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di Valentina Scarpa Bonazza Buora

 

Si è conclusa da pochi giorni la conferenza di pace sulla Siria detta “Ginevra 2”, in continuità con “Ginevra 1” tenutasi nel giugno 2012. I circa trenta paesi che hanno partecipato a Ginevra 2 avevano come obiettivo quello di raggiungere una soluzione politica alla crisi siriana, per far fronte a una situazione divenuta oramai insostenibile, dato che dal 2011 la Siria è immersa in una guerra civile che vede la quotidiana violazione dei diritti umani, la morte di centinaia di migliaia di persone e l’attacco ai valori della democrazia. La conferenza, però, si è conclusa con un nulla di fatto, poiché non si è trovato alcun punto di incontro tra la delegazione “governativa” siriana e quella dei “ribelli”.

Questa fallimentare conferenza, in realtà, ci dà lo spunto per portare alla luce un’altra questione fondamentale nel complesso equilibrio dello scacchiere mediorientale, e cioè quella iraniana. Il Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, infatti, a pochi giorni dall’inizio di Ginevra 2, ha ritenuto opportuno invitare ufficialmente l’Iran a partecipare a queste trattative, nella convinzione – confermata dal ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif – che l’alleato di ferro del presidente siriano Bashar al-Assad fosse disposto ad accettare i termini dell’accordo di Ginevra 1, giocando «un ruolo positivo e costruttivo».

Poche ore dopo l’invito, però, è arrivata la smentita di Ali Akbar Velayatì, consigliere per la politica estera della Guida suprema iraniana Alì Khamenei, il quale ha precisato che la Repubblica islamica dell’Iran non ha nessuna intenzione di accettare i punti della road map di Ginevra 1, poiché accondiscendere a quel patto significherebbe «legittimare i terroristi siriani». Ciò ha generato una situazione di “imbarazzo diplomatico” che si inserisce in un quadro più ampio di operazioni “incerte” da parte del mondo occidentale nei confronti dell’Iran, in particolare, e di un certo tipo di islamismo, in generale.

Di questo quadro fa parte, in modo controverso, l’accordo sul nucleare che si è tenuto, sempre a Ginevra, il 24 novembre scorso. Le potenze mondiali del gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania) hanno stabilito con l’Iran un “piano d’azione congiunto” con lo scopo di rallentare il programma atomico iraniano (interrompere l’arricchimento dell’uranio sopra il 5%, non aggiungere altre centrifughe, neutralizzare le riserve di uranio arricchito al 20%) prevedendo come notevole contropartita, nel caso in cui tale impegno sia rispettato, la diminuzione delle sanzioni economiche cui l’Iran è soggetto da decenni.

Su questo accordo le opinioni sono state, come era prevedibile, discordanti. Nonostante Obama, subito dopo l’incontro di novembre a Ginevra, abbia parlato di un «primo passo di portata storica», e anche Catherine Ashton abbia espresso parole di apprezzamento rispetto al raggiungimento di questo primo risultato orientato alla pacificazione mondiale, c’è anche chi sottolinea un nodo di non secondaria importanza, ossia quello concernente il diritto “inalienabile” rivendicato da Abbas Aragchi – numero due di Javad Zarif – di poter continuare sulla strada dell’arricchimento dell’uranio al fine di utilizzare la tecnologia nucleare per obiettivi pacifici. Concedere ad uno Stato la possibilità di continuare sulla strada dell’arricchimento dell’uranio “per scopi civili” è in linea di principio accettabile, ma la differenza in questo caso sta proprio nelle garanzie che può offrire una Repubblica islamica come quella iraniana, ben lontana dai criteri e dai principi che ispirano le democrazie occidentali.

In questo senso Bret Stephens sul Wall Street Journal ha paragonato l’accordo raggiunto a Ginevra alla Conferenza di Monaco del ’38, mettendo in luce il fatto che l’errore commesso da Francia e Inghilterra con la Germania di Hitler sulla questione dei Sudeti rischia di vedere tristemente un suo successore proprio nell’accordo sul nucleare tra i 5+1 e l’Iran. Corsi e ricorsi storici, secondo una nuova concezione di “appeasement” non meno pericolosa e insidiosa. A conferma della tesi sostenuta da Bret Stephens, Carlo Panella su Il Foglio ha individuato con la solita chiarezza il punto della questione, sostenendo che

Il parallelo è opportuno, a patto che non si ragioni in termini geopolitici, dentro le regole che valgono nella diplomazia occidentale da Vestfalia in poi. Dentro quello schema, invece, ragionò e agì Chamberlain, che non coglieva per nulla – non da solo – il punto focale di quella trattativa, che non era affatto la ragione o no che i tedeschi dei Sudeti avevano di voler essere distaccati dalla Cecoslovacchia e essere inglobati nel Reich tedesco. […] Anche l’Iran oggi ha tutte le ragioni di aspirare al nucleare civile e anche a pretendere di raffinare l’uranio da solo: l’errore dei 5+1 a Ginevra è oggi, appunto, di ritenere che il punto focale della trattativa sia questo e che quindi l’ambito della discussione sia soltanto quello di imporre agli iraniani di aderire ai protocolli e alle ispezioni dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), come previsto dal Trattato di non proliferazione nucleare.

