La vera sfida è il bilanciamento tra il diritto alla riservatezza nella comunicazioni sancito dalla Costituzione, le esigenze investigative e quelle dell’informazione. Una sfida che sta nel ddl intercettazioni licenziato dal Senato e ora all’esame di Montecitorio. Muove da qui l’analisi del costituzionalista Nicolò Zanon, tra i relatori del seminario “Le intercettazioni, la riservatezza e la Costituzione”, promosso dall’associazione “Viene prima l’articolo 15” (nella sala degli Atti parlamentari derl Senato) che si batte per la tutela della dignità della persona che come ha ricordato Gaetano Quagliariello “viene prima delle esigenze dello Stato”.Vi invitiamo a leggere l’intervento del professor Zanon.
“L’espressa previsione del più stringente canone dell’inviolabilità, che la Costituzione riserva soltanto, oltre che alla corrispondenza, alla libertà personale, al domicilio ed al diritto di difesa, non deve apparire ultronea o peggio vuota ridondanza, se soltanto si pensi al fatto che i regimi autoritari hanno utilizzato ed utilizzano la violazione delle comunicazioni interpersonali come uno degli strumenti più efficaci di repressione delle libertà” (G. M. Salerno, La protezione della riservatezza e l’inviolabilità della corrispondenza, in I diritti costituzionali, a cura di R. Nania, e P. Ridola, Torino, 2006, p. 663)
Questa citazione, tra le tante che si potrebbero reperire, aiuta a ricordare che la dottrina costituzionalistica ha in passato riempito biblioteche, riflettendo sul significato dell’aggettivo “inviolabile”, attraverso il quale il costituente, con parsimonia, decise di arricchire l’affermazione di solo quattro fra tutti i diritti fondamentali affermati nella prima parte.
Ed è solo il primo di una serie di paradossi, quello per il quale gli strenui difensori dell’intangibilità della carta fondamentale oggi dimenticano facilmente il tenore testuale dell’art. 15 cost., e le pensose ricostruzioni di tanti costituzionalisti: da quelle che ritenevano che inviolabilità equivalesse a irrivedibilità (il nucleo essenziale del diritto inviolabile non è modificabile nemmeno con le forme della revisione costituzionale) a quelle che ne facevano un “principio supremo”, a sua volta non intaccabile nemmeno con la procedura ex art. 138 cost.
Anche la Corte costituzionale non si è sottratta, in passato, a rilievi similari. Nel 1991, essa sostenne che dalla qualifica di inviolabilità si deduce che il diritto alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni rientra tra i valori supremi costituzionali, risultando strettamente attinente “al nucleo essenziale dei valori di personalità – che inducono a qualificarlo come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana” (Corte cost. 366/1991). Conseguentemente, da un lato il contenuto essenziale del diritto inviolabile, anche ai sensi dell’art. 2 cost., va considerato insuscettibile di revisione costituzionale, “in quanto incorpora un valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente”; dall’altro lato, il contenuto di valore del diritto inviolabile ex art. 15 Cost. “non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti, se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempre che l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse” e nei limiti previsti dallo stesso art. 15 (Corte cost. 366/1991).
Non sostengo che queste tesi siano sicuramente giuste o non criticabili o non presentino aspetti di fragilità teorica. Non è questo il punto. Il punto è che oggi, improvvisamente, tutto questo lavorio intellettuale è apparentemente dimenticato: e in una singolare inversione culturale, è diffusa la convinzione, anche presso intellettuali di pregio, che chi non ha nulla da temere può essere liberamente intercettato, anzi vuole essere intercettato. “Intercettateci tutti” è del resto il tetro slogan che impazza o viene esibito su cupe magliette
Siamo vissuti in un clima culturale, da almeno trent’anni, nel quale è stata agitata una retorica dei diritti: “i diritti presi sul serio”, per trasformare in slogan il titolo di un celeberrimo libro di Ronald Dworkin. Ma ora, appena il legislatore prende sul serio un diritto esplicitamente definito inviolabile, ecco che questo disegno di legge si trasforma in “legge-bavaglio”, o nello strumento per coartare la cd. “libertà d’investigare” o di fare indagini, questo oscuro ossimoro, che trasforma un potere e una funzione pubblica sicuramente imprescindibili per la nostra sicurezza in un singolarissimo diritto fondamentale.
In effetti, ora la riservatezza è scesa, nel comune pensare, dal suo scranno di principio supremo irrivedibile. Ora è un principio tra i tanti, che deve – ça va sans dire – essere bilanciato con altri principi valori di pari (?) rango costituzionale. Bene, accettiamo la logica del ragionamento. Il legislatore deve assicurare un corretto bilanciamento tra diversi valori e diritti. Sono in gioco, insieme, l’inviolabilità della privacy individuale, il diritto di cronaca, le esigenze di sicurezza e repressione dei reati. Sono tutti beni di valore costituzionale fra i quali va dunque trovato un bilanciamento ragionevole.
