La gara a chi è più cattivo è stata vinta dal più cattivo: potrebbe essere questa una semplificazione colorita delle elezioni parlamentari in Iran di venerdì 2 marzo che hanno visto il netto successo dei conservatori fedeli alla Guida Suprema Ali Khamenei sui compagni di partito più vicini al Presidente Mahmud Ahmadinejad. Il “fronte unito dei conservatori” (Jebhe mottahed) ha ottenuto il 75% dei seggi del Majles (il Parlamento della Repubblica islamica), la lista “sopravvivenza della rivoluzione islamica” (Jebhe paydari) gran parte dei rimanenti. Per sapere esattamente come questi dati si tradurranno in posti in Parlamento dovremo aspettare, oltre che la fine del conteggio ufficiale, i ballottaggi necessari per gli oltre 30 seggi dove nessun candidato ha raggiunto la soglia minima del 25% e le alleanze che si decideranno prima di giugno, data di debutto del nuovo Majles. Politicamente però il messaggio è già chiaro: chi osa toccare Khamenei muore. Ahmadinejad, che da oltre un anno ha provato a mettere in discussione l’onnipotenza della Guida Suprema, sta continuando a pagare questo conto sulla propria pelle. Ad aprile scorso Khamenei fece arrestare con l’accusa di deviazionismo alcuni degli uomini più vicini al Presidente, il quale rispose con un esilio volontario di 11 giorni dalla vita politica. Da allora i rapporti fra il leader ed il suo ex pupillo sono andati via via deteriorandosi, tanto che il Majles, che ben poco può fare senza l’avallo di Khamenei, ha convocato Ahmadinejad in aula per avere spiegazioni sulla sua politica estera ed economica, una mossa che ha il solo precedete del 1981 quando l’allora Presidente Banisadr finì il suo mandato per un impeachment. Il confronto è previsto per venerdì prossimo, ma difficilmente l’esito sarà lo stesso del 1981, visto che Khamenei non vuole offrire all’Occidente la visione di un Iran diviso e quindi più facilmente attaccabile. L’esito politico più probabile di questa tornata elettorale è quello di un Governo zoppo che dovrà fare i conti con una maggioranza parlamentare ostile. In pratica, un Ahmadinejad commissariato da qui all’estate 2013 quando l’Iran dovrà scegliere in nuovo Presidente e lui non potrà ricandidarsi perché alla fine del secondo mandato. A meno che Ahmadinejad non abbia qualche asso nella manica fra i circa 40 seggi che sono stati conquistati da indipendenti che potrebbero essere suoi sostenitori mascherati per non incappare nelle cesoie del Consiglio dei Guardiani, guidato anch’esso da Khamenei, che ha la facoltà di accettare o meno le candidature prima delle elezioni e che aveva già tagliato fuori circa 400 nomi del Jebhe paydari. Anche in quel caso però, Ahmadinejad non troverebbe molte sponde fra i conservatori, quasi tutti più o meno critici nei suoi confronti per via della crisi economica e dell’isolamento internazionale che stanno attanagliando l’Iran.
La sensazione è che più che all’interno il futuro dell’Iran si giocherà fuori dai confini nazionali. L’inflazione al 15% e la disoccupazione al 25% sono frutto soprattutto delle sanzioni e dell’embargo internazionale deciso in seguito ai misteri iraniani sullo sviluppo nucleare, conditi da provocazioni sempre più aperte da parte dei pasdaran (i guardiani della rivoluzione che rispondono alla Guida Suprema) che una volta minacciano la chiusura dello Stretto di Hormuz, vitale per il commercio di petrolio, e la volta dopo inviano due navi da guerra ai porti siriani, passando davanti a Israele. Senza dimenticarci di Al Quds, il braccio estero dei servizi di difesa iraniani, accusati di essere la mente degli attentati in Thailandia contro obiettivi israeliani. È vero che il Governo di Ahmadinejad ha solo peggiorato la crisi economica del