di Gaetano Quagliariello
Cari amici,
il bel libro di Vincenzo Lippolis e Giulio Maria Salerno che ci offre oggi l’occasione per questo incontro si apre spiegando che nel concreto declinarsi della figura del Capo dello Stato l’incidenza del suo ruolo è inversamente proporzionale al grado di stabilità del sistema politico istituzionale; e si chiude osservando quale eredità Giorgio Napolitano avrebbe lasciato al suo successore in termini di rafforzamento della presidenza della Repubblica.
Né per gli autori né per noi lettori era possibile prevedere che a raccogliere quel testimone sarebbe stato lo stesso Giorgio Napolitano. Di certo, però, la potenza del discorso che abbiamo ascoltato due giorni fa in Parlamento, contrapposta alla debolezza estrema dimostrata dalla politica nei giorni precedenti, consacra l’assunto attorno al quale il volume si sviluppa e corona un percorso che, senza fuoriuscire dalle colonne d’Ercole fissate dalla Costituzione vigente, ha inciso in profondità nelle istituzioni e nel rapporto tra queste ultime e il Paese.
Pensavamo oggi di dover parlare di un settennato avviato alla sua conclusione. Ci troviamo invece in una situazione del tutto straordinaria. Una politica incapace di dare un governo al Paese, paralizzata per due mesi da veti e pregiudizi – unilaterali, per la verità! – si è schiantata contro il Colle senza riuscire a dare al Quirinale un inquilino scelto secondo Costituzione, dunque in funzione dell’unità della nazione, e atterrita dalla propria impotenza ha implorato da Giorgio Napolitano quel sacrificio che egli aveva sempre escluso e di fronte al quale invece non si è tirato indietro. La politica ha chiesto che a sbloccare la situazione, rimuovendo d’imperio quei veti e quei pregiudizi, fosse il Capo dello Stato che dal giorno dopo le elezioni aveva invano messo in campo ogni sforzo possibile. E il Capo dello Stato ha risposto da par suo, portando definitivamente la presidenza della Repubblica fuori da quel circuito di interna corporis nel quale una interpretazione statica del dettato costituzionale la vorrebbe collocata, individuando nel popolo l’interlocutore di fronte al quale trarre le conseguenze se ancora una volta le preclusioni avessero preso il sopravvento, aprendo attraverso la sua persona una nuova linea di fiducia tra le istituzioni e i cittadini.
Un atteggiamento di stampo gollista? In un certo senso sì, nel senso dell’esercizio di un potere di rappresentanza nazionale ma anche di indirizzo laddove la nazione si trovi in difficoltà o in emergenza per fatti oggettivi o per omissione di altri poteri che non utilizzino le loro prerogative. Un atteggiamento esorbitante rispetto all’ordinamento? Assolutamente no. Come ben chiariscono Lippolis e Salerno, nel corso del suo settennato il presidente Napolitano non ha oltrepassato o stravolto la forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione: ha colto le opportunità di espansione offerte dallo schema elastico e scarsamente proceduralizzato con il quale la Carta disegna le prerogative del Capo dello Stato e il funzionamento delle istituzioni. E non avrebbe potuto esimersi dal farlo. A dispetto della diffusa convinzione secondo la quale l’avvento del bipolarismo maggioritario avrebbe determinato un sistematico affievolimento della figura del presidente della Repubblica e l’affermazione di un premierato modello Westminster, la realtà, complice anche la debolezza intrinseca di un modello indotto dalle leggi elettorali senza adeguate riforme, ha prodotto un sistema politico conflittuale, un’assenza di legittimazione dell’avversario, una tendenza alla demonizzazione che ha pesantemente condizionato la vita delle istituzioni e il rapporto tra i poteri, esaltando così la figura del garante supremo e costringendo il Capo dello Stato a interventi diffusi e multiformi. Interventi che raramente in questi anni hanno assunto la veste di atti formali propri delle prerogative presidenziali, e dunque raramente sono stati connotati da un elevato grado di durezza e conflittualità istituzionale: molto più spesso l’operato di Napolitano ha seguito le strade della moral suasion, del consiglio, dell’ammonimento, della esternazione libera o di accompagnamento all’adozione di atti. La puntuale disamina svolta nel libro lo dimostra chiaramente.
Il cammino del primo settennato di Napolitano ha incrociato diverse tensioni epocali: il tormentato biennio del governo Prodi, la crisi del bipolarismo, l’onda montante dell’antipolitica, lo shock economico-finanziario a livello mondiale, fino alla complessa partita del governo Monti. Il combinato disposto di difficoltà endogene, fattori esogeni e riforme mancate ha fatto sì che la politica si trovasse in uno stato di estrema debolezza all’appuntamento con alcuni snodi cruciali della nostra storia. E ad ogni passaggio critico il ruolo presidenziale è tornato a espandersi.
Che ciò sia avvenuto per patriottismo e per amore della politica stessa, è testimoniato dal fatto che Giorgio Napolitano ha giocato senza rete. Si è speso senza comprimere di un millimetro lo spazio di autonomia delle altre istituzioni. Si è esposto senza garanzia che le cause per le quali si esponeva sarebbero andate a buon fine.
- Così, ad esempio, le ripetute e coraggiose esternazioni con le quali Giorgio Napolitano accompagnò gli atti di sua competenza durante l’iter del lodo Alfano, consapevole com’era dell’esigenza di porre fine al conflitto tra giustizia e politica, non hanno impedito alla Corte Costituzionale di abbattere quell’argine all’uso politico della giustizia segnando di fatto il destino della legislatura.
