentarismo e antiparlamentarismo giunge la scissione, in campo repubblicano, dell’idea di Patria, attraverso la quale il boulangismo, soprattutto allorché sconfitto, finisce con l’identificare come suo principale nemico un differente patriottismo, meno “revanchard” perché più consapevole della superiorità demografica, industriale, militare che la “patria” tedesca era riuscita a conseguire.
Fin qui la scena. Quel che tuttavia porta a considerare la Terza Repubblica tempo di contraddizioni e di secolarizzazione, in cui le “relazioni pericolose” da presunte si fanno effettive, è il “dietro le quinte”, al quale Compagna non attribuisce certo minore importanza: dalla politica estera alle istituzioni, dal pensiero politico (in quanto la Francia dei socialisti e quella dei moderati non sono più l’una contro l’altra armate come lo furono la Francia della Rivoluzione e quella della Restaurazione), fino al materiale svolgimento della vita politica. In quest’ultimo ambito, dietro l’apparenza dell’assoluto dominio del parlamentare, Compagna scorge, con acume, un vero e proprio laboratorio di sperimentazione weberiana, nel quale – con buona pace di de Jouvenel e della sua “Repubblica dei compari” – si affermano leader e partiti moderni (quei partiti, che talvolta si chiamano Leghe, con i quali, sia detto per inciso, De Gaulle non si sarebbe mai riconciliato), mentre declinano i notabili. E tutto ciò integra e rinnova la pratica parlamentare non meno di quanto rinnovi il parlamentarismo. Per non sottovalutare l’importanza di tale dinamica, bisogna sempre tener presente che in Francia, più che in qualsiasi altro posto al mondo, per dirla con Tocqueville, le istituzioni si fanno passioni.
Come non attribuire il giusto peso, allora, al fatto che già in tempi non sospetti, prima che la guerra rivoluzionasse pensieri e propensioni, per Clemenceau il Presidente fosse fattore d’equilibrio distante dall’azione politica, il Parlamento fosse “diviso” dal potere esecutivo, il Senato fosse pensato come camera dei saggi – tutti elementi estranei al modello repubblicano della classicità, in quanto nello schema si potrebbero rinvenire evidenti “scorie” di derivazione orleanista e persino borbonico-liberale, riconducibili alla Carta del 1814? E come non considerare nelle giuste proporzioni che già con l’avvento di Poincaré la Presidenza della Repubblica abbia iniziato a perdere la natura di potere invisibile e quindi spersonalizzato caro ai repubblicani di tradizione, mettendo a dura prova persino un cerimoniale strettamente improntato a tali precetti?
Dal punto di vista della tradizione repubblicana, sono queste micce innescate che lo scoppio del conflitto avrebbe fatto esplodere. E’ come se i reagenti utilizzati in sperimentazioni a lungo protrattesi nei laboratori della Terza Repubblica, una volta entrati a contatto con gli eventi straordinari della Grande Guerra, giungessero a precipitare. Ed è in questo tempo d’incredibile densità – in grado di segnare una cesura storica di tale profondità da far coincidere con esso, contro la cronologia ufficiale, l’inizio del “secolo breve” – che la “storia lunga” delle istituzioni francesi, non meno di quella della ideologia repubblicana, stabilisce e rafforza i raccordi tra passato, presente e futuro. Per dirla con una formula icastica, dalla introiezione di quegli eventi straordinari Léon Blum sarebbe approdato a sdoganare il presidenzialismo e Charles De Gaulle, nella Discorde chez l’ennemi, avrebbe definitivamente riconosciuto la superiorità del regime democratico parlamentare su quello autoritario dittatoriale, anche e soprattutto nella gestione delle grandi emergenze nazionali.
Sono queste temperie eccezionali, nelle quali è in gioco l’esistenza stessa della Patria, che creeranno un Clemenceau di governo diverso da quel che era stato il Clemenceau di opposizione: fermezza e moderazione; diritto e politica; patriottismo e parlamentarismo. E tutto ciò “sdoganando” definitivamente il potere esecutivo, concedendogli autonomia se non centralità rispetto al Parlamento. Certo, questa evoluzione è agevolata dalla genesi pragmatica della Terza Repubblica, costretta a dotarsi di una incredibile elasticità istituzionale anche al fine di diluire – se non di superare – il latente conflitto tra Monarchia e Repubblica. Il Clemenceau di guerra si riconnette e sfrutta questi esordi. Ma in tale esito non c’è nulla di preordinato, di scontato, di inevitabile. Il fatto è che il parlamentarismo della classicità viene sepolto sotto le macerie di una guerra inimmaginabile (François Furet l’avrebbe definita “democratica” perché legata a numeri fino a quel tempo sconosciuti) e alla fine, per dirla con Compagna, “la forma di governo prevale sulla forma di Stato. La Repubblica conferisce all’esecutivo margini d’intervento sempre più ampi di quelli riservati al legislativo”.
Quel che di Clemenceau rimanda a De Gaulle, dunque, appartiene al Clemenceau di guerra e di governo. Per niente al Clemenceau di opposizione che lo precede; assai poco al Clemenceau di pace che prelude all’uscita di scena. In questo caso De Gaulle ebbe, rispetto all’Algeria, più tempo e modi differenti per far valere la lezione sulla legittimità impartita da Tayllerand a Vienna che invece Clemenceau, rispetto agli assetti del dopoguerra, aveva dimenticato a Versailles.
Si può perciò affermare che la ricomposizione tra i due uomini si compia essenzialmente in nome della superiorità dell’interesse della nazione in guerra, riconosciuta sia da Clemenceau che da De Gaulle. In fondo, patriottismo e istituzioni, dalla Terza alla Quinta repubblica, s’incontrano in un punto mediano provenendo da direzioni opposte: “Il Clemenceau di guerra ed il de Gaulle della France Libre vissero una stessa temperie, con gli stessi sentimenti. Entrambi seppero prendere le distanze da quel che politicamente erano stati prima di allora. Entrambi vissero il patriottismo, il loro patriottismo, come un percorso che li avrebbe riscattati dalle esasperazioni della politica: del parlamentarismo nel caso di Clemenceau, dell’antiparlamentarismo nel caso di de Gaulle”.
Di questi uomini eccezionali ci è stato descritto il distacco dalla politica, preludio al distacco dalla vita terrena, da due penne d’eccezione: per Clemenceau, in chiave di romanzo, ne “Il Presidente” di Georges Simenon; per De Gaulle, in chiave di intervista romanzata, ne “Les chenes qu’on abat”, affidato alla sapiente interpretazione di Charles Malraux. Due narrazioni, se non opposte, quanto meno confliggenti: di tono parlamentare quella consacrata a Clemenceau, nella quale la centralità degli interna corporis rimanda all’introspezione come dimensione privilegiata della scrittura; di tono presidenziale quella che ha De Gaulle come protagonista, impegnata a rintracciare sulla neve che ammanta Colombay les deux Eglises le orme dei grandi passaggi di civiltà vissuti non meno degli scenari planetari futuri. Verrebbe da dire: ognuno muore solo, portandosi appresso la propria storia. Aggiungendo, però, subito dopo: è solo dei grandi uomini che non temono la solitudine saper uscire di scena restando all’altezza di come la scena la si è tenuta.