Cari amici,
siamo all’inaugurazione della prima edizione della Summer School della Fondazione Magna Carta. A me spetta il compito di dare il benvenuto a tutti quanti voi, in particolare ai ragazzi e di dire poche parole per lasciare al più presto la scena al Presidente Marcello Pera. Mi concentrerò in questi pochi minuti su tre aspetti: cosa si prefigge questa iniziativa e qual è la sua ambizione; com’è stata organizzata e perché Magna Carta ne va orgogliosa; infine formulerò dei sentiti ringraziamenti.
Sarebbe molto facile affermare che questa iniziativa intende coprire un vuoto di formazione politica e, in particolare, il vuoto di formazione politica del centro destra. Sarebbe molto facile ma anche riduttivo. Noi pensiamo, infatti, che certamente vi sia un problema di formazione politica nel centro destra, ma crediamo anche che questo sia l’aspetto particolare di un problema più generale. Nel nostro Paese vige da troppo tempo una egemonia culturale di una specifica parte politica. E il prolungarsi di questa situazione ha portato, inevitabilmente, la nostra cultura politica a diventare provinciale e chiusa.
Il problema che abbiamo davanti, dunque, è di abbattere degli steccati; superare dei complessi d’inferiorità e, in tal modo, contribuire a rendere la cultura politica italiana, nella sua generalità, più aperta e cosmopolita. Della limitatezza e del provincialismo della nostra cultura politica si potrebbero portare tante prove tratte dalla storia.
Io vorrei qui, però, brevemente soffermarmi su tre esempi emblematici tratti dalle cronache di quest’estate. Il primo di questi esempi è rappresentato dal dibattito che ha fatto seguito alla confessione di Günter Grass d’aver militato da giovane nelle fila delle SS. Se volessimo fermarci a stigmatizzare il peso dell’egemonia culturale della sinistra potremmo limitarci a constatare l’evidente caso di “doppiopesismo”. Perché, quando in passato compromissioni dello stesso genere sono state rivelate da uomini che in seguito erano stati anticomunisti, i loro peccati di gioventù non sono stati né dimenticati, né perdonati, né si sono fatte analisi psicoanalitiche per cercare di giustificarne il prolungato vuoto di memoria. Sarebbe agevole collocare da una parte il trattamento ricevuto dal Corriere della Sera da Filippani Ronconi o il linciaggio subito dai suoi colleghi storici da Roberto Vivarelli e dall’altra ricordare, oltre al caso Günter Grass, la comprensione dimostrata verso Norberto Bobbio o, in ambito più politico, verso François Mitterand.
Anche in questo caso, però, oltre che facile sarebbe riduttivo. Il caso Günter Grass, infatti, mette in evidenza qualcosa di più profondo: il fatto che determinate omissioni o ritardi di memoria siano stati determinati dalla circostanza che per essere considerati “coscienza della nazione” è stato fin qui necessario militare a sinistra, senza che potesse esservi nel proprio passato qualcosa da rinnegare o da rigettare. Questo lusso ce lo si è potuto prendere solo alla fine di un percorso esistenziale. Questa limitazione ha contribuito a far sì che in molte nazioni europee, l’Italia tra queste, fosse difficile confrontarsi serenamente con il proprio passato.
Alcuni periodi storici sono stati così considerati alla stregua di una colpa collettiva, ovvero dimenticati o demonizzati attraverso la categoria del male assoluto. Da tutto ciò sono discese due perversioni. In primo luogo, periodi storici come il fascismo, il comunismo o il nazismo non hanno avuto quella considerazione critica che invece l’acquisizione di una mentalità più libera, dopo tanti anni avrebbe consentito. Inoltre, la valutazione dei comportamenti e delle responsabilità individuali è stata resa quasi impossibile perché schiacciata tra le categorie della colpa collettiva e l’agognata remissione di ogni peccato.
