Raccogliamo alcuni articoli che riguardano Margaret Thatcher – la “Lady di ferro” – unica donna nella storia ad aver ricoperto la carica di Prime Minister del Regno Unito. A più di venti anni dalla fine del suo ultimo mandato, la sua lezione è ancora viva.
What Would The Iron Lady Do?
di Charles Moore
dal Wall Street Journal del 17 Dicembre 2011
“Iron Lady” è il nome del nuovo film nel quale Meryl Streep fa la parte di Margaret Thatcher. Di per sé, già il titolo dà la misura dell’impatto della persona ritratta. Aiuta a capire come, in tempi duri come i nostri, tanto il suo personaggio quanto la sua eredità suscitino addirittura più interesse di quanto non ne abbia fatto nel proprio periodo di auge sul finire del XX secolo.
Prima di tutto, analizziamo il termine “Lady”. La Sig.ra Thatcher fu la prima e unica donna che abbia mai guidato un tra i maggiori partiti britannici, dato che rimane vero ancora oggi. Fu la prima donna a ricoprire il ruolo di primo ministro nel mondo anglofono e quello più longevo sul piano politico di entrambi i sessi dal suffragio universale.
All’anno 2011 (l’articolo è stato pubblicato lo scorso 17 Dicembre 2011, ndt) solo un importante paese occidentale – la Germania – è guidato da una donna. Per quanto notevoli siano le doti dell’attuale cancelliera Angela Merkel, a onor del vero è molto improbabile che a distanza di vent’anni dal suo ritiro dalla politica possa essere oggetto di un film maggiore. La Thatcher è stata, di fatto, l’unica e sola donna. Questo status di unica ancora oggi affascina.
Questa Lady fu per la prima volta chiama Iron Lady, la Lady di Ferro non certo dai propri ammiratori, bensì dai suoi nemici. Dopo essere diventata leader dei Conservatori britannici nel 1975, la Thatcher aprì una nuovo e controverso fronte nella Guerra Fredda con l’Unione Sovietica. Mise in discussione l’allora popolare idea di “deténte”, distensione. Il comunismo sovietico, sosteneva la Thatcher, non può essere conciliato. Doveva essere rovesciato – rimettendo in sesto la forza militare difensiva della Nato e dando voce alla resistenza dei repressi nel blocco sovietico, promettendo loro la promessa della libertà occidentale.
Non molti leader europei le davano ragione in Occidente all’epoca, ad eccezione di Ronald Reagan, all’epoca solo un ex-governatore con il sogno di correre per diventare presidente. Dopo che la Thatcher ebbe dato un paio di energici discorsi, il quotidiano dell’Armata Rossa “Stella Rossa” la cristallizzò come “The Iron Lady”, la Lady di ferro. Così facendo, il giornale sovietico operava un paragone satirico con Otto Von Bismark, il “Cancelliere di ferro” della Germania del XIX° secolo, dando di lei un’immagine rigida e severa.
Ma Margaret Thatcher subito vide nell’insulto un’opportunità. Non esiste niente di meglio che essere temuta dai propri avversari. “Iron”, ferro significa forte. Per una donna essere subito attaccata in questo modo significava che aveva fatto pieno ingresso, prima ancora di essere divenuta primo ministro, sul palco della politica mondiale. Così indosso il suo più elegante abito da sera (rosso) e fece un discorso nel quale accoglieva in suo nome titolo. Dal quel momento in poi – e lo sarebbe rimasta – era la ‘Iron Lady’, Lady di ferro.
Dopo undici anni al potere, la Thatcher lasciò il suo potere contro la sua volontà (e senza sconfitta elettorale) nel Novembre del 1990, vittima di un colpo di mano da parte dei membri del suo partito. Dopo di che, per un po’ di tempo, la sua reputazione si eclissò parzialmente. La caduta del muro di Berlino riscattò la sua politica contro il comunismo, ma allo stesso tempo la fece sembrare obsoleta. Benché le sue politiche economiche, finanziarie e sindacali prepararono il campo al boom sul finire del XX° secolo e l’inizio del XXI° secolo, il suo stile era ormai finito.
“Benefici senza fatica” (ndt. Gain without pain), fu il tema ricorrente di politici come Bill Clinton e Tony Blair. Quando per la prima volta Blair arrivò al potere in Gran Bretagna nel 1997, il suo slogan principe era “Le cose possono solo andare meglio”. L’ottimismo fu a sua volta parte integrante del messaggio politico di Margaret Thatcher, ma con un taglio più rigorista.