Il macro-errore, dunque, sarebbe quello che si collega a quanto detto finora e alla conferenza di Ginevra 2 di questi giorni, e cioè quello di trattare con l’Iran come se si avesse a che fare con una potenza democratica occidentale. Ottenere l’accordo sul nucleare e vedere la notizia del 20 gennaio scorso sull’Iran che ha confermato la sospensione dell’arricchimento dell’uranio al venti per cento sono tutti piccoli tasselli di una trattativa pacifica che, però, dimostrano la propria debolezza e sostanziale inconsistenza nel momento in cui si vuole spingere il negoziato verso qualcosa che abbia a che fare con una questione – quella siriana – che coinvolge i diritti e la concezione stessa dello Stato. La famosa charm diplomacy iraniana, ossia la strategia diplomatica che Hassan Rohani sta utilizzando per trasmettere un’immagine collaborativa dell’Iran, si manifesta nella sua insussistenza proprio nel momento in cui la Guida Suprema ferma qualsiasi tentativo di dialogo su temi che vanno a toccare questioni ben più profonde rispetto a quelle economiche.

È importante, dunque, non perdere di vista l’obiettivo. L’Occidente vuole sostenere quanti chiedono un regime change oppure, in nome del dialogo con un interlocutore che assai di frequente ha dimostrato di non essere affidabile, cedere allo scopo di ottenere un presunto dialogo su questioni fondamentali che porta avanti da decenni? Del resto, come ha fatto notare Fiamma Nirenstein in una recente tavola rotonda sulla charm diplomacy iraniana organizzata da Magna Carta, la situazione politica iraniana potrebbe cambiare da un momento all’altro e il “moderato” Hassan Rohani potrebbe essere sostituito da qualcuno meno intenzionato a collaborare – posto che adesso di reale collaborazione si possa parlare – con l’Occidente. In secondo luogo, che contiene il primo, non bisogna dimenticare che tra gli scopi dichiarati della Repubblica islamica iraniana c’è quello della rivoluzione in nome del califfato mondiale, come c’è anche il sostegno più o meno diretto a gruppi terroristici. Un Paese, l’Iran, sottolinea sempre Nirenstein, «che da quando Rohani è presidente ha giustiziato 400 persone, che impicca gli omosessuali e perseguita dissidenti e donne», e che definisce Israele “un cane rabbioso da eliminare”.

L’atteggiamento assunto da Obama e, purtroppo, anche da noi italiani, è quello di ricercare a tutti i costi di risolvere la situazione con negoziati impostati secondo un dialogo alla pari, cercando di distogliere lo sguardo dall’estremismo islamico e plaudendo ai piccoli quanto effimeri risultati raggiunti. La “danza occidentale” degli agreements può avere un significato importante all’interno di un determinato sistema di valori legato alla nostra cultura democratica, ma al cospetto di chi viola diritti universalmente riconosciuti non è forse il modo più efficace per tenere fermi determinati principi, su cui servirebbe una maggiore determinazione.

Come mai si ha l’impressione che l’Occidente abbia rinunciato alla lotta faticosamente intrapresa per la democrazia e abbia preferito optare per blandi e insufficienti meccanismi di contrattazione? Ci si chiede, cioè, dove sia finito lo spirito fermo e deciso delle politiche americane – e di quelle italiane – all’indomani della tragedia dell’11 settembre. Possiamo accettare ogni compromesso in nome del relativismo oppure ci sono delle questioni che ci imporrebbero di non retrocedere e, anzi, andare avanti con decisione nel sanzionare determinate condotte? E, infine, quando si riprenderà dalla crisi economica, come si comporterà l’Occidente di fronte alla crisi di identità che lo ha colpito da almeno un decennio?

È necessario, allora, saper rispondere a questi interrogativi tornando sulla strada della risoluzione di una questione che non è mai stata solo sul nucleare, ma che ha a che fare, piuttosto, con l’odio nei nostri confronti, nei confronti di Israele e con la costante violazione dei diritti umani. Dobbiamo rimettere al centro della discussione politica tutte queste problematiche, abbandonando quella vecchia abitudine italiana a relegare la politica estera in secondo piano, e considerando come punto di partenza che il coraggio è un valore, e che la difesa della propria identità è un dovere.