di Pierre Haski, France Inter, Francia
Articolo apparso su Internazionale, traduzione Andrea Sparacino
Quando si verifica un evento che minaccia i diritti umani, il riflesso immediato dell’opinione pubblica occidentale è quello di indignarsi, di chiedere un’azione internazionale e di stabilire che non si sta facendo abbastanza.
È precisamente quello che sta accadendo a proposito della legge sulla sicurezza imposta da Pechino a Hong Kong, subito applicata il 1 luglio con l’arresto di alcuni manifestanti. Ricordiamo che la legge prevede pene carcerarie fino all’ergastolo.
I paesi occidentali hanno immediatamente condannato la mossa di Pechino, la cui legge viola il trattato internazionale sull’autonomia di Hong Kong e riporta una cappa di piombo sul territorio. Tuttavia niente di ciò che viene detto o fatto potrà cambiare una decisione che la Cina ha preso nella piena consapevolezza delle proteste che avrebbe provocato.
Legami utili
Il regime cinese è riuscito a diventare intoccabile. Prima di tutto perché sanzionare un membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, dotato del diritto di veto, è letteralmente impossibile. Il trattato sino-britannico su Hong Kong è stato depositato all’Onu, ma la Cina non permetterà mai che sia approvata una mozione di condanna.
Inoltre Pechino ha creato negli ultimi anni, grazie alla forza della sua economia, legami che tornano utili in questi momenti di tensione. Lo abbiamo visto, con tutto il cinismo di cui sono capaci i rapporti internazionali, al Consiglio per i diritti umani dell’Onu, dove Cuba ha proposto una mozione in sostegno della legge cinese che ha ricevuto 53 voti favorevoli e solo 27 contrari. Tra i sostenitori della Cina ci sono i regimi più autoritari come l’Iran e l’Arabia Saudita (per una volta uniti) o la Corea del Nord, ma anche tutti i paesi africani che fanno parte di questo Consiglio dell’Onu, il Marocco e il Sudan, paese che si è appena liberato di un dittatore. Sul fronte opposto, isolati, ci sono i paesi europei e il Giappone.
Una seconda mozione, presentata dalla Bielorussia e approvata dall’assemblea, sostiene la politica cinese a proposito della minoranza uigura.
Evidentemente gli interessi economici la fanno da padroni. Questo vale per i paesi “clienti” della Cina nel quadro della nuova via della seta, ma anche per gli occidentali, che non sono disposti a sacrificare i propri interessi economici per salvare Hong Kong.
Nel 1989, dopo il massacro di piazza Tiananmen, furono imposte sanzioni economiche e un embargo sulle armi a Pechino. Ma due anni dopo le riforme economiche cinesi ripresero e gli occidentali, senza chiedere la minima contropartita politica, si lanciarono sulla Cina nel più colossale periodo d’investimenti della storia
Oggi la Cina non è più quella del 1989, ma è diventata la seconda potenza mondiale e ha attuato un giro di vite a livello politico.
Gli europei vogliono evitare di cadere nella logica da guerra fredda adottata da Donald Trump, ma la radicalizzazione delle due superpotenze non lascia scelta. L’approccio equilibrato voluto dall’Europa si scontra con il disordine crescente nel mondo. Hong Kong è diventata un test crudele per le potenze. E in questo gioco la Cina è chiaramente la più forte.