Il primo ministro conservatore era convinta che i benefici fossero la ricompensa di fatica. Niente può essere fatto senza sforzo personale. Le dure verità devono essere spiegate, i draghi uccisi. La sua era la politica del “o questo, o quello”. Come ha fatto notare Peter Mandelson, il capo degli strateghi di Blair – amava ripeterlo – la loro era invece quella del “entrambi/e”.
Sin dal 2007, quando la crisi del credito iniziò a stagliarsi minacciosa all’orizzonte, stava diventando chiaro che il “entrambi/e” stava per andare a carte quarantotto come politica in tutto l’Occidente. I valori, lo stile, la leadership della Lady di ferro, d’un tratto tornarono a brillare, ancora una volta. Le persone volevano che i propri leader facessero i conti con i problemi piuttosto che trascurarli e metterli da parte. Insomma iniziarono a volere un po’ di ferro.
Sin dal 2010, mentre il problema del debito gradualmente si spostava dagli individui alle banche d’interi paesi, una delle battaglie solitarie di Margaret Thatcher – il suo tentativo sul finire degli anni ’80 di fermare l’integrazione del suo paese nella Comunità Europea (la quale poi si è appiccicata il grandioso titolo di Unione Europea), tardivamente ritrovò il rispetto.
L’euro fu costruito contro la sua volontà e introdotto dopo che ebbe lasciato la scena. Diciassette dei 27 membri dell’UE sono parte della zona euro. Oggi alcuni di essi – principalmente la Grecia – sono con il sedere a terra, e molti paesi nell’euro sono sotto minaccia di un abbassamento dei propri rating bancari.
La scorsa settimana (il saggio è stato pubblicato dal WSJ lo scorso 17 Dicembre 2011 e quindi il riferimento è al noto Consiglio europeo dell’8-9 Dicembre 2011, quello del ‘gran diniego’ britannico, ndt.), i leader dell’UE si sono di nuovo incontrati (a contar bene, si sono incontrati ormai per ben 17 volte) nel tentativo di salvare l’intero sistema.
Pare proprio, volendo giudicare in base alla reazione dei mercati, che abbiano fallito ancora una volta. Se ci si ferma ad ascoltare, si può quasi udire i toni ben modulati della Lady di ferro che dalla quinte dice “ve lo avevo detto”. Cosa disse la Thatchere? In sostanza, le opinioni di Margaret Thatcher quanto alla relazione tra denaro e politica sono semplici – i suoi critici direbbero riduttive.
Nel 1949, da nubile di soli 23 anni, Margaret Roberts fu scelta come candidata al parlamento dei Conservatori per la prima volta. In un’occasione di quella campagna elettorale la Lady di Ferro ebbe a dire: “Durante gli anni della guerra c’era uno slogan “Tutto dipende da me”. La gente sembra averlo dimenticato e ora pensa che tutto dipenda invece da altre persone”. “Non lasciatevi intimorire dai paroloni degli economisti e dei ministri del governo – continuò – ma pensate alla politica al vostro livello di vita domestica.”
Non si fece mai intimorire e non si è mai allontanata veramente da queste dottrine. Ebbero grande eco negli anni ’70 del secolo scorso, quando l’inflazione e l’eccessiva spesa a debito del governo era divenuta la norma. Effettivamente , vinsero le elezioni politiche del 1979. Sostenne che in una casa – e in particolare la donna che manda avanti il focolare con il proprio budget settimanale – sa che non si può spendere più di quel che guadagni e che si deve “mettere via per i giorni di pioggia”.
La stessa mitica massaia, asseriva la sig.ra Thatcher, sa anche che se non fai fronte a queste necessità, non si può essere certi che qualcun altro lo faccia per te. Vivere al di là dei propri mezzi porta alla dipendenza invece che all’indipendenza, e la dipendenza conduce al degrado.
Vivere al di là dei propri mezzi porta alla dipendenza invece che all’indipendenza, e la dipendenza conduce al degrado. Ciò era vero per le nazioni, sosteneva la Thatcher, quanto per gli individui. Era abbastanza sofisticata da capire che le nazioni possono, e a volte devono, prendere a prestito e spendere su larga scala. Rispettò gli insegnamenti di John Maynard Keynes, ma era altrettanto sospettoso delle successive generazioni di “keynesiani” di sinistra. Ma rimase fedele alle proprie verità domestiche. Se la Gran Bretagna avesse potuto meglio allineare ciò che spendeva e prendeva a prestito con il proprio gettito, allora il paese avrebbe contare sulle capacità natie della sua gente per fare il resto. Avrebbe ancora una volta assunto un atteggiamento fiero di fronte al mondo, assumendo le proprie decisioni.
