Il tema della corruzione è diventato ormai centrale nel dibattito politico. Non è un tema nuovo. Sono anni che si tenta di affrontare quello che è percepito come problema diffuso in tutte le società economicamente avanzate in cui si tenta di limitare quegli interventi corruttivi che alterano il gioco ordinato dei rapporti fra soggetti economici. Il fenomeno della corruzione, originariamente e tradizionalmente caratterizzato da un rapporto “a due” fra corruttore e corrotto, nel quale uno da e l’altro riceve una “ricompensa” per un atto non consentito dalla legge, ha assunto nel tempo una connotazione definita sistemica, caratterizzata da una pluralità di comportamenti che fra loro si intrecciano e si moltiplicano a cascata. La corruzione invade tutti gli spazi economicamente appetibili. La corruzione altera quindi l’equilibrata concorrenza in un mercato idealmente competitivo.. E’ su questa linea che si sono poste da tempo le organizzazioni economiche internazionali e gli stati che ne fanno parte. Le convenzioni internazionali in materia sono numerose. La loro attuazione nei paesi coinvolti è da tempo iniziata. L’Italia si è mossa in ritardo ma sta tentando di adeguarsi. Il disegno di legge in discussione in parlamento che viene qui commentato mira a ad allineare l’ordine giuridico statale agli impegni internazionali.
A questo punto si aprono davanti a noi diversi scenari che questo fascicolo di Percorsi Costituzionali vuole considerare.
Un primo ambito di riflessione riguarda puntualmente il fenomeno corruttivo in senso stretto. Con l’alterazione dell’equilibrio fisiologicamente sano nei rapporti economici che coinvolge operatori privati e soggetti pubblici e che comporta a tutte le latitudini la commissione di illeciti penali sottoposti a misure repressive.
Un secondo ambito di riflessione riguarda invece la contaminazione della società e della politica a causa di un sempre più diffuso progressivo degradarsi del costume sociale. Anche a prescindere dalla individuazione di illeciti penali riconducibili tecnicamente alla corruzione, e quindi tramite violazione di regole giuridiche, è evidente che le stesse istituzioni in cui si realizza la democrazia politica risultano intaccate e corrose dal malcostume derivante dall’abbandono di regole etiche oltre che giuridiche tradizionalmente identificanti il sistema.
1) Cominciamo dalla riflessione sulle regole anticorruzione tradizionalmente riconducibili alla legislazione penale. Qui è evidente la constatazione per cui se si vuole circoscrivere in modo realistico la commissione di reati risulta del tutto insufficiente il ricorso ai soli rimedi strettamente penalistici.
In primo luogo, sarebbe indispensabile promuovere nei cittadini la cultura della legalità in termini generali a salvaguardia dei principi elementari di etica comportamentale e con specifico riferimento alla corruzione nell’attività amministrativa. Occorrerebbe diffondere una cultura della legalità e dell’etica che renda sempre più elevati e percepibili i “costi morali” dell’illegalità, assicurando che quest’ultima sia percepita come fenomeno riprovevole e che coloro i quali violano le leggi percepiscano tangibilmente un vero e proprio discredito sociale.
In secondo luogo, occorre abbandonare l’idea per cui gli interventi del legislatore debbano essere svolto soltanto in chiave penalistica. Sempre più diffusa è la convinzione che il rimedio penale sia insufficiente in quanto per sua natura destinato a intervenire a cose fatte.
Ci si orienta quindi sulla prevenzione in particolare immaginando rimedi in sede amministrativa, intervenendo sulla organizzazione delle pubbliche amministrazioni. A questo proposito è del tutto evidente l’importanza, ai fini della prevenzione della corruzione, del tema dei controlli amministrativi, tra i cui fini vi è ovviamente quello del rispetto della legalità e del corretto uso delle risorse pubbliche. Si tratta di un settore che andrebbe del tutto riesplorato dopo i discutibili interventi che negli enti locali hanno quasi completamente eliminato i controlli di legittimità con la conseguenza che l’autonomia di questi enti può essere usata per porre in essere comportamenti illegali.
Particolare incisività è riconosciuta ai codici di comportamento. Un codice di comportamento per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni è presente in Italia fin dal 1994 ed è attualmente previsto dal testo unico del pubblico impiego, emanato con il decreto legislativo n. 165 del 2001, che stabilisce che la sua violazione possa avere rilievo sul piano della responsabilità disciplinare, e contempla anche la possibilità delle singole amministrazioni di emanare codici specifici, per tutto il proprio personale o per categorie di esso. Similmente il ricorso a criteri deontologici riguarda anche gli operatori privati che vengono a contatto con l’amministrazione pubblica con la previsione di regole che le imprese si devono dare per evitare la commissione di reati da parte di propri dipendenti.
