Cari amici, cari ragazzi,
questo incontro cade in un momento particolare nella vita del nostro Paese. Particolare per la gravità della crisi economica, sociale, istituzionale e di sovranità nella quale l’Italia si è venuta a trovare. Particolare perché di fronte allo spettro di una paralisi senza ritorno forze politiche da sempre avversarie si sono assunte una comune responsabilità con il proposito di far ripartire l’economia, riformare le istituzioni e poi tornare alla fisiologia di un’alternanza bipolare in uno Stato più forte, più autorevole, più efficiente. Particolare, infine, perché il nodo gordiano dell’uso politico della giustizia – del conflitto tra politica e giustizia – che dall’inizio degli anni Novanta strozza la nostra democrazia, è tornato a stringersi con rinnovata violenza rendendo sempre più impervia la strada per l’uscita dal tunnel che il Paese disperatamente anela.
Ecco, io vi ringrazio per avermi concesso in un momento del genere l’opportunità di trovarmi qui fra voi. Lo sguardo dei giovani infatti, la loro brama di speranza, è un monito permanente che ci richiama alla nostra responsabilità di adulti e soprattutto di adulti impegnati al servizio del bene comune, e ci impone di interrogarci sul senso del futuro.
Proprio da qui vorrei partire in questo mio breve intervento: dall’idea di futuro. Perché credo che prima ancora dello spread, prima delle turbolenze finanziarie e delle pur gravi carenze dell’unione monetaria, all’origine della crisi europea vi sia una crisi di identità, una perdita di senso e, al fondo, l’incapacità di nutrire una speranza per il futuro. E, se posso rifarmi al protagonista del bel libro di Cormac McCarthy, “La strada”, il destino dell’umanità è legato all’idea di futuro. Se si smarrisce quella, si perde tutto.
Lo tsunami economico-finanziario di questi anni, e prima ancora lo shock dell’11 settembre, hanno messo a nudo il “peccato” contratto da un processo di costruzione europea che, lungo la strada, ha scordato la lezione dei Padri: l’illusione che alla sfida lanciata nei confronti della nostra civiltà si potesse rispondere con il pensiero debole fino all’annullamento di sé; l’idea che la moderna Europa dei figli dovesse passare dalla rimozione della storia e dal ripudio della tradizione; la presunzione fatale che aprirsi all’era del progresso, della tecno-scienza, dei diritti, significasse non già servirsene in funzione dell’uomo, della sua libertà e responsabilità, ma asservire l’uomo e la sua idea di futuro a un futuro senza meraviglia e dunque senza umanità.
L’ho presa un po’ da lontano, ma a ben pensarci il problema trae origine da qui. Naturale conseguenza di tutto questo, infatti, è che si sia ritenuto di poter fondare l’unificazione monetaria su una costruzione sostanzialmente artificiale, senza che alle sue spalle vi fosse un retroterra minimo in termini di unità politica, di comune identità di popolo in un quadro di legittimi interessi nazionali, o anche solo di un adeguato assetto bancario centrale.
Naturale conseguenza è che si consideri “giovane”, “futuro”, tutto ciò che è negazione e rimozione. E quanto vi sia di paradossale in questa deriva lo vediamo in queste settimane in Francia, dove la frontiera del progressismo e dei presunti nuovi diritti passa per la soppressione dai codici della convivenza comune di parole come “papà” e “mamma” che appartengono al diritto naturale prima ancora che al patrimonio della nostra millenaria civiltà, e per imporre contro il senso comune le magnifiche sorti e progressive di questo stravolgimento di senso, si ricorre alla più retriva e illiberale delle repressioni. Ed è forse per questo che anche nella Francia laica, anzi laicista, c’è stata una reazione di rigetto così forte che ha meravigliato il mondo.
E ancora, il paradosso lo si può scorgere ad esempio sul terreno educativo, laddove si vorrebbe far credere che il progresso consista nella riproposizione di una sostanziale esclusiva statale nella dimensione pubblica, e che l’uguaglianza debba passare per la soppressione del pluralismo e della libertà.
Cari ragazzi, senza bisogno di scomodare i massimi sistemi, a imporci – e a imporre soprattutto a voi – di fare i conti con la visione che abbiamo del futuro, della persona e delle relazioni sociali è proprio la crisi in atto. Ne usciremo, dobbiamo uscirne per forza, ma dobbiamo anche sapere che all’uscita dal tunnel nulla sarà come prima. La crisi ha sconvolto i nostri paradigmi, ha determinato la compressione della dimensione assistenzialistica dello Stato, ha messo in evidenza gli squilibri e l’insostenibilità di una rete di protezione sociale molto polarizzata tra due estremi opposti, e per certi versi ha rischiato di mettere l’uno contro l’altro i padri e i figli.