Sarebbe difficile negare che Thatcher ebbe successo nel raggiungere alcuni di questi risultati. L’aliquota maggiore sulla tassazione da reddito stava al 98% nel 1979, scendendo al 40% nel 1988. Nel 1979, la Gran Bretagna perse 29,5 milioni di giorni lavorativi in scioperi. Già nel 1986, la cifra era scesa a 1,9 milioni. Quando assunse le sue funzioni, la Thatcher dovette fare i conti con industrie di Stato tra le più indebitate nel mondo occidentale. Quando lasciò il suo posto, l’idea della privatizzazione era diventata il più importante tassello di proprietà intellettuale mai esportato da un politico.
Quel che è anche vero, comunque, è che l’arcignamente prudente casalinga stava sull’orlo di un’era nella quale i cittadini erano molto più liberi di accedere al credito di quanto non lo fossero stati in passato. Si liberò del cartello di società di costruzione che aveva razionato l’offerta di credito ai compratori di case in Gran Bretagna. Più persone divennero proprietari per la prima volta, la meno fortunosa conseguenza fu che milioni di persone incominciarono a prendere a prestito pesantemente mettendo ipoteca sulla casa, fenomeno che condusse a un crack a poca distanza dall’abbandono delle sue funzioni a primo ministro.
Con la sua determinazione ad aprire i mercati al mondo – cinque mesi dopo esser arrivata al potere, abolì tutti i controlli di cambio sulle valute internazionali – la Thatcher ha lasciato un’eredità ambigua. Nel 1986, il suo “Big Bang” nella City di Londra abolì il sistema della commissione per i broker azionari, scassando il vecchio club della City. Il divieto di negoziazioni in proprio fu levato. La separazione tra le banche commerciali e le banche d’investimento cessò. Le banche estere, in particolare quelle statunitensi, si fecero avanti. Quel che tutti oggi biasimano e temono, ovvero “le banche casinò” non sarebbero state possibili senza questi cambiamenti.
Molti la accusarono di promuovere l’avidità che sul piano personale deplorava. Il navigato commentatore inglese, Peregrine Worsthorne, incapsulò questa critica alla Thatcher con vivida durezza. Lei aveva intenzione, affermava Worsthorne, di riformare il suo paese nell’immagine di suo padre (un laborioso e puritano droghiere metodista) e ha finito col creare un paese a immagine e somiglianza di suo figlio (un maneggione dichiaratosi colpevole nel 2005 in Sud Africa a fronte di accuse connesse con il sostegno finanziario a un colpo di Stato di matrice mercenaria in Guinea Equatoriale).
Sarebbe più corretto dire che l’Occidente oggi soffre di aver abbracciato il lato assolato del thatcherismo senza aver fatto proprio i suoi aspetti minatori. Tony Blair, Gordon Brown accettarono le idee che il mercato ha importanza, che gli investimenti esteri devono essere accettati, che le persone devono essere messe in condizione di arricchirsi. Lande del tutto nuove per un partito socialista. Ma ignorarono l’eterna vigilanza della Thatcher, la sua avversione per la spesa pubblica, la sua ossessione con la disciplina personale, la sua convinzione che non ci si può esimere, in ultima istanza, dal pagare i propri debiti.
Lo stesso accadeva in Europa. Anche paesi come la Germania e la Francia, che amano criticare la cultura “anglo-sassone” della speculazione, si misero a rischiare. Le loro banche prestarono in modo così spericolato che ancora oggi l’intero Continente europeo ne paga il prezzo. L’eurozona che hanno costruito chiedeva solamente che i suoi “criteri di convergenza” per i deficit di budget e debiti nazionali fossero rispettati da tutti gli aderenti.
Non è mai esistita una soluzione al problema di una moneta buona per tutti con un comune saggio di sconto che tenta di tenere insieme economie radicalmente differenti. Non vi è stata mai una risposta alla seguente domanda: “Esiste una prestatore d’ultima istanza”. Proprio le falle iniziali nel processo di costruzione monetaria europea minano ora l’intero edificio.