Il tema della colpa è così rimasto sospeso in un limbo, senza mai essere affrontato con quella laicità che solo il riferimento alla persona, con tutto il carico delle sue imperfezioni, può fornire. Passando al secondo esempio che ripropone ancora chiusura e provincialismo culturale, in un ambito molto meno drammatico, quasi al limite dell’ironia, ci si può riferire alla famosa e-mail inviata dal Ministro Padoa Schioppa a 92 suoi colleghi universitari per bacchettare un giornalista che aveva osato esprimere una critica nei suoi confronti. Non entro nelle motivazioni addotte in quella e-mail né voglio considerare il modo presuntuoso e villano di giudicare alcune testate giornalistiche vicine all’opposizione. Mi limito a evidenziare come per un Ministro della Repubblica, tra i più importanti, il mondo di riferimento sia quello di una certa intellettualità; un mondo chiuso confinato nell’indirizzario di un computer. Così, dopo i furbetti del quartierino abbiamo avuto il ministro del salottino: il salottino della cultura buona che, ovviamente, è solo di sinistra.
Infine un ultimo esempio è indicativo dei limiti che pesano sulla cosiddetta parte buona della nostra intellettualità: il dibattito sul ’56 ungherese. Al suo cospetto c’è da chiedersi: è mai possibile che di fronte a una tragedia, parte di una tragedia ancora più ampia e di una storia più complessa, il nostro Presidente della Repubblica che a suo tempo non aveva capito, abbia oggi sentito il bisogno di scusarsi con una persona che si era accorta con più di dieci anni di ritardo di cosa era il comunismo e dei suoi pericoli? Quella persona, che risponde al nome di Pietro Nenni, qualunque giudizio storico si voglia dare sulla sua complessiva vicenda politica,
resta responsabile di un incredibile ritardo della nostra storia politica. Perché il fatto che in Italia fino al ’56 sia esistito l’unico partito socialista occidentale completamente succube del partito comunista è una responsabilità che va in gran parte ascritta a lui. L’essersi accorto con gravissimo ritardo del suo errore porta oggi un ex-comunista divenuto nel frattempo Presidente della Repubblica ad affermare: “aveva ragione lui”. Ciò evidenzia come, da quell’ex-comunista, la tragedia ungherese sia stata considerata, una volta di più, con categorie culturali limitate. Come se fosse una vicenda appartenente non alla storia dell’Occidente, dell’Europa e neanche dell’Italia, ma riguardasse unicamente la piccola storia della sinistra italiana.
Questi esempi evidenziano il nostro vero obiettivo: se vogliamo uscire dalle secche del provincialismo culturale è necessario che le legittimazioni siano più ampie; non è più possibile che la cultura sia ancora uno spazio riservato a una sola parte e che l’altra continui ad avvertire un insuperabile complesso di inferiorità. Questa iniziativa tende a cambiare tale stato di cose e, per questo, la Fondazione che presiedo ne è orgogliosa. La Summer School nasce come conseguenza diretta della attività ordinaria di Magna Carta. I quattro percorsi di ricerca che confluiscono in due classi di 25 studenti ognuna, ripropongono i quattro board nei quali gli intellettuali di Magna Carta svolgono la loro riflessione: politica estera, riforma dello stato, riforma del welfare e innovazione. I 50 studenti sono stati selezionati tra i tanti che hanno fatto richiesta. In gran parte sono già laureati; in alcuni casi già dottorati. Essi riceveranno l’insegnamento e saranno seguiti dai docenti di Magna Carta che nel corso di questa settimana presteranno il loro lavoro volontariamente, così come volontaria è tutta l’attività che fin qui è stata da loro svolta presso la fondazione. Di tutto ciò, lo ribadisco, siamo orgogliosi, anche perché questa iniziativa si aggiunge ad altre più consolidate e tutte insieme intenderebbero creare una vera e propria tradizione culturale. Essa, dunque, prende posto accanto alla Lettura Annuale di Magna Carta, accanto al convegno annuale di Norcia sui rapporti tra laici e cattolici, accanto al tavolo transatlantico di Lucca che ha visto in questa edizione transitare i maggiori analisti di politica estera europei e soprattutto americani. Una volta l’anno, all’inizio di settembre, cercando di non confliggere con altre iniziative, proveremo a fare di questa Summer School un appuntamento sempre più importante.