- I suoi accorati appelli e la sua moral suasion sull’emergenza carceraria non hanno obbligato le forze politiche, pilastri della forma di governo parlamentare, a trovare un accordo per l’adozione di nuove misure contro il sovraffollamento.
- La sua pur radicata convinzione che la legge elettorale andasse cambiata perché soprattutto nel contesto attuale avrebbe prodotto un premio di maggioranza abnorme, non lo ha indotto a forzature, come ad esempio la sollecitazione di decreti in materia elettorale da parte di un governo tecnico, che pure venivano suggerite: ha preso atto della situazione, e ha mandato l’Italia al voto col sistema vigente.
- La sua concezione del potere di scioglimento come prerogativa di esclusiva pertinenza presidenziale, da esercitare solo come extrema ratio di fronte all’impossibilità di soluzioni alternative alla crisi di governo, non lo ha dissuaso dal servire fino in fondo la volontà popolare, subordinando la nascita del governo Monti all’adesione dell’intero Popolo della Libertà in quanto partito uscito vittorioso dalle urne. Su questo passaggio, mi permetto di dissentire dagli autori del volume che oggi presentiamo.
- E ancora. La centralità del presidente della Repubblica nel sistema politico-istituzionale italiano, e lo status che una lettura sistematica del dettato costituzionale inequivocabilmente gli assegna, non hanno risparmiato a Giorgio Napolitano e al Paese intero il vulnus di un attacco mediatico-giudiziario perpetrato fin dentro al Quirinale; un vulnus che l’accoglimento del conflitto di attribuzioni da parte della Corte Costituzionale e la conseguente distruzione delle intercettazioni tra il Presidente e Nicola Mancino ha sanato solo in parte. E a tal proposito, un pensiero commosso non può non andare alla memoria di Loris D’Ambrosio.
Prima di allora, da presidente del CSM Giorgio Napolitano aveva combattuto con successo sconfinamenti e deviazioni dell’organo di autogoverno della magistratura, come – lo ricordano Lippolis e Salerno – gli impropri pareri di costituzionalità sulle leggi in discussione in Parlamento e l’abuso delle pratiche a tutela. Da Capo dello Stato si era speso senza sosta per incoraggiare un’amministrazione della giustizia come servizio per i cittadini, senza storture né disfunzioni, e un rapporto più sereno con gli organi espressione della sovranità popolare. Dopo di allora, dopo Palermo, dopo lo scandalo che ha aperto gli occhi anche ad autorevoli commentatori e costituzionalisti che fino a quel momento, quando altri vertici delle istituzioni si trovavano sotto attacco, avevano preferito far finta di non vedere, Napolitano non ha arretrato di un millimetro dalla trincea dell’equilibrio fra i poteri dello Stato e nell’esercizio della giurisdizione. E non credo di allontanarmi dal vero nell’affermare che se il documento del gruppo di lavoro sui temi politico-istituzionali ha raggiunto proprio sulla giustizia, tema da sempre divisivo, uno stadio sorprendentemente avanzato di condivisione, lo si deve anche al fatto che in fondo abbiamo seminato nel campo dove il presidente della Repubblica aveva coraggiosamente arato.
Lo stagliarsi della figura di Giorgio Napolitano ha determinato una torsione in senso presidenziale della nostra forma di governo parlamentare? No, lo abbiamo già detto. Ma è lecito affermare – e anzi lo diciamo con forza – che i tempi sono maturi perché una figura così riempita di significato possa trovare direttamente nel popolo la sua fonte di legittimazione.
Nel ripercorrere le reiterate e giuste doglianze del presidente Napolitano per le troppe riforme abortite tanto in tema elettorale quanto in materia costituzionale e regolamentare, il libro imputa alla proposta semi-presidenzialista del centrodestra la mancata approvazione nella scorsa legislatura di un pacchetto di riforme costituzionali condivise. Mi permetto di offrire una ricostruzione più completa: quella proposta non spuntò dal nulla, ma seguì la richiesta del Pd di virare su un sistema elettorale a doppio turno alla francese. Se a Parigi si deve andare, rispose il PdL, Parigi sia fino in fondo, a cominciare dall’elezione diretta del presidente della Repubblica. Questo per amore di verità. Oggi, dopo quanto accaduto, quella posizione è più forte; perché se i grandi elettori, piuttosto che rispondere al proprio partito o alla propria coscienza, preferiscono rispondere a Facebook, a Twitter, allora è meglio che l’elezione sia popolare per davvero.
Vedremo se nelle prossime ore si riuscirà a dare un governo solido al Paese. La crisi istituzionale in atto deve trovare uno sbocco in grado di dare respiro a un’Italia allo stremo e riaprire il cantiere delle riforme con l’ambizione di arrivare in porto. Il PdL, il presidente Berlusconi, in omaggio a quel realismo al quale Napolitano ci ha richiamato nel suo discorso, hanno responsabilmente lavorato per questo esito fin dal giorno dopo le elezioni.
Oggi abbiamo un dovere di riconoscenza nei confronti di chi, con sacrificio personale e non solo, ci ha tirato fuori da una situazione di estrema difficoltà istituzionale. Questo dovere lo si onora non a parole ma dimostrandosi all’altezza del gesto patriottico di Giorgio Napolitano.