In tutto ciò, la Thatcher fu coraggiosa e preveggente. Nel 1988, nel suo famose discorso di Brugge, dileggiato da tutti i leader europei, mise in guardia quell’Europa che stava diventando “un club dalla ristretta visione e che si guarda l’ombelico, … ossificato in una mania da iper-regolamentazione”. Per lei, l’Europa era molto più dell’Unione Europea. Includeva tutti i paesi a Est, allora in battaglia per sbarazzarsi del comunismo. Il suo pro-americanismo si fece avanti. Disse che “la comunità atlantica – quell’Europa su entrambi i lati dell’Atlantico – che è la nostra più nobile eredità e la nostra più grande forza”.
Il suo commento più controverso fu il suo attacco tanto contro lo stalismo quanto contro l’iper-statalismo: “Non abbiamo ancora fatto ritirare le frontiere dello Stato in Gran Bretagna, e ce lo vediamo re-imporre da loro a un livello europeo con un super-Stato europeo che esercita una nuova forma di dominio da Bruxelles”. Si oppose strenuamente all’unione economica e monetaria europea.
Il summit della scorsa settimana in Bruxelles (ndt.,il saggio è stato pubblicato dal WSJ lo scorso 17 Dicembre 2011 e quindi il riferimento è al noto Consiglio europeo dell’8-9 Dicembre 2011, quello del ‘gran diniego’ britannico nel quale fu deciso la messa in cantiere del nuovo fiscal compact a livello europeo come voluto dalla Germania di Angela Merkel) ha avuto luogo esattamente a vent’anni dal trattato di Maastricht, nel quale l’UE decise di creare un’unica moneta (con la Gran Bretagna che mise al sicuro la sua opzione per chiamarsi fuori). Oggi, la risposta di Bruxelles ai problemi creati dalla centralizzazione è centralizzare ancora di più.
Questa volta, la Gran Bretagna, guidata stavolta da David Cameron, era così preoccupato d’essere andato più lontano rispetto a quanto non fosse mai andata Margaret Thatcher, opponendo veto al nuovo trattato europeo. Ma gli altri Stati membri troveranno certamente una via per aggirare la posizione britannica. Ciò di cui si sente il bisogno, dicono i leader europei, è un’unione fiscale. Insomma anche se la struttura dell’edificio trema, i suoi architetti tentano di farlo ancora più alto.
Esistono delle ragione per cui le posizioni di Margaret Thatcher sull’Europa, per quanto portentose, fecero fiasco all’epoca. Era diventato impopolare nel suo paese. La sua critica delle politiche europee furono talvolta espresse in sentimenti anti-tedeschi, rese sospettose le sue reali motivazioni. Soprattutto, sembrava che stesse nuotando contro il corso della storia. Il muro era caduto. La Germania fu riunificata. I vecchi nazionalisti erano stati vinti, diceva la gente. “Europa” aveva trionfato, e tutti noi, Est e Ovest, avremmo d’ora in poi vissuto felicemente tutti insieme nella “nostra comune casa europea”.
Nel suo discorso di dimissioni dal governo del 1990, nel quale si abbatté contro la Thatcher tanto come leader del partito Conservatore quanto come primo ministro, il suo un tempo stretto alleato Geoffrey Howe la accusò, per la sua ossessione di preservare lo Stato-Nazione britannico, di vivere “in un ghetto di sentimentalismo rispetto al proprio passato”.
Non appare proprio così oggi. Invece, fu proprio la Thatcher in persona a identificare, un paio d’anni dopo aver lasciato la scena politica, il problema alla base della costruzione europea. Secondo lei il problema stava nel fatto che la costruzione europea “era infusa in uno spirito del futuro già vecchio”. E’ stato fatto “un centrale errore intellettuale” assumendo che “il modello futuro del governo sarebbe stato una burocrazia centralizzata”. Così concluse, dicendo che “i tempi del mega-Stato costruito artificialmente erano finiti”.
Esistono poche possibilità che i leader europei di oggi vogliano ascoltare quel che la Thatcher disse. L’ossessiva costruzione di un mega-Stato continentale continua senza tregua. Ma l’eredità di Margaret Thatcher non sarà una di consenso tra le elite. Mentre il mondo Occidentale affonda sempre di più in un offuscamento, la sua abitudine di confrontarsi con le questioni dure della realtà continua a piacere e sembra oggi più necessaria che mai.
