L’instabilità economica e finanziaria che si protrae oramai da tempo, e ancora non accenna a stabilizzarsi, ci induce a riflettere, non solo sulla intonazione delle politiche economiche più o meno restrittive, ma soprattutto sull’adeguatezza della cornice istituzionale e normativa, in cui si dispiega il governo dell’economia. Devo dare quindi atto ai responsabili della rivista Percorsi costituzionali di avere individuato, con magnifico tempismo, un tema di grande attualità e di vasta portata.
La costituzione economica italiana, nei suoi aspetti formali e informali, non può non essere all’attenzione di coloro che oggi vogliano dare soluzioni stabili e durature ai gravi problemi da fronteggiare. Le domande relative alla nostra costituzione economica a cui occorre dare risposta sono molteplici: in primis, quali modelli filosofici, e quindi economici, hanno ispirato la redazione di una Carta che – unica fra quelle degli ordinamenti avanzati – si distingue per sovrabbondanza di precetti, talvolta evanescenti e talvolta eccessivamente regolatori, attraverso i quali i principi fondamentali in campo economico vengono declinati? In che maniera tali modelli si sono realizzati nel concreto? Come si integrano con le nuove regole che ci derivano dall’adesione all’Unione europea e in particolare all’Unione monetaria europea, che hanno inciso e incidono in misura non certo superficiale sulla definizione delle politiche economiche e di bilancio dello Stato italiano? La Carta è ancora adeguata alle esigenze specifiche della nostra economia, che, giova ricordarlo, si caratterizza per una vocazione alla trasformazione e all’esportazione, basata prevalentemente su un tessuto di piccole e medie imprese, con un pervicace divario territoriale tra Nord e Sud e una crescita demografica stagnante? In queste condizioni strutturali, la nostra Costituzione economica, materiale e immateriale, è ancora attuale di fronte alle sfide poste dallo sviluppo delle tecnologie produttive, dalla globalizzazione economica, dall’integrazione geopolitica?
A queste domande, e ad altre ancora, hanno cercato di dare risposta gli autori del volume presentato oggi. A loro – non posso citarli tutti – vanno i miei sentiti ringraziamenti per il contributo fornito a questo importante dibattito.
Un ringraziamento particolare anche al Ministro Brunetta, al Segretario generale Angeletti, al presidente D’Amato, i tre illustri esponenti del mondo della produzione e della politica, che hanno avuto la cortesia di partecipare alla tavola rotonda per discutere dell’attualità della nostra Costituzione economica.
E dopo le formalità – peraltro sentite e sincere – passiamo a quello che mi è stato chiesto di fare: delle conclusioni a questo convegno, così opportuno e ben sostenuto dalle pubblicazione della Rivista.
La Costituzione economica italiana è un unicum tra i paesi occidentali. Il carattere compromissorio dell’intera Carta fondamentale, pur nel senso più alto e nobile del termine, non avrebbe potuto non ripercuotersi in un ambito così rilevanti. E difatti, come indicato in diversi contributi della Rivista, la Costituzione economica si configura come il risultato di un compromesso tra impostazione marxista e impostazione cattolica; i principi di ispirazione liberale vi hanno trovato ahimé poco spazio. Nella presentazione del volume, il Prof. Chiappetti sottolinea che, nell’ambito del poco ordinato complesso di articoli di carattere economico della nostra Costituzione, le disposizioni concernenti il lavoro e i lavoratori hanno letteralmente sommerso quelle poche riguardanti le libertà e i diritti economici. Il diritto di proprietà privata vi è riconosciuto e garantito, ma in quanto funzionale all’adempimento della funzione di interesse generale dello Stato sociale. E su questo, rinvio al saggio di Giulio Maria Salerno.
