Si è ripetuto fino alla noia che l’attacco di Al Qaeda agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 fu la fine del “momento americano” o “unipolare” della globalizzazione, la fine di una visione occidente-centrica del dopo guerra fredda come “fine della storia”, l’inizio dello “scontro di civiltà” annunciato negli anni Novanta da Samuel Huntington.
In questo schema c’è ovviamente del vero. Con l’11 settembre il terrorismo jihadista compiva un decisivo salto di qualità in termini di ambizioni, puntando al “cuore” del “grande Satana” americano. Ma una semplificazione imperniata sull’indiscutibile valore simbolico di quella data-spartiacque rischia di impedire un’analisi più profonda dei fattori alla base dei grandi mutamenti storici degli ultimi decenni.
Lo “scontro di civiltà” tra Occidente e Islam integralista non inizia, infatti, nel 2001. Se vogliamo individuare la data-spartiacque veramente fondamentale in tal senso dobbiamo risalire invece al 1979, anno in cui la guerra fredda era ancora pienamente in corso, ed anzi – dopo gli ultimi scampoli della “distensione” – si apprestava a vivere il suo ultimo periodo di recrudescenza. E’ l’anno in cui in Iran nasce la repubblica islamica sciita guidata dall’ayatollah Khomeini, e in cui l’Unione sovietica invade l’Afghanistan. Da un lato, il primo regime dichiaratamente fondato sull’applicazione politica integrale della “sharia”; dall’altro, l’estremo tentativo di una tra le due superpotenze di piegare il mondo islamico all’interno della logica bipolare tra Occidente e comunismo.
A partire dalla svolta iraniana, attraverso la guerra libanese del 1982, la “faglia” conflittuale arabo-israeliana avrebbe visto crescere, nel primo campo, la componente religiosa islamista sempre più tendente a sostituire quella nazionalista laica, con la nascita di Hezbollah e poi di Hamas, e le crescenti infliltrazioni khomeiniste nel contesto mediorientale. Dall’altro lato, la resistenza afghana dei “mujaheddin” contro l’Armata rossa sarebbe stata la prima “palestra” di organizzazioni militari islamiste sunnite, tra cui proprio quella fondata dal miliardario saudita Osama bin Laden, che successivamente avrebbero ripreso il modello di una sorta di “legione dell’Islam” in altri conflitti, come quello della ex-Jugoslavia. Una guerra, quella jugoslava, che peraltro, come altre nate dalla disrgegazione del mondo comunista (Armenia/Azerbaijan, Georgia, Cecenia), poneva fin dai primi anni Novanta in evidenza l’emergere in primo piano di contrapposizioni non più ideologiche, ma etniche e religiose, su cui appunto Huntington puntava l’attenzione nel suo primo articolo del 1993 intitolato al “Clash of civilization”. Nello stesso periodo la guerra civile algerina prima, l’avvento del regime dei Talebani in Afghanistan poi, dimostravano come l’avanzata politica dell’integralismo fosse tangibile e pesante.
Intanto, dopo la guerra del Golfo, la strategia jihadista globale – della quale l’organizzazione di Osama divenne il principale nucleo animatore – andava prendendo chiaramente forma, e si concentrava sull’obiettivo di colpire gli interessi occidentali in ogni parte del mondo islamico: per spingere da una parte gli Stati Uniti ad allentare la propria presenza miltiare nell’area, e per suscitare dall’altra sollevazioni di impronta religiosa integralista contro i regimi nazionalisti laici. Un obiettivo perseguito attraverso attentati molto audaci negli anni Novanta: in primo luogo il primo attacco al World Trade Center nel 1993 (opera di islamisti egiziani guidati dallo sceicco Abd-Al-Rahman), poi altri tra Africa e Asia, come quelli alle ambasciate statunitensi di Kenya e tanzania (agosto 1998, 224 vittime) e quello all’incrociatore americano USS Cole nello Yemen (ottobre 2000).