Vedete, vengo ora da un Consiglio dei ministri nel quale, in vista del Consiglio europeo, si è deciso fra l’altro di puntare con determinazione sull’occupazione dei giovani. E ricordo altrettanto bene i primi anni della scorsa legislatura quando, di fronte all’esplodere della crisi internazionale, alla compressione della domanda interna e alla stretta creditizia, con tante aziende poste davanti al problema di cosa fare del personale alle proprie dipendenze, una consistente iniezione di ammortizzatori sociali impedì che la generazione dei padri fosse bruscamente espulsa dal mercato del lavoro senza possibilità di rientrarvi. E ciò prima che avessero potuto dispiegare i propri effetti le più incisive riforme di sistema dedicate alla generazione dei figli, che per il loro carattere strutturale necessitano di un tempo più lungo di quello dell’emergenza, e che dovranno restituire ai cittadini di domani quel diritto al futuro fin qui ipotecato da un debito abnorme che ha scaricato sui ragazzi decenni di un benessere vissuto al di sopra delle possibilità.
Io non credo che vi sia contraddizione tra le scelte di ieri e le scelte di oggi. Così come, in un senso più generale, non c’è contraddizione tra il guardare al futuro e il non voler gettare a mare il retroterra sul quale quel futuro si fonda. Non c’è cesura tra i germogli dell’albero e le sue radici: quanto più queste ultime saranno solide, tanto più i primi saranno fecondi. Non c’è contrapposizione tra i principi della tradizione e le sfide della modernità: quanto più si avrà consapevolezza dei primi, tanto più si avrà la forza di governare le seconde senza limitarsi a subirne le conseguenze.
C’è un filo conduttore, un pietra angolare sulla quale tradizione e futuro trovano un fondamento comune: è la centralità della persona. In un mondo nel quale i vecchi sistemi di protezione sociale si sfaldano sotto il peso dell’insostenibilità economica senza che i giovani ne ricavino maggiori opportunità, in un mondo nel quale gli egoismi e le spinte alla disgregazione si fanno sempre più forti, in un mondo nel quale la libertà è concepita sempre più come rivendicazione di diritti e mai come esercizio di responsabilità, la chiave di volta per i giovani risiede nel riconoscimento di un patrimonio di principi e di una conseguente visione della persona e della società in grado di mobilitare quest’ultima verso obiettivi di crescita.
Sul piano del lavoro e in particolare del lavoro giovanile, centralità della persona significa aderire a quel principio di realtà per il quale una normativa sul lavoro si giudica dalla capacità di produrre occupazione. Significa archiviare quella visione classista e discriminatoria per la quale la tutela del diritto al lavoro coincide sic et simpliciter con la tutela degli attualmente occupati – e addirittura di una minoranza di occupati -, nella totale indifferenza nei confronti di inoccupati e disoccupati; come se l’occupazione meritevole di tutela fosse solo quella conseguita in determinate forme e in un determinato momento; come se il lavoro fosse una nozione ideologica e non già strumento viatico della realizzazione personale. Significa veder sfilare insieme imprenditori e lavoratori, uniti da una nuova solidarietà generata da una crisi che ha sconvolto anche le vecchie categorie del confronto sociale.
Sul piano dell’organizzazione sociale, centralità della persona significa fondamento del sistema economico su quella base etica che considera l’uomo fine ultimo e misura di ogni azione. Significa una concezione dell’uomo non come entità isolata, portatrice di desideri privati che si fanno illimitatamente diritti pubblici, ma come soggetto naturalmente portato alle relazioni con le altre persone e che nella dimensione comunitaria scopre il vitalismo proprio e della società in cui è inserito. Significa meno Stato e più società, significa valorizzazione della sussidiarietà orizzontale e delle specificità.
Sul piano della riforma dello Stato centralità della persona significa non aver paura, non trincerarsi dietro il conservatorismo; significa comprendere che se si salvaguarda l’uomo e si riconosce il valore dei corpi intermedi non c’è da nulla da temere che a decidere sia il popolo.
E sopra tutto, cari ragazzi, centralità della persona significa risvegliare, coltivare il principio di verità e di responsabilità; rifiutare il pensiero debole che relativizzando la concezione dell’uomo coltiva la pretesa giacobina di poter tutto risolvere nello Stato.
E’ questo il lascito vitale che la tradizione dei padri consegna alle giovani generazioni per affrontare le sfide del presente e del futuro. In un’Europa dimentica delle proprie radici e sempre più avvitata nel nichilismo, l’ “eccezione italiana” ha consentito che i principi della tradizione nazionale costituissero patrimonio comune di credenti e non credenti, una verità condivisa sulla quale fondare il laico esercizio delle funzioni pubbliche. In un momento nel quale la crisi impone una riaffermazione della propria identità, si tratta di un vantaggio che sarebbe bene non disperdere.