Dalla nostra Costituzione economica scaturisce quindi un forte impulso alla realizzazione di un Welfare State, incentrato, in maniera preminente, sulla tutela dei lavoratori, in particolare di quelli subordinati, che si è concretizzato, nei primi quaranta anni della storia repubblicana, in una vasta produzione normativa di carattere sociale – Statuto dei lavoratori, legge sull’equo canone, servizio sanitario nazionale, tanto per citarne alcuni – e che ha concorso a realizzare nel nostro Paese una delle forme di Stato sociale tra le più articolate delle economie occidentali.
Ciò nondimeno, un’analisi della nostra Costituzione economica materiale e immateriale, con lo sguardo attento ai capisaldi del pensiero liberale e alla luce del bagaglio di esperienza che ci deriva dagli ultimi decenni di storia italiana e internazionale, non può non indurci e scorgere alcune carenze.
Innanzitutto, in essa l’impulso alla realizzazione dello Stato sociale non si accompagna con un’adeguata disciplina del bilancio pubblico e non tutela adeguatamente la competitività del sistema economico nel suo complesso. Sul primo aspetto ricordo solo le dimensioni del debito pubblico italiana e rimando a Raffaele Perna, il quale illustra con chiarezza le debolezze dei principi di fiscalità presenti nella nostra Costituzione. E non può non sottacersi la mancata previsione di tutto ciò che riguardi la tutela della competitività. E’ un’assenza di non poco rilievo, perché il nostro sistema economico, per le sue ridotte dimensioni, per la sua collocazione geografica al margine dei grandi mercati dell’Europa continentale e per la sua scarsa dotazione di materie prime, è obbligato a caratterizzarsi come un sistema di trasformazione e di esportazione, in cui la competitività, soprattutto di prezzo, è essenziale per eccellere.
Inoltre, la Costituzione economica presenta delle carenze sotto il profilo del metodo. La realizzazione di obiettivi di carattere sociale, infatti, è stata effettuata utilizzando prevalentemente lo strumento dello Stato. In poche parole: scarsa è la sussidiarietà. E ciò, nonostante siano state inserite numerose disposizioni costituzionali, con l’intento di dare allo Stato un ruolo nel sociale non generalizzato, ma parziale, e spesso di portata meramente integrativa dell’attività privata.
Infine, la nostra Costituzione economica appare inadeguata laddove esprime un favor nei confronti del fattore lavoro, in particolare di quello subordinato, rispetto alle altre componenti dell’attività produttiva: capitale e funzione organizzativa. Un retaggio, questo, della visione ottocentesca della produzione, forse non più aggiornato ai tempi e ai desiderata delle stesse categorie di lavoratori, che, in una società delle conoscenze, della mobilità, dell’adattabilità, necessitano di altre e diverse tutele che, per una sorta di eterogenesi dei fini, la Carta fondamentale della nostra Repubblica fondata sul lavoro non sembra in grado i offrire loro.
Insomma, alla luce di quanto contenuto nel volume e di quanto abbiamo ascoltato oggi negli interventi in sala, mi sembra si possa concludere che la struttura dei principi della nostra Costituzione economica andrebbe riformata. Senza entrare nel merito di specifici suggerimenti, mi permetto di indicare alcuni principi che andrebbero quantomeno considerati nell’azione riformatrice.
Primo, per un sistema economico “aperto” agli scambi internazionali, quale quello italiano, bisogna tenere presente che la concorrenza si gioca anche con gli “ordinamenti”, ossia, con il quadro normativo e istituzionale. Non basta la fiscalità, né basta il costo del lavoro per determinare il successo del “made in Italy”. Occorre che le norme, le istituzioni, la pubblica amministrazione, con cui interagiscono i fattori produttivi, siano efficaci ed efficienti quanto, se non più, di quelli vigenti nei Paesi concorrenti. Occorre avere costante riferimento, in altre parole, alle “best practices” in materia, per evitare di appesantire il nostro sistema produttivo di oneri impropri. In questo contesto, appare quantomeno rischioso, se non persino controproducente, auspicare nel nostro Paese un rafforzamento dello Stato regolatore, imprenditore e dirigista. Sarebbe più appropriato, invece di elargire i soliti sussidi e le solite sovvenzioni – come ben ricorda Rebecchini nel suo testo -, sarebbe opportuno – dicevo – prevedere l’intervento pubblico esclusivamente per “rimuovere” vincoli ed esternalità all’iniziativa economica; per realizzare insomma quelle condizioni di contesto – contrasto alla criminalità, promozione delle infrastrutture, formazione del capitale umano e via dicendo – che imbrigliano e ostacolano la libertà di intrapresa e le prospettive di sviluppo.