Lo dice, ahimé, anche la Corte costituzionale del 2009, una Corte che sembra aver dimenticato le sue precedenti, e nette, affermazioni del 1991. Nella sentenza n. 173 del 2009, cupo precedente che fa presagire la possibile sorte di un disegno di legge come quello ora in discussione (se approvato e se finirà davanti alla Consulta), lo scenario cambia radicalmente, rispetto alle ricche affermazioni di principio di quasi vent’anni prima.
La Corte si occupò, con questa nuova sentenza, del d.l. 22 settembre 2006 n. 259 (convertito nella legge 281 del 2006), che conteneva il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche, modificando l’art. 240 del codice di procedura penale.
Il legislatore si occupava qui del trattamento processuale di atti relativi ad intercettazioni illegali, in specie effettuate da organizzazioni investigative private. La normativa fu approvata per porre rimedio ad un dilagante e preoccupante fenomeno di violazione della riservatezza, che derivava – e deriva tuttora – dalla incontrollata diffusione mediatica di dati e informazioni personali, sia provenienti da attività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate, sia – fatto ben più grave, che riguardava direttamente il caso portato all’attenzione della Corte – effettuate al di fuori dell’esercizio di ogni legittimo potere da pubblici ufficiali o da privati mossi da finalità diverse, che comunque non giustificavano e non giustificano l’intrusione nella vita privata delle persone.
La preoccupazione del legislatore – riconosceva la Corte – era stata quella di evitare che la doverosa osservanza delle norme che impongono la pubblicità degli atti del processo potesse risolversi in un ulteriore danno per le vittime delle illecite interferenze, le quali, oltre ad aver subito indebite intrusioni nella propria sfera personale, sarebbero rimaste esposte, per un lungo periodo, al rischio che il frutto dell’attività illegale di informazione e intercettazione potesse diventare strumento di campagne diffamatorie e delegittimanti nei loro riguardi. Il pericolo appariva aumentato, agli occhi della Corte, per la constatazione, di comune esperienza, che non è garantita, nelle condizioni normative e organizzative attuali, un’adeguata tenuta della segretezza degli atti custoditi negli uffici giudiziari, come purtroppo dimostrano le frequenti “fughe” di notizie e documenti.
L’intento di prevenire tali possibili abusi aveva dunque indotto il legislatore ad introdurre una disciplina derogatoria rispetto alla normativa ordinaria sulla conservazione del corpo di reato: i documenti, i supporti e gli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni e comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati e acquisiti, dovevano essere distrutti, per disposizione del giudice per le indagini preliminari, al più presto possibile, nell’ambito di un procedimento incidentale molto rapido, che doveva precedere la chiusura delle indagini preliminari.
Su questa scelta legislativa si appuntarono dubbi di costituzionalità, prontamente rilevati in un giudizio penale relativo al cd. “dossier Telecom”. Rilevò infatti il giudice del processo, spedendo gli atti alla Consulta, che con questa sommaria procedura, derogatoria delle normali regole procedurali venivano lese le esigenze del contraddittorio pieno e del diritto alla difesa.
Ci si sarebbe attesi, ricordando le affermazioni del 1991, una declaratoria di secco rigetto. E invece no: “ritiene questa Corte che la finalità di assicurare il diritto inviolabile alla riservatezza della corrispondenza e di ogni altro mezzo di comunicazione, tutelato dagli artt. 2 e 15 Cost., cui deve aggiungersi uguale diritto fondamentale riguardante la vita privata dei cittadini nei suoi molteplici aspetti, non giustifichi una eccessiva compressione dei diritti di difesa e di azione e del principio del giusto processo. La limitazione in eccesso deriva dall’aver delineato il procedimento incidentale, volto alla distruzione del materiale sequestrato di cui sopra, secondo il modello processuale di cui all’art. 127 cod. proc. pen., nella parte in cui configura un contraddittorio solo eventuale. Peraltro lo stesso comma 5 dell’art. 240 cod. proc. pen. fa riferimento all’obbligo per il giudice di sentire solo le parti ‘comparse’ e rende in tal modo incontrovertibile il carattere tendenzialmente sommario della procedura. A ciò si deve aggiungere che il provvedimento con cui il giudice ordina la distruzione del corpo di reato (a prescindere dalla sua discussa impugnabilità) determina, in forza dell’immediata esecuzione materiale, la conseguenza che qualunque violazione dei diritti delle parti, derivante dall’imperfezione del contraddittorio, diviene irreparabile”.
