Di fronte alla più grande crisi economico-finanziaria dal 1929 a oggi, per il capitalismo è stato impossibile sfuggire al fuoco di fila dei suoi detrattori. Ma a mettere sotto accusa il liberismo “selvaggio”, non sono stati semplicemente i socialisti “scientifici” e i keynesiani di ritorno: trasversalmente, anche il mondo della politica si è lasciato andare a critiche troppo spesso ispirate a luoghi comuni, come se non riuscisse a sottrarsi ai canoni del politicamente corretto invocando necessariamente misure restrittive contro una malintesa nozione di laissez faire. D’altro canto, al cospetto di una crisi così dura e dall’enorme portata, sarebbe incoerente, specie per un liberale, non riflettere sui motivi che sono stati alla base del default dell’economia americana. Questi non devono essere ignorati, ma neppure possono mettere in discussione né tanto meno ridimensionare il ruolo svolto dal capitalismo nella storia dell’umanità. È infatti grazie all’ingresso nelle moderne economie di mercato che progressivamente miliardi di persone sono state sollevate dalla loro condizione di povertà e sottosviluppo. Ed è sempre grazie all’espandersi dell’economia di mercato che oggi i ritmi di crescita della povertà e della fame sono nettamente più bassi che in passato, sebbene la popolazione mondiale sia di gran lunga superiore. È vero che la percentuale di quanti patiscono la fame nel mondo resta altissima; ma se questa viene considerata in termini relativi, ovvero comparandola al ritmo di crescita degli abitanti del pianeta, scopriamo che oggi nel mondo vi sono sempre meno affamati.
Non è certo un caso, allora, che la funzione imprescindibile svolta dal modello capitalistico fondato sul libero mercato abbia trovato definitivamente posto anche nell’ordine morale e spirituale delineato dalla dottrina sociale della Chiesa. L’enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI né è la dimostrazione. Coloro che nella crisi attuale avevano visto l’occasione per un documento di rinnovata e autorevole condanna nei confronti del capitalismo sono rimasti delusi. Da parte del Pontefice non c’è stato alcun rilancio di quelle letture della dottrina sociale della Chiesa di stampo pauperistico o, nel migliore dei casi, scettiche nei confronti dello sviluppo e delle sue potenzialità. Il testo di Benedetto XVI rigetta qualsiasi critica radicale del capitalismo e quando ne rileva possibili incongruenze risponde a una logica interna propria di chi quel sistema non solo lo ha accettato ma ha anche operato uno sforzo serio per comprenderlo al fine di migliorarlo. In questo modo, Benedetto XVI ha sgomberato il campo da ogni equivoco teorico e dottrinale circa il rapporto tra cristianesimo e liberalismo; un rapporto complesso, che comprende la storia del pensiero politico degli ultimi trecento anni e non può essere ridotto a un tema di stretta attualità. Esso, più o meno direttamente, attraversa le opere dei padri dell’economia classica, dalle maggiori aperture che si incontrano in Adam Smith e nella sua concezione del mercato come luogo che sa suscitare solidarietà e fiducia, alle chiusure di Mandeville e della sua Favola delle api; dalle radicali affermazioni di incompatibilità tra i due sistemi di pensiero che si incontrano nelle pagine di Socialismo di Von Mises, alle convincenti analisi etimologiche che le smentiscono di Angelo Tosato.
Sul versante della riflessione cattolica, Benedetto XVI ha realizzato una conciliazione tra dottrina sociale della Chiesa e liberalismo ancora più profonda e più “resistente” di quella che si incontra nelle encicliche a sfondo sociale del suo predecessore: la Sollicitudo rei socialis e la Centesimus annus. L’analisi del Pontefice è inserita in una cornice epocale nella quale vengono messe in evidenza una continuità e una rottura. La continuità, assicurata dal principio che lui stesso definisce di fedeltà dinamica, è quella con la Populorum progressio di Paolo VI. Vi sono alcune ragioni tematiche per affermare questa congiunzione. Ma vi è soprattutto una più profonda ragione analitica che attraversa l’intero pontificato di Benedetto XVI. Paolo VI, infatti, è il Papa del Concilio. E Benedetto XVI, richiamandolo, vuole per l’appunto riaffermare come il Vaticano II non costituisca affatto quel momento di svolta e di rottura a lungo accreditato dalle correnti cattoliche cosiddette “sociali”, ma che, nella storia della Chiesa, vi sia una continuità più profonda che assorbe anche la lettura e l’interpretazione del Concilio. Non a caso, quasi ad ogni riferimento alla Populorum progressio ne corrisponde uno che richiama la Rerum novarum di Leone XIII.
