Il 25 aprile è uno tra i simboli più evidenti dell’ambiguità profonda insita nella democrazia italiana.
Fin dalla sua istituzione, infatti (divenne festa nazionale nel 1949) questa ricorrenza celava due riserve, due elementi non detti che ne condizionavano fortemente il significato, di fatto alterandolo.
Il primo elemento era il soggetto di quella liberazione. Da cosa l’Italia fosse stata liberata era chiaro: dal fascismo (nella sua ultima versione repubblichina), dal nazismo, dall’invasione tedesca. Ma chi la aveva liberata?
Su questo, dal punto di vista fattuale, non potevano sussistere dubbi: dalle forze armate alleate angloamericane. Il contributo delle brigate partigiane italiane era stato in molti casi utile, ma non determinante. Senza la pressione alleata, le forze della resistenza antifascista non avrebbero avuto alcuna possibilità di vittoria. E anche l’insurrezione generale proclamata dal Clnai il 25 aprile 1945 non era altro che il tentativo dei partigiani italiani di marcare la loro presenza, nel momento in cui le truppe tedesche erano ormai in rotta perché gli americani dilagavano nella Pianura Padana.
Tuttavia, questo ovvio rapporto di forze nelle celebrazioni del 25 aprile venne presto accantonato, per trasformare sostanzialmente la data in una celebrazione della Resistenza italiana.
Dietro questo slittamento stava, da un lato, il tentativo della nuova classe politica italiana nel suo insieme di avvalorare l’idea che il fascismo aveva perso la guerra, ma gli italiani, grazie alle formazioni partigiane, la avevano vinta. Dall’altro, la crescente insistenza delle sinistre socialcomuniste nel presentare la Resistenza e i Cln come origine fondamentale della nuova democrazia italiana, in tal modo legittimando automaticamente se stesse come forze democratiche, e facendo passare in secondo piano la differenza strutturale di visione del mondo tra la tradizione liberaldemocratica occidentale e la loro adesione ideologica al modello sovietico.
Questo ci porta al secondo elemento non ufficiale che interviene, negli anni del dopoguerra, trasformando il significato della celebrazione del 25 aprile: il fatto che essa viene progressivamente monopolizzata da una parte dello schieramento politico italiano, usandola come arma contro un’altra parte. Infatti, indicando il modello dell’unità nazionale ciellenista come alfa e omega della democrazia italian way, comunisti e socialisti non soltanto si auto-attibuivano la patente di forze democratiche e anzi contributori essenziali alla rifondazione della democrazia nel paese. Essi dall’autodifesa passavano all’attacco, in quanto la loro interpretazione del 25 aprile gettava, dopo la svolta centrista del 1947 e del 1948, un’ombra di delegittimazione proprio sulla Dc e suoi suoi alleati, “colpevoli” di aver infranto quell’edenica armonia indirizzando l’Italia verso un modello di democrazia conflittuale, per obbedienza servile all’egemonia statunitense.
Fu così che quella della Liberazione divenne ben presto una festa polemica, una festa “contro”: la festa dell’Italia “che avrebbe dovuto essere e non era stata”, una più o meno implicita o esplicita contestazione dell’assetto di potere che nel dopoguerra si era consolidato intorno alle coalizioni guidate dalla Dc. Una connotazione, questa, che venne contrastata per un certo periodo e in una certa misura principalmente dalla “contro-narrazione” cattolica, ma molto meno dalla memoria della Resistenza liberale, monarchica e militare, per lungo tempo quasi del tutto dispersa, intimidita dalle delegittimazioni provenienti da sinistra, e i cui frammenti soltanto a partire dagli anni Ottanta/Novanta avrebbero cominciato ad essere ricomposti.
Un salto di qualità nel senso della appropriazione ideologica del 25 aprile si registra a partire dalla data spartiacque del 1960, quando la mobilitazione di piazza delle sinistre bloccò il consolidamento del centrismo grazie all’appoggio delle destre e impose l’accelerazione verso le maggioranze di centrosinistra, e più in generale una sterzata verso sinistra dell’intera politica italiana, la cui forza inserziale si sarebbe protratta per 20 anni.
La svolta del 1960 fu la premessa della radicalizzazione movimentistica nel nostro paese concretizzatasi nel “lungo Sessantotto”. Da quel periodo in poi la caratterizzazione “partigiana” (nel senso della faziosità) della festa del 25 aprile cominciò ad accentuarsi, in particolare nell’area politica della sinistra extraparlamentare, nel senso di una lettura della Resistenza come “rivoluzione incompiuta”: una lettura conflittuale incomponibile che avrebbe contribuito direttamente ad alimentare la nascita del terrorismo brigatista rosso. Ma tutta l’opinione pubblica progressista subì l’attrazione di un ulteriore radicamento nell’idea della Liberazione come patrimonio praticamente esclusivo di uno schieramento; o, quanto meno, come cartina di tornasole per misurare il grado di antifascismo, e quindi di presentabilità politica, di tutti i settori politici non di sinistra, a seconda che essi aderissero o meno ad una visione della storia italiana che vedeva come sbocco teleologico l’avvento/ritorno della sinistra al potere come sola realizzazione piena della democrazia.
Poi, dopo il decennio di “riflusso” moderato seguito alla deriva estremista degli anni Settanta, il pentapartito, i tentativi faticosi di rinnovare l’impianto istituzionale della Repubblica (Craxi, Pannella, Mario Segni) osteggiati da un tardo-comunismo sempre più reinterpretato come conservazione di una democrazia “sotto attacco” da parte di destre eversive o corrotte, venne il cilone di Mani Pulite, il crollo della prima Repubblica, e infine giunse l’avvento del nuovo bipolarismo maggioritario imperniato sulla figura di Silvio Berlusconi.
