Pubblichiamo un estratto del libro “L’autodistruzione dell’Occidente – Dall’umanesimo cristiano alla dittatura del relativismo”, di Eugenio Capozzi, appena uscito per la casa editrice Giubilei Regnani.
***
Sempre più spesso nel dibattito pubblico occidentale si invoca la necessità di un “nuovo umanesimo”, tanto che l’espressione è diventata un luogo comune.
Ma cosa si intende con questa formula? Perché essa risuona con tanta insistenza? Cosa si vuole indicare, quando la si usa, con il termine “umanesimo”? Perché il “vecchio” umanesimo sarebbe superato, e ne occorrerebbe uno nuovo?
La ricorrenza di un tale tema nelle società occidentali segnala, in realtà, la presenza di una disaffezione profonda, in élites influenti e in parti rilevanti dell’opinione pubblica, rispetto a modelli culturali, etici, politici ereditati dal passato e a un’appartenenza in precedenza largamente condivisa.
Si tratta di un fenomeno che si è manifestato in misura crescente nei paesi europei, poi occidentali, a partire dai grandi processi di modernizzazione che li hanno interessati dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri, ed è emerso in maniera ancora più accentuata negli ultimi decenni con le trasformazioni innescate dalla globalizzazione.
La rappresentazione dell’uomo, la sua collocazione, il suo valore sono temi cruciali per definire l’identità dell’Occidente. Proprio su un’idea ben definita di umanità le società con essa identificate hanno costruito la loro legittimazione a esercitare, al di là della potenza materiale, un ruolo preminente: l’idea dell’uomo come immagine e sintesi della realtà, che esercita un ruolo decisivo nell’universo. La cultura occidentale, ultima derivazione di quella mediterranea, semitica ed europea, ha costruito una concezione dell’essere umano come essere dotato di ragione e libertà, in grado di conoscere il senso della realtà che lo circonda e di agire consapevolmente. E dunque proprio nell’incrinatura di quel comune sentire intorno alla natura umana vanno ricercate le origini di una crisi di identità, le sue caratteristiche e la sua possibile evoluzione.
Il “nuovo umanesimo” invocato oggi sempre più spesso da molti esponenti delle élites politiche e culturali occidentali esprime in realtà non la ripresa ma piuttosto il rifiuto di quella concezione dell’uomo come animale razionale e libero che sta alla base dei diritti individuali, del liberalismo, della democrazia, e che è stata costruita nell’incontro tra cultura greca, romana, ebraica, celtico-germanica passando attraverso la rivoluzione cristiana e la modernità. Quell’aspirazione esprime infatti una vera e propria rivolta dell’Occidente contro i suoi fondamenti di civiltà e i frutti più importanti di essi: l’idea della legge e del diritto naturale, i diritti e le libertà individuali, l’idea di uguaglianza, i limiti imposti al potere politico, la libertà economica. In essa si manifesta un’avversione radicale degli occidentali per la propria storia, un “odio di sé” – come fu definito quasi vent’anni fa da Joseph Ratzinger – derivato da un senso di colpa indotto: figlio di forze culturali e spirituali autodistruttive operanti da tempi molto lontani, e venute prepotentemente alla luce come una vera e propria “malattia autoimmune” contrastata solo dall’azione di preziosi “modulatori di immunità”, a lungo somministrati.