Paese, non facendo nessuna delle riforme previste, non intervenendo sul lievitare del costo della vita se non assicurando un misero supporto mensile di 38 dollari a famiglia, ma è altrettanto vero che le pressioni Occidentali sul regime stanno strangolando il Paese. Con un’ulteriore stretta sulla Banca centrale iraniana e i nuovi divieti commerciali, il ryal – moneta ufficiale iraniana – è stato svalutato di 40 punti rispetto al dollaro e così adesso un chilo di carne costa addirittura 25 dollari e di riso 5. Troppo, quando gli stipendi medi si aggirano sui 500 dollari al mese. E anche i nuovi partner commerciali, come la Cina, fiutano la preda e iniziano a pagare petrolio e gas iraniano in beni commerciali, rispolverando l’antica tradizione del baratto. A pagare le conseguenze di questa situazione è la popolazione, perfettamente consapevole che grazie alla corruzione e ai giochi di potere governanti e affaristi continuano tranquillamente a fare soldi a palate alle loro spalle. È quindi difficilmente credibile il voto sull’affluenza alle urne (65%) diramato con prontezza dal ministero dell’Interno e dai media ufficiali. D’altronde nessun osservatore internazionale ha avuto il permesso di monitorare le elezioni e i pochi giornalisti occidentali presenti, scortati ovunque dalle sentinelle del governo, hanno comunque parlato di seggi deserti e di una disillusione diffusa fra gli iraniani, troppo impegnati a cercar soldi per mangiare per star dietro alle scaramucce interne ai conservatori. Sparito il fronte riformista dopo l’Onda verde del 2009, quello che manca all’Iran adesso è un’opposizione credibile. Ma se i venti di guerra continueranno a soffiare così forte e la pressione politica ed economica non si attenuerà, difficilmente il regime che Khomenei instaurò nel 1979 avrà vita semplice ancora per molto. A maggior ragione se, dopo la vittoria a queste elezioni parlamentari, Khamenei e i suoi continueranno a portar avanti la linea del braccio di ferro contro Israele e l’Occidente, mentre lo sconfitto Ahmadinejad propende per una dialettica più costruttiva.
Il triangolo sciita rischia così di trovarsi in un imbuto molto pericoloso. Se, come abbiamo visto, il regime degli Ayatollah non gode di buona salute, sta sicuramente peggio Bashar al Assad e il suo partito unico ba’th, da 40 anni al potere in Siria, ma scosso negli ultimi 12 mesi da un sommovimento popolare che non accenna a finire. Dopo che la risoluzione Onu, voluta dagli Usa e dalla Lega Araba è stata respinta per il veto di Russia e Cina, il regime siriano ha impresso un’accelerata decisiva alla repressione, bombardando consecutivamente per un mese Homs, terza città della Siria e principale roccaforte dei ribelli. Con più di 3mila morti, fra cui i due giornalisti occidentali Marie Colvin e Remi Ochlik, Homs, città a maggioranza sunnita, dove la media borghesia e i ceti più poveri si sono ritrovati fianco a fianco nelle proteste contro il regime, rischia di diventare per Bashar el Assad quello che Hama fu per suo padre Hafez nel 1982. Nel febbraio di quell’anno le truppe dell’esercito governativo assediarono per tre settimane la città, poi bombardata, provocando migliaia di morti civili per sedare una volta per tutte la guerriglia scatenata dai Fratelli Musulmani. Dopo che per più di tre anni il Fronte Islamico Unito (così si identificò il raggruppamento di tutte le sigle intente a dar battaglia al regime) aveva attaccato il potere con una serie di attentati e blitz mirati, a cui puntualmente corrispondevano arresti e fucilazioni dei militanti, Hafez Assad decise di sferrare l’attacco finale ad Hama, roccaforte religiosa del Paese, riuscendo così a scacciare gli “islamisti” dal territorio una volta per tutte.