Dalla “discesa in campo” del Cavaliere, e dalla prima vittoria elettorale del nuovo centro-destra da lui guidato nel 1994, il 25 aprile cominciò la sua nuova vita: quella celebrazione divenne il massimo coagulante simbolico della mobilitazione anti-berlusconiana.
Da allora, ogni residuo di unità nazionale condivisa intorno alla celebrazione del ritorno alla libertà dopo la dittatura fu spazzato via. Ogni anno, i cortei della Liberazione si riproposero immancabilmente come attacchi frontali, “spallate” contro la destra di Berlusconi, tentativi di delegittimarla ed escluderla dal gioco democratico: un leader dipinto come dittatore mediatico, alleati come Alleanza nazionale e la Lega inchiodati alle loro origini neofasciste o ad una presunta natura eversiva antinazionale. E’ questo ormai il 25 aprile conosciuto da tutte le ultime generazioni che si sono affacciate alla vita civile in Italia: bandiera barricadera per alcuni, giornata rifiutata e cancellata per altri.
Un ultimo, ambizioso tentativo di invertire questa tendenza fu compiuto proprio da Berlusconi. Nel 2009, forte di una vittoria elettorale schiacciante della sua coalizione ottenuta l’anno precedente e di un consenso popolare ai suoi massimi storici, il leader del Popolo della Libertà si recò a celebrare, per la prima volta, la festa della Liberazione a Onna – epicentro del terribile terremoto che aveva colpito l’Abruzzo il 6 aprile, poche settimane prima, e 36 anni prima teatro di una delle stragi naziste ai danni delle popolazioni civili italiane.
Indossando al collo un fazzoletto tricolore, l’allora Presidente del Consiglio tenne in quella sede un discorso solenne: sostenendo che i tempi erano maturi perché la Liberazione, tante volte interpretata come divisiva, potesse diventare veramente la “festa della libertà”, unendo finalmente tutti gli italiani, superando definitivamente i passati conflitti ideologici, e al contempo riconoscendo finalmente in maniera condivisa nella Resistenza “un valore fondante” dell’Italia democratica.
Fu, quello, il punto più alto di popolarità raggiunto da Berlusconi nella sua carriera politica, e qualcuno lo lesse in quei giorni come l’inizio di una fase storica nuova, che – grazie ad un più solido bipolarismo con il Partito democratico fondato da Walter Veltroni – poteva portare una buona volta a quella riforma complessiva delle istituzioni che era più volte fallita in precedenza.
Pochi giorni dopo, veniva scatenata contro Berlusconi l’ennesima campagna mediatico-giudiziaria contra personam: la più scandalistica e la più mirata alla distruzione della sua credibilità anche sul piano della vita privata. Una campagna che, intrecciata con le conseguenze pesantissime della grande recessione del 2008, in due anni condusse alle dimissioni del Cavaliere, e alla fine del berlusconismo come periodo storico.
Si apriva una fase ancora più conflittuale e confusa della vita politica italiana, contrassegnata da potenti spinte antipolitiche, da leadership effimere, da rivolgimenti continui degli equilibri di governi, da tendenze a commissariamenti tecnocratici e a fughe in avanti populistiche. Una fase che non si è ancora conclusa. E nella quale il 25 aprile ha continuato ad essere “sequestrato” da logiche di faziosità sempre più estrema.
Quella che un tempo fu la festa della Liberazione è diventata il contenitore, lo sfogatoio umorale e grossolano di una sinistra priva di bussola, sedotta da utopie multiculturaliste e “dirittiste” completamente estranee alle radici della democrazia repubblicana, pronta ad accusare di razzismo chiunque non ne sposi la logica ferreamente dottrinaria (come in primo luogo il nuovo leader della Lega Salvini, che ha rapidamente sostituito Berlusconi come “bestia nera” dei manifestanti). Una sinistra di cui l’Associazione partigiani è diventata l’ennessimo partitino rissoso e autoreferenziale.
Questo è ciò che rimane, tristemente, della memoria di un momento così importante e decisivo come il ritorno della sovranità, della libertà e della democrazia sull’intero territorio italiano, 75 anni fa.
Si può ancora fare qualcosa per recuperare il significato autentico di quel momento, e trasformarlo – a dispetto di una vicenda amara – in un punto di forza per la vita della comunità nazionale in una fase storica in cui, tra depressione economica globale ed emergenza pandemica, si sente più che mai, paradossalmente ma non troppo, l’esigenza di una “liberazione” delle energie compresse della nostra società?
Forse ci siamo tagliati tutti i ponti alle spalle, forse la disgregazione divisiva è andata troppo avanti.
Ma se così non fosse, si dovrebbe ripartire dai 2 elementi che della Liberazione sono stati da tempo rimossi, nella sua torsione ideologizzata. Da un lato il contributo fondamentale dell’America, cioè il legame inscindibile tra la genesi della nostra democrazia nel dopoguerra e la solidarietà atlantica, l’Occidente. Dall’altro, la restaurazione della democrazia come pluralismo all’interno di princìpi condivisi di convivenza, di un comune senso di appartenenza, di una comune aspirazione all’indipendenza.
E’, insomma, il senso che era stato indicato nel 2009 da Berlusconi: festa della liberazione come festa della libertà, che appartiene a tutta la nazione, e ripone nell’armadio della storia le ideologie del Novecento, il fascismo e il comunismo, per guardare avanti.