(traduzione di Edoardo Ferrazzani)
Margaret Thatcher: perché ne parliamo ancora
di Cristina Missiroli
da “Ideazione” di luglio-agosto 2006
Se gli anni Sessanta furono gli anni dei Beatles, gli anni Ottanta sono stati per la Gran Bretagna gli anni di Margaret Thatcher. La Signora di Ferro ha lasciato un’impronta indelebile, come i ragazzi di Liverpool. Nulla è più stato uguale. Senza di lei Tony Blair e il suo New Labour non sarebbero mai esistiti. E se Silvio Berlusconi avesse davvero fatto come lei, oggi, forse, non avremmo Romano Prodi e il suo governo vetero-sinistro a Palazzo Chigi.
La rivoluzione thatcheriana ebbe successo non solo perché fu combattuta al momento giusto. Ma anche perché la Signora ci credette dall’inizio e fino in fondo. Quindici anni più tardi, Alistair McAlpine, suo consigliere, scrisse un libello dal titolo The Servant, oggi introvabile, tradotto da Mondadori col titolo Il nuovo Machiavelli. Quel volumetto spiega bene il rapporto che, nella mente di chi lavorò al fianco della Thatcher, esiste e deve esistere tra il Principe e l’Idea. «L’Idea è il pensiero filosofico che sta alla base di tutte le azioni del Principe. Da quest’ultima il Principe trae la propria forza. Il Principe ha bisogno dell’Idea allo scopo di prendere via via le decisioni necessarie per l’acquisizione durevole del dominio sul territorio. Sottraete al Principe l’Idea, e di lui non resterà più nulla».
È il rapporto privilegiato e fortissimo con l’Idea ciò che caratterizza l’intera avventura governativa della Thatcher. È per questo che, prima tra i politici di professione, è stata scelta per il Feuilleton di Ideazione. Diceva: «In politica, se vuoi un bel discorso chiedilo ad un uomo; se vuoi i fatti chiedili ad una donna». Ma diceva anche: «Perché scalare le vette della filosofia? Perché ne vale la pena». Senza teoria, la prassi politica diventa galleggiamento. Diventa qualcosa d’incomprensibile e non finalizzato. Un po’ come accadeva in Italia. Scrive la Thatcher a proposito di Giulio Andreotti nella sua autobiografia: «Questo membro apparentemente indispensabile di tutti i governi italiani rappresentava una linea politica che non potevo condividere. Sembrava avesse una reale avversione per i principi, anzi la profonda convinzione che un uomo di principi fosse condannato ad essere ridicolo». Il legame strettissimo tra teoria e prassi, il contatto costante con i think tank che elaborarono la base teorica della sua azione, rende perciò la Thatcher un politico-filosofo. Come Ronald Reagan, ad esempio. E molti altri a cui la nostra rivista dedicherà, in un futuro prossimo, queste stesse pagine, destinate fino ad oggi prevalentemente a maestri del pensiero.
Un ciclone sul paese e sul sistema dei partiti
Forse un po’ ce lo siamo dimenticati, ma nel 1979 la signora Thatcher è piombata sulla Gran Bretagna come un terremoto. E con pari delicatezza ha squassato la nazione, annunciando quel che nessuno aveva mai osato prima. Che l’Inghilterra aveva vinto la guerra ma era come se l’avesse perduta. Che dal 1945, proprio quando i guai sembravano finiti, aveva smesso di essere una grande potenza. Che aveva perso l’impero. Che doveva scegliere di diventare qualcos’altro.
Con tutta la ruvidezza per la quale poi è diventata proverbiale, la Lady di Ferro ha costretto il paese a guardare in faccia la realtà. Come spesso accade, l’inizio del rinascimento coincise con il punto più basso toccato dalla nazione. Era l’inverno tra il 1978 e il 1979. A causa degli scioperi, i morti rimanevano insepolti e l’elettricità era razionata. Gli inglesi, con il morale sotto le scarpe, erano pronti alla svolta. Margaret Thatcher fiutò il vento che cambiava e rivelò la sua ricetta: iniziativa economica individuale, rispetto delle leggi, orgoglio nazionale, disciplina individuale, ordine. Erano i valori della classe media da cui proveniva. Presto sarebbero stati i valori nazionali. Quei valori la portarono, prima donna nella storia britannica, al numero 10 di Downing Street. Là sarebbe rimasta fino al 1990.