In questo processo di sempre più nitida contrapposizione l’11 settembre rappresenta certo il momento più eclatante, ma soprattutto quello in cui il conflitto viene riconosciuto dalla classe politica statunitense e da quella di altri paesi occidentali (Regno Unito in primo luogo), e a partire dal quale prende avvio una contro-strategia che prima era assolutamente mancata: quella della “war on terror” di George Bush jr., imperniata sull’idea non tanto di “esportare la democrazia” nei paesi islamici, quanto principalmente di mantenere presidi militari forti in Medio Oriente per impedire una deriva di destabilizzazione che avrebbe potuto colpire anche i principali alleati degli americani nell’area. Proprio nella consapevolezza che ormai il criterio discriminante dello scontro politico e bellico sulla faglia Occidente/Islam era soprattutto l’alternativa tra la “jihadizzazione” e il mantenimento di un establishment arabo-musulmano con il quale mantenere aperto un dialogo.
Una contro-strategia che, con costi economici e umani molto alti, gli Stati Uniti hanno sostanzialmente confermato nel ventennio successivo, e che è stata realmente ridimensionata solo con la presidenza Trump in favore di un approccio più pragmatico, fondato sulla salvaguardia degli interessi nazionali essenziali e sulla trattativa bilaterale: un approccio che, da ultimo, ha conseguito un risultato rilevante con l’accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche firmato da Israele ed Emirati arabi uniti.
A loro volta, gli integralisti islamici hanno risposto su due piani: da un lato, con il progetto dello Stato islamico (Isis), che ha sostituito Al Qaeda ormai in disarmo, nel tentativo di dare un nuovo ancoraggio territoriale all’alternativa jihadista; dall’altro, con una costante pressione terroristica verso l’Occidente, ed in particolare verso l’Europa, attuata sotto varie sigle associative (tra cui lo stesso Isis), ma soprattutto facente leva sulle cospicue comunità musulmane residenti nel vecchio continente.
E proprio l’Europa nello scontro “di faglia” tra Occidente e Islam radicale si è dimostrata, nell’ultimo ventennio, l’anello debole della catena. In massima parte persuase, dopo il 1989, di un futuro ormai inevitabilmente pacifico nella politica mondiale, le classi politiche e dirigenti europee hanno per lo più rifiutato di ammettere il nuovo conflitto nel quale, insieme agli Stati Uniti, sono state coinvolte dall’aggressione integralista, e hanno marcato a più riprese le distanze dalla superpotenza transatlantica, coltivando la velleità di svolgere un ruolo di mediazione e così di salvarsi dagli effetti più distruttivi del conflitto stesso. In realtà in tal modo esse hanno dimostrato in primo luogo di essere cedevoli al ricatto della violenza esercitata dalle organizzazioni jihadiste, rinunciando a difendere i propri interessi vitali e persino a mantenere il controllo del proprio stesso territorio. In secondo luogo, ancor più gravemente, esse hanno dimostrato di non aver compreso le dinamiche storiche in atto, cioè l’immigrazione di massa come arma di una nuova “guerra santa” contro un continente vecchio, sempre più spopolato e scristianizzato; e hanno continuato a difendere l’ideale di un multiculturalismo relativistico ormai del tutto superato dalla realtà. Con esiti sempre più rovinosi sul piano sociale e culturale, che potrebbero presto essere irreversibili.
Infine, oltre che per l’11 settembre, il 2001 rappresenta uno spartiacque storico anche in un altro senso, che però spesso viene trascurato. In quell’anno, infatti, il 19 dicembre, poco più di un mese dopo l’attacco alle Torri Gemelle, la Cina veniva ammessa nel Wto, ottenendo che il suo capitalismo autoritario e stato-centrico fosse riconosciuto come modello di economia di mercato allo stesso titolo delle economie dei sistemi liberaldemocratici.
Cominciava così la nuova fase della globalizzazione, quella “sinocentrica”, che avrebbe prodotto un autentico cataclisma economico e sociale in Occidente. Mentre l’Occidente si sfiancava nel conflitto di faglia contro l’islamismo radicale, l’Impero celeste poneva le basi dello strapotere economico che alla fine del secondo decennio del XXI secolo sarebbe sfociato nel passaggio dal multipolarismo al nuovo bipolarismo globale.