A fronte di tale continuità interna alla Chiesa, Benedetto XVI coglie in profondità le conseguenze di lungo periodo che sono derivate dalla rottura dell’ordine bipolare: conseguenze che in realtà solo oggi, dopo vent’anni, stanno sedimentando i loro effetti consentendo analisi non più meramente impressionistiche. Nella dottrina sociale della Chiesa, pertanto, vi è una considerazione affatto pregiudiziale del cosiddetto fenomeno di globalizzazione, assunto come occasione da governare, in particolare per una riprogettazione dello sviluppo mondiale, che fin qui solo in piccola parte è stata colta. Certo la globalizzazione presenta grandi difficoltà e pericoli, di fronte ai quali però la risposta non può e non deve essere il ritorno a forme di controllo statalista e di chiusura autarchica. Occorre piuttosto, secondo la chiave di lettura offerta da Benedetto XVI, “prendere coscienza di quell’anima antropologica ed etica che spinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione solidale”.
Ed è proprio sulla base di tali osservazioni che nella “Caritas in veritate” si ritrova anche una riconsiderazione del ruolo degli Stati, ai quali circa quarant’anni fa la Populorum progressio assegnava ancora compiti centrali e che ora – si ammette nell’enciclica – non sono più in grado di fissare le priorità dell’economia né di governarne l’andamento. Da qui discendono analisi oggettive ed equilibrate sull’inevitabile ridimensionamento delle reti di sicurezza sociale, nonché sulle opportunità e i rischi legati a una più marcata mobilità lavorativa, conseguenza diretta del processo di globalizzazione. E tutto ciò senza indulgere verso frettolose e unilaterali “liquidazioni” dello Stato contemporaneo e del suo ruolo. Questo nuovo contesto epocale, per essere affrontato, nella sfera economico-sociale così come nel più ampio ambito delle relazioni umane, porta il Pontefice a sottolineare con ancor più forza rispetto al passato il nesso necessario tra la libertà dell’uomo e la sua responsabilità. Ancor più che dalla legge, la libertà che si può esercitare nella complessità del nuovo ordine mondiale deve essere temperata, aiutata, esaltata dalla responsabilità. E questo atteggiamento porta con sé il rifiuto di una spasmodica ricerca d’ampliamento della sfera dei diritti, i quali, per Benedetto XVI come per un vero liberale, valgono laddove trovano dei corrispondenti doveri.
In questo equilibrio va ricercata la differenza implicita tra individualismo e centralità della persona. L’individualismo presuppone la ricerca di un allargamento della sfera dell’autodeterminazione personale che prescinde da ogni fondamento, dalla considerazione degli altri e persino dai dati stessi della realtà inevitabilmente intrisi di una tradizione che si può certo criticare e innovare ma non ignorare. La centralità della persona, al contrario, presuppone la responsabilità nei confronti degli altri e in particolare nei confronti delle comunità all’interno delle quali la vicenda umana si inserisce. Tale relazione, in ogni caso, non cancella l’autonomia dell’individuo – come invece nella comunità proposta dai totalitarismi del XX secolo – perché “il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto”. E’ sulla base di questa analisi delle novità introdotte dal XXI secolo che vanno letti i brani della “Caritas in veritate” specificamente riferiti al sistema di libero mercato così come inquadrato nella dottrina sociale della chiesa. Innanzi tutto vi si afferma il nesso inscindibile tra libertà economica e sviluppo umano: “Solo se libero, lo sviluppo può essere integralmente umano; solo in un regime di libertà responsabile esso può crescere in maniera adeguata”. Quando il progresso non si ideologizza, scadendo in progressismo, esso racchiude la possibilità di un maggior benessere diffuso e, per questo, va ricercato con fiducia. Da qui, il definitivo “sdoganamento” del profitto: esso non è il fine assoluto del processo economico, ma ne è comunque un elemento inevitabile; non può dunque considerarsi lo sterco del diavolo, ma è bene che venga temperato dal ruolo della carità che implica il dono e la gratuità. Tale compito spetta alle singole persone, ed è per questo ben diverso dal tentativo di raggiungere la giustizia sociale imbrigliando il profitto all’interno di una organizzazione statuale che di fatto giunga a negarlo.