Quando la Thatcher raccolse il governo inglese, il paese era allo stremo, la stampa definiva la Gran Bretagna il “grande malato d’Europa”. Con la forza dell’Idea, la Signora inventò la sua rivoluzione. Durante la recessione del 1980-1982, si rifiutò di seguire la teoria economica keynesiana, allora dominante, che imponeva di stimolare la domanda. Invece prese di petto la spesa pubblica, l’inflazione, i sindacati. L’accusarono di aver inferto all’Inghilterra un bagno di sangue. Contro tutto e tutti ingaggiò uno storico braccio di ferro con i sindacati durante lo sciopero dei minatori. Alla fine vinse, tirandosi dietro l’odio (che perdura tuttora) della sinistra mondiale. E mentre gli intellettuali e i laburisti sbraitavano, la Thatcher cominciò a scuotere le coscienze degli inglesi. Invece di farsi intimorire dalla campagna stampa e dall’ostracismo dell’intellighenzia, spiegò che «aver pensato di curare l’Inghilterra col socialismo era come aver tentato di curare la leucemia con le sanguisughe». Che per ridistribuire ricchezza occorre prima produrla. Che questo non era compito dello Stato ma degli individui. Perciò lo Stato si sarebbe fatto da parte e avrebbe lasciato ai cittadini spazio, responsabilità, decisioni. Perciò lo Stato avrebbe venduto aziende e privatizzato i servizi non essenziali, privilegiando l’azionariato diffuso e incoraggiando il risparmio della classe media.
La Thatcher abolì il controllo sui movimenti di capitale, ridusse le imposte sulle società, tenne costante il valore della sterlina, utilizzando anche impietosamente l’arma dei tassi d’interesse. Fino a che la deregulation non attirò decine di istituzioni finanziarie straniere a Londra e molte sterline nelle tasche di giovani intermediatori inglesi e l’Europa, con il suo mercato unico, divenne un enorme supermercato per i servizi finanziari britannici. Per la gioia dei grandi investitori della City. Ma non solo. In quegli stessi anni, gli operai impararono che voler comprare una casa non è un’infamia, ma piuttosto una scelta di dignità e buon senso. E gli inglesi impararono che aver battuto i nazisti per poi farsi sconfiggere dai sindacati non solo era folle, era ridicolo.
Travolti da un ciclone del genere, gli avversari della Signora non si sono mai del tutto ripresi. I laburisti per primi. Appena cominciarono a capire vagamente ciò che stava accadendo, si resero conto con orrore che la Thatcher non si sarebbe accontentata di inseguirli di sconfitta in sconfitta. Intendeva convertirli. Guardare Blair per credere. Anche gli amici, però, non si sono più ripresi. Quando i conservatori capirono a chi avevano affidato le redini del partito era ormai troppo tardi per tornare indietro. A nulla serviva rimpiangere Disraeli e il suo conservatorismo caritatevole: il partito Tory, come lo avevano conosciuto fino ad allora, era sparito per sempre. Sotto la guida della figlia del droghiere di Grantham, il partito conservatore trascese i limiti della upper class che l’aveva prodotto: cercò voti ovunque, anche nelle classi borghesi o lavoratrici. E, quel che apparve più sorprendente, li trovò. Per i Tory era una folgorazione, per i laburisti uno shock. Perché alla fine degli anni Settanta tutti i partiti inglesi si professavano, in pubblico, interclassisti. Ma non era vero. Non ancora. La working class votava per il Labour, gli intellettuali brontoloni si dividevano tra liberali e social-democratici. E le élite tradizionali votavano conservatore.
La rivoluzione thatcheriana spazzò via certezze e steccati. I conservatori cambiarono linguaggio, stile, regole. Con orrore di qualche Lord, apparvero candidati che assomigliavano a venditori di macchine usate. Che parlavano come venditori di macchine usate. Che si rivolgevano a cittadini che compravano macchine usate. Ad ascoltarli, nei comizi di periferia, arrivarono altri inglesi, alla guida di macchine usate. Quegli stessi inglesi, dopo la cura Thatcher, sarebbero diventati proprietari di casa, riscattando la propria abitazione grazie ad una legge del governo conservatore. Certo, i vecchi Tory storcevano il naso, dicevano di detestare quell’insopportabile signora, con la sua aria da signorina Rottermeier. Per lei, i suoi stessi compagni di partito, coniarono una serie infinita di appellativi e nomignoli, da usare nelle conversazioni maschili al club, tra un sigaro e un whisky. Finirono addirittura a chiamarla per sigle, necessarie – dicevano – per semplificare il discorso, data la frequenza con cui le imprecazioni ricorrevano nei dibattiti. La chiamavano “Tina”, che sta per There is no alternative, non c’è alternativa. Oppure “Tbw”, That bloody woman, quella maledetta donna. Però, in fondo al cuore, l’amavano profondamente. Come i nobili d’un tempo amavano il proprio fattore: poteva non essere simpatico, ma era indispensabile per amministrare con frutto le tenute.
