Terzo appuntamento di “PNRR e riforme”, la rubrica dedicata alle riforme connesse al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. CLICCA QUI per leggere tutti gli articoli.
L’Italia è il paese europeo dove si nasce di meno. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istat, nel 2020, anche in conseguenza della pandemia da Covid-19, si sono registrati un minimo di nascite e un massimo di decessi e un numero medio di figli per donna pari a 1,29 (nello specifico, 1,18 per le cittadine italiane, indice che sale a 1,29 grazie alla componente straniera, che tuttavia non ci permette di lasciare il fondo della classifica europea).
In Europa, i singoli tassi di fecondità si differenziano fortemente da paese a paese, ma la recessione demografica rappresenta un fenomeno condiviso: tutti gli Stati membri presentano, infatti, indicatori al di sotto del tasso di sostituzione e il calo delle nascite e l’incremento della longevità stanno cambiando profondamente il profilo della popolazione europea nel suo complesso.
Da alcuni studi di recente diffusione spicca un ulteriore dato preoccupante: l’emergenza demografica non è più appannaggio della sola civiltà occidentale, rappresentando, viceversa, un fenomeno destinato a diffondersi su scala globale.
Secondo uno studio condotto dai ricercatori dall’Institute for HealthMetrics and Evaluation (Ihme) dell’Università di Washington e pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “The Lancet”, la popolazione mondiale raggiungerà probabilmente il suo picco nel 2064 a circa 9,7 miliardi di persone, per poi contrarsi entro il 2100 giungendo a 8,8 miliardi di persone. Si prevede che entro il 2100, 183 dei 195 Paesi analizzati avranno tassi di fertilità totali (TFR) ben al di sotto del livello di sostituzione di 2,1 nascite per donna necessario per mantenere inalterato il numero di abitanti: globalmente il TFR diminuirà costantemente, da 2,37 nel 2017 a 1,66 nel 2100.
Particolarmente allarmante, poi, quanto emerge in merito allo scenario delineato nei Paesi ad alta fertilità per i quali è previsto gran parte del declino dei tassi di sostituzione. Nell’Africa Sub-sahariana ci si aspetta, per la prima volta, un calo al di sotto del livello di sostituzione del TFR, che dovrebbe passare da una media di 4,6 nascite per donna nel 2017 a solo 1,7 nel 2100.
Nel medesimo studio si prevede che in Italia la popolazione, che ha raggiunto il suo picco di 61 milioni di abitanti nel 2014, crollerà a circa 28-31 milioni nel 2100, dimezzandosi nell’arco di soli 80 anni.
Le conseguenze socio-economiche del fenomeno della crisi demografica sono molteplici e tutte drammatiche, non solo per ciò che riguarda il calo della popolazione in numeri assoluti, ma anche per i problemi legati al progressivo invecchiamento della popolazione.
Il calo della popolazione giovane diminuisce l’offerta di forza lavoro, con il rischio di determinare veri e propri vuoti in alcuni settori, generalmente ad alta specializzazione, più difficili da integrare con la forza lavoro offerta dall’immigrazione. A rischio è anche la tenuta del sistema previdenziale e di quello sanitario, che difficilmente sarà in grado di gestire la maggior necessità di cure della popolazione di età media più alta.
L’incremento della popolazione anziana genera anche una diminuzione della propensione al rischio d’impresa, all’innovazione e alla creatività. Secondo il citato rapporto Lancet, in termini di PIL si prevede che entro fine secolo l’Italia scenderà vertiginosamente nelle classifiche, precipitando da nona più grande economia globale nel 2017 al 25esimo posto nel 2100.
Gli effetti negativi si riversano anche sulla tenuta del tessuto sociale e relazionale del nostro Paese, generando solitudine per gli anziani e un impoverimento strutturale della coesione comunitaria e solidaristica. Destinato a peggiorare è anche il problema dello spopolamento delle aree interne, già da tempo protagoniste di un progressivo fenomeno di abbandono in favore delle zone costiere e delle grandi città.
La tendenza alla diminuzione delle nascite e il progressivo invecchiamento della popolazione rischiano di gettare il Paese in una crisi strutturale di decrescita. Ciononostante, l’attenzione al calo demografico sembra essere inversamente proporzionale ai suoi effetti negativi.
La circostanza appare particolarmente preoccupante qualora si consideri che il fenomeno dell’inverno demografico è destinato a scontrarsi con un “punto di non ritorno” dai cui effetti negativi sarà quasi impossibile sottrarsi e che si attesta intorno al raggiungimento della soglia del 30 % di popolazione ultrasessantenne. Secondo le previsioni Istat, l’Italia ci arriverà nel 2025.
Come arginare il fenomeno del declino demografico? Gli studi condotti in merito al rapporto causa-effetto tra spesa pubblica e nascite, che analizzano le diverse misure messe in campo dai diversi Governi dei Paesi dell’Unione Europea negli ultimi anni, dimostrano che i sostegni alle famiglie (soprattutto se strutturali e durevoli nel tempo) hanno generalmente un’efficacia positiva ma molto contenuta sull’aumento dei tassi di fecondità.
L’aumento della spesa pubblica, sia in termini quantitativi che qualitativi, rappresenta, dunque, condizione necessaria ma non sufficiente per intervenire in modo efficace nell’inversione delle tendenze demografiche in atto. Ciò perché la crisi delle nascite ha ragioni e radici ben più profonde del mero problema economico, che tuttavia viene spesso esibito come causa unica.
Alla base del fenomeno dell’inverno demografico vi sono alcuni fattori di matrice culturale: il valore della genitorialità e, in specie, della maternità hanno un ruolo sempre più marginale nel dibattito pubblico e sociale, che sembra aver dimenticato il valore fondamentale della famiglia.
È necessario, dunque, puntare non solo su politiche attive di spesa in favore della natalità, ma anche incrementare politiche sociali volte alla valorizzazione della genitorialità e della maternità, abbandonando la prospettiva del breve periodo e recuperando la concezione dei figli come futuro del Paese.
Questa è anche la finalità dei progetti di legge depositati alla Camera e al Senato per istituire la Giornata della Vita Nascente. Si tratta di proposte prive di costi, firmati da esponenti di forze politiche di diversa collocazione, che mirano a dare un forte segnale culturale e ad aprire un dibattito che coinvolga tutto il paese per promuovere un’occasione di riflessione sull’importanza dell’esperienza genitoriale.
Senza natalità non c’è futuro, e senza futuro non c’è ripresa.
Occorre, pertanto, una seria riflessione, anche in occasione dello stanziamento dei fondi connessi al Next Generation EU (strumento concepito, per l’appunto, per la “Next Generation”) e delle riforme ad esso consequenziali, sul tema della rinascita demografica, che dev’essere affrontato come assoluta priorità del Paese. L’attuazione del Recovery Plan deve fornire un’occasione per un piano di rinascita demografica e per concepire idonei interventi di sostegno alla natalità e alla genitorialità.
Il tema non può più aspettare: per questo è assolutamente necessario ricostruire un terreno di confronto e di dibattito pubblico che apra la strada a misure concrete da attuare per frenare il fenomeno dell’inverno demografico.