Vi è nella dottrina sociale della chiesa, pertanto, la consapevolezza che il mercato non è un luogo selvaggio: ha delle regole sulle quali si può agire. Da qui, la volontà di rispettarne la logica di fondo, ma anche di condizionarne il funzionamento, affinché la centralità della persona possa affermarsi in tutte le sue fasi. Si cerca insomma di agire sui presupposti del processo economico per stabilire la centralità della persona, abbandonando la spasmodica ricerca di una tanto ideologica quanto utopistica uguaglianza sociale assoluta che stabilisca un’astratta perfezione. La povertà viene dunque considerata un’opportunità di sviluppo, anziché essere cristallizzata come il risultato di un meccanismo iniquo; mentre nella cooperazione internazionale, vi è un chiaro rigetto dell’assistenzialismo. Con Benedetto VXI, insomma, viene meno quella distinzione che a lungo ha legittimato l’intervento politico del cosiddetto riformatore cattolico. Non c’è più un “prima” e un “dopo”: non c’è il processo capitalistico che provoca ingiustizie e il riformatore cattolico che successivamente deve agire per mettervi riparo; al contrario, tra l’agire economico e l’agire politico deve esserci una piena integrazione.
Conseguentemente, viene meno anche il ruolo dello Stato come grande distributore di equità. L’equità possibile, il rispetto per la persona, la capacità di sfuggire ai corporativismi che per Benedetto XVI hanno preso eccessivo spazio nel mondo sindacale, devono essere ricercati fin dalla definizione del mercato come luogo di incontro, di reciproca fiducia, di vantaggiosa commutazione. A questo deve tendere l’operato del politico ispirato dai principi cristiani e, di conseguenza, liberali. È in questo compito di regolatore sulla base del primato della persona che lo Stato ritrova una sua funzione, anche a dispetto del mito dell’autonomia contrattuale come sinonimo di libertà personale.
A fronte di questo approccio liberale nei confronti dell’economia di mercato, può segnalarsi in controtendenza la costituzione, auspicata in “Caritas in veritate”, di un’autorità politica mondiale per il governo dei problemi globali. In teoria, tale concentrazione di potere si pone in contraddizione con il principio di sussidiarietà che costituisce un caposaldo della stessa dottrina sociale della Chiesa. In pratica poi, la proposta potrebbe risolversi in un rafforzamento del potere dell’Organizzazione delle Nazioni Unite alla quale, pure, l’enciclica non lesina delle critiche. Ma se la richiesta di tale autorità implica, più pragmaticamente, un adeguamento del sistema dei controlli per evitare una degenerazione della finanza prodotta anche dalle politiche interventiste degli Stati nazionali, evidentemente la contraddizione si attenua e diviene il prezzo che ogni liberale deve esser pronto a pagare di fronte a ciò che nel mondo è accaduto a causa dello sviluppo dopato che, a partire dall’amministrazione Clinton, è stato provocato dalla politica americana sui mutui per sostenere il mercato abitativo. Insomma, se il liberalismo ha in comune qualcosa con il cristianesimo, questo è innanzi tutto il saper non mettere la testa sotto la sabbia al cospetto delle storture del mondo, il cercare soluzione non ideologiche per risolvere i problemi, il saper correggere la rotta pur rispettando una linea di sostanziale continuità. Ed è proprio lungo questa strada che Benedetto XVI fissa un proficuo punto di incontro tra capitalismo e dottrina sociale della Chiesa.
(L’intervento del senatore Gaetano Quagliariello, Presidente d’Onore della Fondazione Magna Carta, agli Incontri di Norcia 2010)