Venerata, ammirata, temuta, Margaret Thatcher non è mai stata, però, del tutto accettata dall’opinione pubblica britannica. Colpa dell’immagine di donna rigida e perfetta, senza cedimenti umani o pigrizie inglesi. Rigorosa anche nei casi in cui la sua politica finì per essere meno drastica nei fatti che nelle parole. Come nella riduzione della spesa pubblica. Lo sapeva. E si consolava dicendo: «Coloro che sono fatti per piacere sono portati naturalmente al compromesso. E non raggiungeranno gli scopi che si prefiggono». E ancora: «Essere un primo ministro è un lavoro solitario. Non si può governare stando in mezzo alla folla».
Quando nel 1990 fu costretta a lasciare il governo e la guida del partito, fu soprattutto perché ormai gli inglesi avevano ritrovato la dignità, la voglia di primeggiare, di lottare. Ma dopo tutto quello sforzo, avevano probabilmente voglia di rilassarsi, di cedere alla pigrizia inglese e di affidarsi di nuovo alle cure dello Stato. Almeno un po’.
Reagan e Thatcher: la strana coppia
Il 1979, quando la Thatcher arrivò al governo, non era un anno buio solo per la Gran Bretagna. Era il tempo della seconda crisi petrolifera, della rivoluzione iraniana, dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. La guerra fredda era al culmine, i sovietici piazzavano i loro missili contro le democrazie libere. Con tanti guai in patria, la Thatcher avrebbe dovuto prepararsi a gestire anche delicate crisi internazionali. Le avrebbe quasi sempre gestite in prima persona. Guardando con sospetto i ministri degli Esteri, fedele al radicato pregiudizio inglese che deriva da questo bislacco ragionamento: se il ministro dell’Agricoltura fa gli interessi degli agricoltori, il ministro degli Affari Esteri che fa, se non gli interessi degli Stati stranieri? Nella Thatcher questo sospetto sopravvisse, all’ennesima potenza. Tutti i collaboratori che si occupavano di politica estera furono accusati a turno, almeno una volta, di essere troppo morbidi, troppo trattativisti, poco meno che traditori.
I sospetti maggiori, come è noto, la Lady di Ferro li concentrava sul processo di unificazione europea così come si andava sviluppando in quegli anni. Non le piacevano neppure gli uomini che la stavano costruendo. Non le piacevano gli italiani, troppo infidi. Non le piacevano i tedeschi, troppo pericolosi. Non le piaceva neppure Giscard d’Estaing che pure era di destra, troppo burocratico e freddo. Eppure la sua analisi, fredda e lucida, andrebbe riletta oggi. Soprattutto dovrebbero rileggerla gli euroentusiasti, per riconoscerle, almeno col senno di poi, una qualche ragione. Eppoi, altro che Europa. La Thatcher aveva da occuparsi dell’Impero. L’Impero che era perduto, ma che sotto la sua guida non fu abbandonato. Ancora oggi le ex colonie formano una rete invidiabile. Non solo commerciale, ma anche politica. Non esiste presidente o sovrano di uno qualsiasi degli staterelli del Commonwealth che non abbia in ufficio la foto con la regina a Buckingham Palace. Il nuovo ruolo internazionale è stato costruito, inventato, preservato. Non subìto. Se ne accorsero a loro spese gli argentini, rigettati duramente nelle acque delle Falkland che avevano osato occupare.
Ma nel 1979, la Thatcher ancora non sapeva che avrebbe avuto presto un partner fidato, che l’avrebbe accompagnata per otto degli undici anni del suo mandato. Pochi mesi dopo il suo avvento al numero 10 di Downing Street, infatti, gli americani mandarono alla Casa Bianca l’ex attore Ronald Reagan. Molti anni dopo, la Thatcher scriverà: «Ricordo ancora vividamente il sentimento che provai quando seppi dell’elezione del presidente Reagan. Ci eravamo incontrati e avevamo discusso le nostre idee politiche alcuni anni prima, quando era ancora governatore della California. Seppi subito che insieme avremmo potuto affrontare il compito che avevamo di fronte: rimettere in piedi i nostri paesi, restituire orgoglio e valori, fare del nostro meglio per creare un mondo migliore e più sicuro». Così sarebbe stato. E non è un caso se il momento più toccante della cerimonia funebre di Reagan rimarrà per sempre il saluto della sua amica Maggie di fronte alla bara. Ancora oggi i nomi della Signora e dell’Attore sono sempre accomunati. Come maestri della rivoluzione liberale, da chi ancora li ammira e li studia. Come affamatori del popolo in nome del capitalismo e del liberismo, da chi ancora sogna Fidel Castro e Che Guevara. Eppure la loro fu una relazione complicata e tempestosa. Li accomunava la convinzione comune della superiorità morale (sì, proprio morale) delle società fondate sulla libera impresa e l’imperativo che ne seguiva: combattere a livello internazionale la minaccia del comunismo sovietico.