Di particolare interesse si è dimostrata la istituzione ad opera del dlgs 231 del 2001 di una forma di responsabilità amministrativa da reato con cui lo Stato chiedeva alle imprese di adottare appositi modelli organizzativi e codici di comportamento, dotandosi quindi di strumenti di verifica, di prevenzione e disciplinari intesi a evitare il verificarsi di fatti corruttivi.
Il disegno di legge attualmente in discussione interviene su diversi aspetti. Da un lato, esso aggrava il regime di responsabilità, stabilendo che la sua violazione è sempre fonte di responsabilità disciplinare e, a determinate condizioni, anche di responsabilità civile, amministrativa e contabile. Introduce anche una specifica tutela per i c.d. whistleblowers, cioè coloro che denunciano illeciti commessi nella pubblica amministrazione prevedendo il divieto di sanzioni o di comportamenti discriminatori, con specifiche previsioni a tutela della riservatezza in ordine all’identità del denunciante. Dall’altro, stabilisce come regola, e non più come mera possibilità, che ogni amministrazione elabori un proprio codice di comportamento.
Più in dettaglio l’articolato individua, in ossequio alle Convenzioni internazionali in materia di lotta alla corruzione, l’Autorità nazionale competente a coordinare l’attività di contrasto della corruzione nella pubblica amministrazione nella Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche – Civit, di cui all’articolo 13 del D.Lgs. 150/2009.
Si modifica così l’attuale distribuzione delle competenze in materia, con la sostituzione della Civit, nel ruolo di Autorità nazionale anticorruzione, al Dipartimento della funzione pubblica, che lo ricopre secondo la normativa vigente. Il testo elenca, poi, i compiti spettanti alla Commissione, tra i quali, la collaborazione con organismi stranieri paritetici e l’analisi delle cause e dei fattori della corruzione con l’individuazione degli interventi che ne possano favorire la prevenzione e il contrasto; alla stessa sono riconosciuti importanti poteri ispettivi e d’indagine nonché poteri di sollecitazione e sanzionatori.
Resta sempre attuale il profilo sanzionatorio penale anche se da valutare come estremo rimedio quando le cautele predisposte dal sistema non abbiano effetto.
Rimane quindi attuale la necessità di inasprire le pene accessorie e le situazioni di incompatibilità nei confronti di chi sia stato condannato per fatti corruttivi: interdizione perpetua dai pubblici uffici e situazioni ampie di ineleggibilità nelle cariche pubbliche sono sicuramente strumenti che secondo la stessa Corte di Conti potrebbero risultare efficaci. Si agggiunga il dibattuto profilo dell’impossibilità di accedere a determinate cariche elettive per coloro che siano stati condannati per determinati reati. L’incandidabilità va ricondotta alla indegnità dell’interessato e non alla sua capacità di influenzare gli elettori. Attualmente è prevista per gli amministratori locali, e non per i parlamentari nazionali. Ciò spiega perché nel Parlamento siano spesso presenti soggetti con precedenti penali, anche gravi, i quali magari non potrebbero essere eletti in un consiglio comunale. Il disegno di legge contiene una delega legislativa per il riordino della materia, con l’opportuna introduzione di ipotesi di incandidabilità anche per i parlamentari nazionali ed europei.
2) L’aspetto strategico più rilevante dell’attuale dibattito riguarda la attenzione per l’alterazione della corretta competitività politica tipica di un disegno ideale della democrazia politica di matrice liberale ad opera dei fatti corruttivi. Su questo aspetto sono intervenute le convenzioni internazionali e qualche tentativo di rimedio a livello statale.