Il secondo principio di base si potrebbe riassumere nella frase: l’ottimo non sia nemico del meglio. Evitiamo di imbarcarci in progetti di tipo “costruttivista”, tendenti a voler cambiare il mondo, trascurando di mettere mano alle cose semplici ed essenziali. Fasi di prolungato dibattito sui massimi sistemi, adombrando grandiosi cambiamenti delle regole, rischiano di generare incertezza presso gli imprenditori, insicurezza per i risparmiatori, ansia ai consumatori. Dobbiamo dare pochi segnali, ma chiari. L’economia di mercato non è in discussione. Funziona ed è in grado di continuare a generare ricchezza e benessere come mai nella storia dell’umanità è accaduto. Ciò che occorre è una sapiente calibratura dell’impianto di base, per eliminare gli eccessi messi in luce dalla recente crisi.
Non dobbiamo, per altro, nasconderci che la fase di turbolenza, che stiamo vivendo in queste settimane, è essenzialmente una crisi economica tutta europea. Essa non nasce negli Stati Uniti. Non ha a che fare con gli eccessi finanziari di Wall Street. Questa crisi riguarda la mole del debito pubblico dei Paesi europei e la capacità (o incapacità?) di crescere per ripagare il debito, mantenendo, allo stesso tempo, i livelli di protezione sociale a cui siamo stati abituati nel vecchio continente. Questa crisi – a mio avviso – ha messo in evidenza la difficoltà dell’Europa di coniugare una generosa spesa sociale con una crescita dinamica in grado di generare risorse sufficienti per coprire tale spesa. E il debito si è accumulato sempre più, perché il confronto tra questi due obiettivi per anni é stato rinviato. Oggi emerge con crudezza… e i recenti eventi della Grecia ne sono l’emblema.
L’euro e l’integrazione economica dell’Europa non sono e non si devono mettere in discussione. Esiste un problema di fiducia. I risparmiatori e gli investitori – europei in primis -, tutti particolarmente sensibili agli eccessi di indebitamento, non sono convinti della volontà dei governi nazionali di mettere ordine, di riequilibrare le finanze pubbliche, di ripristinare nelle nostre economie condizioni strutturali per un incremento della produttività e del tasso di crescita.
Allo stesso tempo, affinché il nostro Paese e l’Europa superino questa fase di stallo, è fondamentale ciò che ricorda il prof. Chiappetti nell’introduzione, rilanciando ciò che già afferma la Costituzione riguardo a contribuire al progresso materiale o spirituale della società. Dice Chiappetti: “… la società italiana dovrà anche riacquisire la cultura di valori presenti nella Costituzione, quali il merito, la selezione, l’autorità, l’autosufficienza e la preminenza dell’interesse generale…”, e io aggiungo: liberandosi sempre più da uno Stato paternalista.
Il Governo italiano sta facendo la sua parte, da ultimo con la manovra di finanza pubblica che è stata varata nella consapevolezza che un certo rigore contribuirà a ristabilire la fiducia dei risparmiatori e le condizioni per mantenere bassi i tassi di interesse. Naturalmente, sarà necessario che le misure correttive siano integrate da iniziative di carattere strutturale, per liberalizzare il nostro sistema asfittico, per accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione e per migliorare il quadro istituzionale.