C’era anche di più: i due, quando s’incontravano si divertivano insieme, erano diventati amici e godevano della compagnia reciproca. Reagan ammirava la Thatcher per il suo equilibrio e la sua intelligenza d’acciaio. La Lady di Ferro era affascinata dall’umorismo del presidente americano e dalle maniere gentili. Eppure non potevano essere più diversi: per carattere e modo di lavorare. Lei grande accentratrice, lui abilissimo nel delegare. Lei sempre al chiodo senza perdere una battuta, dormendo al massimo quattro ore per notte e soffrendo come un cane quando le vacanze di qualche collaboratore inceppavano la sua efficientissima organizzazione giornaliera. Lui caparbiamente fedele alla sua illustre battuta: «È vero che il lavoro duro non ha mai ucciso nessuno. Ma perché correre il rischio?». Lei tutta immersa in una visione dura, oscura e negativa della natura umana. Lui inguaribile ottimista, con l’allergia dichiarata per il pessimismo che guastava gli animi e l’economia. Con un approccio tanto diverso, nessuno stupore che, più di una volta, tra i due si sia giunti a momenti di enorme tensione. Lo scontro più violento ci fu all’epoca della guerra nelle Falkland. Il dittatore argentino non aveva capito chi aveva di fronte e, impadronendosi delle isole sotto il dominio britannico, scatenò le ire della Thatcher e la guerra che ne seguì. L’Inghilterra fece da sé e vinse. Ma la Lady di Ferro si aspettava dall’alleato un aiuto, invece la Casa Bianca si offrì al massimo di negoziare. Lei uscì dai gangheri, lo prese come un tradimento e glielo fece sapere. Eppure nemmeno in quell’occasione la Signora riuscì a tenergli il broncio troppo a lungo.
Un affare molto più serio fu, invece, quello del 1986. Quanto toccò alla Thatcher riportare Reagan con i piedi per terra. Nell’incontro di Reykjavik il presidente americano sembrava sul punto di accettare la proposta di Mikhail Gorbaciov di far piazza pulita di tutte le armi nucleari. La Lady di Ferro pensò che il suo amico fosse uscito di senno.
Certo, era stata lei a convincerlo che Mr. Gorbaciov era un uomo con cui si potevano fare affari. Per il leader russo, la Signora avrebbe sempre mantenuto una certa passione. Ma l’accordo che si preparava a Reykjavik non solo era assurdo: era pericoloso. Le armi nucleari ormai esistevano e non si poteva far finta di non averle inventate. E, soprattutto, quelle armi americane avevano mantenuto la pace in Europa, evitando che l’urss facesse valere la propria supremazia. Per la Thatcher c’era il grave pericolo che Reagan cadesse nella trappola sovietica. Bastò un incontro a Camp David per riportarlo sulla retta via del dialogo senza cedimenti. Grazie a questa strategia, scriverà la Thatcher dopo la caduta del muro di Berlino, «Mr. Reagan ha vinto la guerra fredda senza sparare un colpo». Malgrado questi battibecchi, i due, insieme, segnarono quegli anni e gli anni a venire. Ed è facile capire il perché di tanta sintonia di fondo. Reagan e Thatcher erano entrambi outsiders della vita politica del loro tempo: due inguaribili ottimisti, inizialmente sbeffeggiati e trattati con sufficienza dall’establishment dei loro stessi partiti, ancora affogati nel vecchio conservatorismo pessimista e nostalgico dei tempi andati. Trovarono conforto l’uno nell’altra, s’incoraggiarono nei momenti più difficili, avvalorarono a vicenda le loro tesi e azioni politiche, in patria e all’estero. La loro rivoluzione parallela sarebbe stata più difficile se condotta in solitario.