Proprio a partire dall’avvento della modernità, infatti, qualcosa si è infranto nell’equilibrio culturale che la civiltà europea aveva raggiunto. Alcuni aspetti della visione del mondo umanistica e razionalista che essa aveva prodotto sono ancora visibili, ma altri si sono invece indeboliti, logorati, consunti, fino a collassare. La secolarizzazione radicale, il culto della potenza slegato da limiti, lo scientismo e le ideologie hanno corroso l’umanesimo occidentale fino a dissolverlo in un relativismo radicale, nel quale la stessa nozione di uomo perde significato. Un relativismo che lascia il mondo globalizzato privo di un tessuto etico-politico comune, e che può essere combattuto soltanto da una consapevole riconnessione della civiltà occidentale alle proprie radici religiose, filosofiche ed etico-politiche. Si tratta, per l’Occidente e per i princìpi sorti nella sua lunga storia, di una questione di vita o di morte. […]
Dal punto di vista storico e filosofico non esistono diverse incarnazioni o interpretazioni dell’umanesimo. Né è sostenibile una successione tra umanesimo “vecchio” e “nuovo”: il primo ristretto e superato storicamente, il secondo aggiornato, “2.0”, “inclusivo”, adeguato ai cambiamenti dei tempi, destinato a condurre alla piena realizzazione le promesse che l’umanesimo “vecchio” non aveva mantenuto. Simili rappresentazioni sono derivate da una lettura ideologica che si contrappone a quello che è stato il senso costante della cultura europea/occidentale, o semplicemente non lo comprende.
Nella storia della nostra civiltà esiste un solo umanesimo, che ne incarna il baricentro culturale: l’idea ebraica e poi cristiana dell’uomo come essere creato da Dio a propria immagine e somiglianza. Un’idea alla luce della quale ogni individuo umano rappresenta un essere unico, irripetibile, alla cui salvaguardia ogni istituzione, norma, potere, forzaumana devono essere finalizzate, e dinanzi al quale devono arrestarsi. […]
Il fondamento umanistico/cristiano della società europea rappresenta infatti la precondizione essenziale per la manifestazione delle caratteristiche culturali – le killer apps, secondo la definizione di Niall Ferguson1 – che avrebbero assicurato il dominio economico, politico, scientifico, militare delle potenze europee a livello mondiale: con l’epoca delle scoperte e conquiste extraeuropee, del sistema di potenze westfaliano, del “concerto delle potenze” ottocentesco e dei grandi imperi coloniali, della “società commerciale” e poi di quella industriale. Senza quella fede incondizionata nell’uomo, nella sua razionalità, nelle sue potenzialità pratiche, supportata dall’idea di una sua privilegiata collocazione nel cosmo e di un suo rapporto organico con il trascendente, quel dominio non sarebbe state nemmeno pensabile. […]
Solo l’umanesimo ebraico-cristiano – sostanziato dagli apporti culturali greco-romani, germanici, celti, slavi – ha consentito la nascita, la crescita, l’espansione, la durata, l’autocoscienza, la resistenza, il senso di identità della civiltà occidentale. Qualsiasi alternativa a esso è impossibile, in quanto non esiste un universalismo alternativo a quello che la storia dell’Occidente ha prodotto. Le dottrine che hanno cercato di contrapporsi a esso sfociano inevitabilmente nel relativismo, incompatibile con l’essenza e con la sopravvivenza della civiltà che lo ha generato.
La vittoria del relativismo contemporaneo segnerebbe la definitiva disgregazione dell’Occidente, destinato a essere fagocitato, molto prima di quello che pensiamo, da altre civiltà impermeabili ai suoi princìpi e più saldamente ancorate alla propria identità. In tal caso tutta l’eredità culturale, artistica, religiosa, filosofica, politica, giuridica occidentale sarebbe ben presto spazzata via.
La rotta che sta portando al naufragio la nostra civiltà potrebbe essere arrestata soltanto da un pieno recupero, da una piena e condivisa riappropriazione in essa della concezione ebraico-cristiana dell’uomo, con tutto il patrimonio genetico che la contraddistingue.
Una tale riscoperta non rappresenterebbe affatto – in base a tutto ciò che abbiamo detto finora – la rinuncia al patrimonio del razionalismo, del metodo scientifico, del sapere critico, della laicità, dell’illuminismo, ma all’opposto la loro piena valorizzazione e comprensione all’interno di una vicenda storica dotata di senso: quella, appunto, fondata sull’uomo come valore assoluto, non negoziabile, essere integralmente razionale e libero.