Difficile dire se per Bashar al Assad la vittoria sui suoi nemici sarà altrettanto netta. Innanzitutto, i ribelli che da oltre un anno stanno cercando di emulare quanto accaduto in Egitto, Tunisia e Libia non sono così facilmente identificabili come allora. Non c’è l’Islam nelle loro dichiarazioni né si identificano come sostenitori e promotori di un’ideologia religiosa su cui modellare il futuro stato sociale. Piuttosto nei ranghi del Consiglio Nazionale Siriano, costituito un anno fa in Turchia e riconosciuto “interlocutore affidabile” dalle diplomazie occidentali riunite a Tunisi a fine febbraio, si trovano varie estrazioni: ci sono i leader dell’opposizione, tutti in esilio a Parigi, i vertici dell’esercito libero siriano, nato grazie ai disertori dalle forze armate del regime, attivisti dei diritti umani. A dar man forte alla rivolta molti blogger sono scesi in strada rischiando l’arresto o nel peggiore dei casi la morte, come è successo a Rami al-Sayed, ventiseienne di Homs i cui filmati hanno fatto il giro del mondo grazie alla Cnn e alla Bbc, ucciso dallo stesso mortaio che è stato letale a Ochilk e Convey. Un lavoro che nonostante la censura e i bombardamenti ha fatto arrivare in Occidente immagini e testimonianze che non hanno potuto lasciare indifferenti, soprattutto dall’altra parte del confine, in Libano, da sempre dipendente dagli eventi siriani. “Assad è finito, non può rimanere. Come è possibile restare al governo di una nazione nel 2012 quando la stai massacrando?” si chiede retoricamente Saad Kiwan, giornalista e politologo libanese. In Libano si aspetta l’esito della rivolta siriana, ma non tutti si sentono così al sicuro. È il caso dei cristiani maroniti, da sempre una presenza determinante nel Paese e bastione delle comunità cristiane in Medio Oriente: “Stiamo già assistendo al cambiamento nei nostri confronti nell’Egitto del dopo Mubarak, cosa succederà se anche in Siria venisse deposto un governo che ha sempre tutelato le minoranze religiose?”. Padre Ramzi, rappresentante dei lazzaristi di Beirut dà voce a quello che è il dramma delle comunità cristiane in Siria e Libano: appoggiare un regime che ha sempre garantito libertà e benefici o schierarsi dalla parte degli oppressi in quanto la violenza non può mai sposarsi con i precetti del cristianesimo? A questa domanda non è ancora stata data una risposta univoca, tanto che il nuovo patriarca maronita Raì è costretto a barcamenarsi fra posizione ambigue, tutte volte a “scongiurare una guerra civile e al conseguente smembramento della Siria” ma mai di totale appoggio al regime di Assad, se non nella confessata paura che “un eventuale mutamento delle condizioni politiche possa portare al potere gruppi oltranzisti e fondamentalisti”. Se in Libano la comunità cristiana è ancora massicciamente presente, nonché politicamente determinante, lo stesso non si può dire della Siria, dove numericamente i cristiani non raggiungono il 2%, ma sotto gli Assad hanno potuto godere di una preziosa libertà e sicurezza in quanto la stessa etnia al potere, gli alawiti, sono una minoranza rispetto ai sunniti. Sunniti che in Libano stanno aspettando solo di festeggiare la caduta degli Assad.
Quello che emerge con maggior forza dal Medio Oriente in trasformazione è proprio la contrapposizione sempre più aspra fra musulmani sunniti e sciiti. Storicamente gli sciiti hanno rappresentato in tutti i Paesi musulmani le classi economicamente più svantaggiate (contadini, operai e i ceti lontani dal tessuto produttivo e culturale delle città e molto più vicini alle moschee) che con le rivoluzioni in Siria e in Iran hanno scalato le gerarchie del potere, creando e mantenendo regimi decennali. Ma in entrambi i Paesi, con il passare del tempo, le popolazioni non hanno beneficiato di alcun riscatto sociale. Lo strenuo controllo della vita sociale e culturale (che in Iran si è accompagnato a un ferreo dogmatismo religioso), la violenza con cui hanno sempre risposto a qualsiasi tentativo di ribellione, un mantenimento del potere per via familiare o per appartenenza al clan di turno e soprattutto la dilagante corruzione in qualsiasi snodo economico del Paese hanno screditato del tutto i governanti agli occhi dei governati. Da qui, dal profondo malcontento per le condizioni di vita quotidiane, sono partite le rivolte dei cittadini. Probabilmente sarà la storia a dirci se nell’Iran del 2009 e nella Siria del 2012 hanno giocato un ruolo anche le potenze occidentali o Israele, andando a fomentare le rivolte, come sostengono sia Ahmadinejad che Assad. Ma anche se così fosse il “grande Satana” avrebbe sicuramente trovato terreno fertile fra popolazioni che da troppo tempo ormai non riuscivano a costruirsi una vita degna e serena. In Iran le ripetute sanzioni internazionali hanno via via indebolito la capacità commerciale del Paese, costretto sempre di più a contare sulle proprie forze e a cercare nuove rotte commerciali come Cina, India, il Venezuela di Chavez e il Brasile di Lula prima e di Dilma Rousseff poi. Ma con una rete finanziaria bloccata per via dell’embargo la crescita economica non si è vista e l’inflazione a livelli insopportabili sta stringendo il cappio al collo anche della classe medio-alta che finora riusciva a trainare il Paese. Non solo, con una moneta così deprezzata, alcuni importanti partner commerciali come la Cina hanno proposto al governo Ahmadinejad di pagare l’acquisto di petrolio e gas in… beni commerciali.