Ne siamo orgogliosi, infine, anche perché lo svolgimento di questa iniziativa attesta che una previsione diffusa è stata smentita. Io ricordo – e lo ricordano qui tanti amici – i pronostici infausti che si facevano pochi mesi prima delle elezioni. In tanti hanno creduto che se le elezioni fossero state perse l’attività di Magna Carta sarebbe cessata; ci sarebbe stato il “fuggi fuggi” di tanti intellettuali che si erano avvicinati per convenienza e che, infine, la storia della nostra fondazione avrebbe scritto un’altra pagina della storia del trasformismo culturale italiano. A quasi sei mesi delle elezioni, invece, non solo l’iniziativa di Magna Carta è diventata più forte; non solamente abbiamo lanciato nuove iniziative ma possiamo affermare che casi di abbandono per convenienza non ce ne sono stati. Se proprio li vogliamo enumerare, vi è stata una sola persona che faceva parte di questa intrapresa e che, imbarazzata, è passata dall’altra parte. Noi ci auguriamo abbia sbagliato i suoi calcoli. Ma, in ogni caso, se – su oltre i 150 intellettuali – nessuno viene meno, questa è una prova di tenuta morale e di radicamento culturale. Inoltre, accanto a coloro i quali già lavoravano nella fondazione, sono ora giunti alcuni – impegnati in incarichi di governo nella scorsa legislatura – che ci auguriamo possano trovare all’interno della fondazione l’ambiente idoneo per riflettere e preparare una nuova stagione di governo.
Si vorrebbe così replicare il funzionamento delle fondazioni americane le quali, quando si esaurisce un’amministrazione, divengono il luogo della rigenerazione nel quale si predispone la nuova proposta politica. Il percorso fin qui compiuto dalla fondazione non è stato un percorso scontato. Per questo si impongono dei ringraziamenti. Vorrei ringraziare i ragazzi che hanno avuto fiducia nella nostra iniziativa e, per questo, hanno presentato la loro domanda. Spero in coscienza che questa settimana possa essere per tutti loro un momento di arricchimento e l’inizio di un rapporto con Magna Carta che potrà crescere nel tempo. Devo ringraziare i docenti, alcuni dei quali sono oggi presenti, che rappresentano il vero patrimonio di Magna Carta. Li ringrazio per il loro impegno e la loro liberalità. Un ringraziamento va a tutto lo staff della fondazione.
A Francesco Valli che ci ha condotto a Frascati e fatto conoscere questa splendida sede; a Gianni Clemente che è stato l’anima di questa iniziativa insieme al suo fido scudiero Michele Donno. Un ringraziamento va poi a tutti gli ospiti di questa sera. Tra i tanti permettetemi di citare Sandro Bondi che si fermerà qui con noi tre giorni: Sandro, in un ambiente nel quale la disattenzione è la norma, sappi che la tua attenzione la consideriamo un fatto importante da un punto di vista umano e da un punto di vista politico.
Il ringraziamento finale va al Presidente onorario della Fondazione Magna Carta Marcello Pera al quale mi accingo a passare la parola. La fondazione è il frutto della sua riflessione; del modo nel quale il Presidente Pera ha interpretato il ruolo di Presidente del Senato; degli spazi che la sua azione culturale, politica e istituzionale ha aperto e che rappresentano un lascito durevole. L’avergli affidato l’apertura dei lavori non è solo un fatto dovuto; non è solo il modo per ribadire ancora una volta che da queste parti la riconoscenza non è il sentimento del giorno prima. È qualcosa di più. È una richiesta pressante, perché la Fondazione Magna Carta oggi ancora più di ieri ha bisogno della riflessione e dell’impegno del Presidente Pera, per poter continuare a dire qualcosa di nuovo così come ha fatto in questi anni.
Gaetano Quagliariello