Nel 1993 venne fondata Transparency International (TI), un’organizzazione non governativa che monitora e pubblicizza i dati sulla corruzione politica e commerciale nel mondo. Dal 1995, TI pubblica il Corruption Perceptions Index (CPI) e dal 1999 il Bribe Payers Index (BPI). È in questa logica che si inserisce anche la costruzione della fattispecie penale del “traffico di influenze”, o influence peddling, che consiste nell’usare influenza (pubblica, ma non necessariamente) di qualcuno per ottenere favori o trattamenti preferenziali per altri, in cambio di benefici. Insomma, è la classica “segnalazione”. Si tratta di una perversione del lobbying. che è una realtà quotidiana nelle moderne democrazie», ma può diventare «influenza indebita» (undue influence-peddling), in difesa di alcuni interessi in danno di altri. Nei paesi con profonde disuguaglianze, il lobbying può risolversi in uno strumento anti-democratico, ragion per cui l’OCSE si batte per garantirne un uso “trasparente” e “responsabile”. In altre parole, si tratta di tutelare principi fondamentali quali la libera concorrenza, l’uguaglianza davanti alle opportunità, l’efficienza della P.A. Del tema si è occupato il Consiglio d’Europa che ha predisposto la Convenzione penale sulla corruzione. La Convenzione, aperta alla firma il 27 gennaio 1999, è in vigore a livello internazionale dal 1° luglio 2002: al momento della ratifica italiana, risultava in vigore per 42 Stati del Consiglio d’Europa. La Convenzione è monitorata dal “Gruppo di Stati contro la corruzione” (GRECO), che ha iniziato funzionare il 1° maggio 1999. L’Italia ha sottoscritto la Convenzione il 27 gennaio 1999.
Sappiamo che si parla da tempo di trasparenza amministrativa, ma si fa poco in ordine alla trasparenza della politica e del suo finanziamento; ci sono norme sugli incarichi dei pubblici dipendenti, ma non sulle incompatibilità e sui conflitti di interessi dei parlamentari; si riordina la disciplina dei codici di comportamento dei dipendenti pubblici, ma si continua a non prevedere niente in ordine alle regole di comportamento dei politici.
Dunque uno degli aspetti più rilevanti è quello della ricaduta di specifici fatti corruttivi, ma soprattutto della cultura della illegalità, sui comportamenti politici.
A questo proposito assume rilievo il tema della opacità dei finanziamenti alla politica. Qui emerge non soltanto la questione di rilevanza penale dei fatti corruttivi e quindi il facile richiamo alla prassi delle erogazioni illecite di denaro e favori tristemente emergenti nelle indagini penali che caratterizzano la stagione non esaurita delle tangenti ai partiti. Ma anche la disinvolta assegnazione ai partiti di fondi pubblici mediante atti formalmente ineccepibili che hanno nel tempo legalizzato un inammissibile malcostume.
Si introduce qui uno dei temi più scottanti che riguarda la vita delle democrazie contemporanee come dimostrano alcuni dei contributi stranieri qui pubblicati.
In Italia tra le varie questioni in discussione nel dibattito politico e mediatico ricorre quella del finanziamento della politica. Soprattutto gli scandali legati alle malversazioni di alcuni tesorieri di partito hanno richiamato l’attenzione sul fiume di denaro pubblico che viene sperperato ogni anno in Italia. Sull’onda della emotività si sta parlando di possibili forme di controllo sul modo con cui i soldi di tutti vengono dati e spesi ma anche sulla entità del finanziamento che viene erogato ai partiti. Le proposte in discussione prevedono una riduzione dei contributi pubblici ma in realtà inciderebbero soltanto su un parte dei finanziamenti oggi previsti. Si tratta di misure insufficienti in quanto il sistema dei finanziamento alla politica per essere seriamente affrontato dovrebbe comportare non solo una riduzione degli esborsi pubblici ma anche un rigoroso meccanismo di controllo da parte di soggetti indipendenti, meccanismo che al momento non è dato intravedere. Da un congenito malcostume che ha consentito la costituzione di anomali centri di interesse e speculazione non deriva solo il pregiudizio agli interessi tutelati dalla legge penale ma un discredito per la politica e quindi per le istituzioni.
Ulteriori preoccupazioni sono relative ai conflitti di interessi e agli incarichi esterni dei dipendenti pubblici, agli incarichi che non possono essere conferiti ai soggetti condannati per determinati reati, alle attività particolarmente esposte ai rischi di infiltrazione criminale, al danno erariale conseguente a reati di corruzione.
L’attenzione al fenomeno della corruzione si è progressivamente spostata dalla considerazione dei fatti corruttivi che riguardano puntuali episodi criminosi a veri e propri fenomeni collettivi di degenerazione diffusa del tessuto sociale quando la cultura della illegalità finisce per contaminare tutto e tutti. L’impressione condivisa è che si sia sorpassato il livello di guardia e che quindi siano gli stessi principi di fondo degli ordinamenti democratici contemporanei ad essere messi in discussione in quanto la corruzione intacca pericolosamente il rapporto di fiducia fra cittadini e istituzioni.