Se l’Iran torna al baratto, non meglio sta la Siria dove le tanto promesse riforme modernizzatrici del giovane Bashar non hanno mai visto la luce. Quando nel 2000 il secondogenito di Hafez Assad succedette al padre defunto in molti speravano in una decisa apertura del Paese grazie a questo trentaquattrenne appassionato di medicina e internet che aveva passato gran parte della sua vita a Londra. In effetti i primi annunci del nuovo raìs potevano far pensare ad un reale cambiamento: forte impegno per lo sviluppo tecnologico, ammiccamenti ad un’economia un po’ più liberale, attenzione alle campagne e un’apertura a nuovi movimenti politici e culturali. Niente di tutto questo è stato mai realizzato. Anzi, in un mercato globale che va sempre più veloce i lavoratori siriani hanno visto scendere progressivamente il potere d’acquisto dei propri salari fermi al palo, i contadini non hanno più potuto beneficiare di prestiti agevolati da parte del governo, la disoccupazione è cresciuta fino a toccare il 25% e il libero mercato è rimasto sempre il nemico da tenere fuori dalla porta. È quindi inevitabile che dopo 40 anni o poco meno della stessa dittatura a condizioni sociali peggiorate la popolazione punti il dito contro il regime. In realtà Bashar al Assad non è stato subito l’obiettivo principale dei ribelli siriani. Come spesso accade nei Paesi mediorientali ogni città ha una propria vita, quasi indipendente dal resto del Paese, così laddove è iniziata la rivolta, Hama, Dar’a, Latakia, Homs la popolazione chiedeva la rimozione dei governatori locali, espressione sì del regime ma lontani dalla ristretta cerchia del potere centrale. Ricalcando però gli errori fatti da suo padre, Bashar al Assad ha trascurato le Regioni e le campagne a vantaggio di Damasco e Aleppo e così non ha trovato soluzione migliore che quella di inviare l’esercito per sopprimere le proteste. La repressione non ha fatto altro che aggiungere odio all’odio e i focolai di protesta sono diventati ben presto una massa incontenibile di ribelli che hanno chiesto la testa del raìs per vendicare quelle a loro care che lui si era preso. Una spirale di violenza che rischia, a un anno dal suo inizio, di imboccare la strada del non ritorno, ossia quella di una guerra civile.
Per evitare questo scenario servirebbe una presa di posizione chiara ed univoca dall’esterno della Siria, ma questo non sembra ancora possibile. È vero che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha detto che Assad ha “i giorni contati” ma è altrettanto vero che non si vede all’orizzonte come le potenze mondiali possano dar seguito a questa chiara previsione. Il veto di Russia e Cina pesa eccome, così come non possono essere ignorate le minacce israeliane contro l’Iran. Insomma, nel Medio Oriente in trasformazione lo scenario è tutt’altro che chiaro. Nell’anno delle elezioni russe, vinte ovviamente da Putin, e di quelle americane e francesi, il tempo della diplomazia sta cercando di tenere il ritmo di quello della guerra. Basterebbe però un episodio, una scintilla per far accadere l’irreparabile. Molti analisti e osservatori temono che questa scintilla possa scattare dalle parti libanesi, dove si trova il terzo lato del triangolo sciita: il partito di Dio, Hizbullah. Nasrallah e compagni stanno tenendo il Libano politicamente fermo dal 2009, da quando cioè sono entrati a far parte della maggioranza filo-siriana nata dopo la rivoluzione dei Cedri e le elezioni del 2008. Adesso Hizbullah è più o meno silente, tant’è che il Libano non ha ancora preso una posizione chiara su quanto sta accadendo in Siria. Tutti i libanesi sanno però di avere una potenziale bomba in casa, pronta a scoppiare qualora arrivassero ordini dai “padri” (Iran e Siria) in difficoltà. In patria Hizbullah non è più molto amato, tranne che al Sud del Paese, perché dopo l'”exploit” contro Israele del 2008 i modi di governare del Partito di Dio hanno ricalcato quelli di Assad e Khamenei, per quanto riguarda almeno propaganda e corruzione. Ma quello che Hizbullah è capace di fare se lo ricordano tutti, Israele per primo. Se le diplomazie dell’Occidente e della Lega Araba dovessero fallire i loro tentativi in Siria e in Iran, resterebbe purtroppo solo da aspettare chi farà la prima mossa.