Ecco: intanto, si immagini il destino delle norme del disegno di legge sulle “intercettazioni” legali, ora in discussione, di fronte a una Corte che ragiona così in tema di intercettazioni acquisite illegalmente. E sia consentito aggiungere che, di fronte ad un ragionamento del genere, il costituzionalista ingenuo sente nostalgia di una Corte suprema all’americana, che di una questione del genere avrebbe fatto un sol boccone, in nome della difesa della privacy. Perché la questione è proprio culturale, prima ancora che giuridico-formale. Io criticherei questa pronuncia, non perché la Corte è composta in un certo modo, perché “è in maggioranza orientata a sinistra”, ma proprio da un punto di vista culturale: da una Corte dei diritti, che tutela i diritti inviolabili, doveva scaturire una pronuncia diversa. Era lecito aspettarsi cioè che la nostra Corte dicesse che è corretto costituzionalmente che i materiali acquisiti tramite intercettazioni illegali siano distrutti con procedura rapida, derogatoria rispetto alle normali regole. Invece così non è stato. Tant’è, bisogna tenerne conto e provare a prevedere quel che potrà accadere se le norme di cui stiamo discutendo diventassero legge, dando per scontato che alla prima occasione utile, una veloce ordinanza di rimessione le invierebbe di fronte a una Corte costituzionale che ragiona nel modo che si è visto. Anche alla luce della circostanza che, lo ripeto, nella sentenza del 2009, erano in questione intercettazioni acquisite illegalmente, mentre nel caso presente, si tratterebbe di intercettazioni del tutto legali…
Quel precedente rende insomma evidente che del famoso “bilanciamento” ci si deve pre-occupare, nel senso di preoccuparsene “prima” di licenziare la legge. Non è quindi inutile verificare se alcune scelte abbiano o meno possibilità di una tenuta costituzionale, nel giudizio di fronte alla Corte. Mi concentrerei qui sul bilanciamento operato dal disegno di legge tra diritto di cronaca e diritto alla riservatezza. Sul punto è utile, come termine di paragone, la recente Relazione del garante della privacy Pizzetti, che non rinuncia a dire la sua su alcune scelte del ddl. Checché se ne dica, la relazione del garante è equilibrata, e non è arruolabile sotto le insegne dei resistenti contro la “legge bavaglio”. Ma sottolinea un dato che è qui importante, ripercorriamo la parte centrale del ragionamento.
La Relazione sottolinea che nel ddl si stabiliscono specifici limiti alla diffusione di dati giudiziari, in ragione del tipo di mezzo di indagine col quale tali dati sono stati raccolti. E’ il caso che ricorre dove si pongono limiti specifici alla pubblicabilità delle intercettazioni, non perché contenute in atti giudiziari, che come tali possono essere diffusi per riassunto, ma in quanto dati raccolti con lo strumento delle intercettazioni. E’, in altre parole, il caso delle norme contenute nell’articolo 1 comma 5, del disegno di legge, ove si stabilisce che non può darsi notizia, nemmeno per riassunto, di atti o documentazione relativi a intercettazioni, fino alla conclusione delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare, anche se si tratta di atti non più coperti dal segreto. E dove si stabilisce, inoltre, che non si può dare notizia, neanche per riassunto, di richieste di misure cautelari o dell’emissione di provvedimenti cautelari prima che ne abbia avuto conoscenza la persona interessata. Anche in quest’ultimo caso, però, la norma prevede che non possono essere pubblicate le parti di queste ordinanze che riproducano le intercettazioni.
Ora, rispetto a ciò che è sottolineato dal Garante, rileverei intanto che non si può ragionare di preclusione totale del diritto di cronaca giudiziaria, posto che le limitazioni operano solo fino ad un dato momento. Certo è però che, nel caso in cui l’ordinanza del giudice si fondi esclusivamente sul contenuto di intercettazioni, la questione del corretto bilanciamento tra diritto alla riservatezza e diritto di cronaca si pone. Il Garante sostiene che in tal modo ci si riferirebbe non alla tutela in concreto e rispetto a casi specifici del diritto alla riservatezza, ma piuttosto a una difesa anticipata, disposta in via generale e astratta, nei confronti di qualunque dato raccolto, sul presupposto che, in ragione della natura dello strumento di indagine usato, debba sempre prevalere la tutela di questi dati, perché raccolti nell’ambito di conversazioni fra persone. Il Garante evidenzia come in tal modo si sposti oggettivamente il punto di equilibrio tra libertà di stampa e tutela della riservatezza, tutto a favore della riservatezza.
Si tratterebbe quindi di una scelta impegnativa che, proprio perché effettuata in via generale e astratta, prescinde dal contenuto dei dati raccolti, e che perciò sposterebbe il cursore tutto a favore dei limiti alla conoscibilità e quindi della riservatezza. “Questo può giustificare – secondo il Garante – che da alcuni si affermi che in tal modo si pone in pericolo la libertà di stampa”. Ma è una preoccupazione che lo stesso Garante riconosce presentare degli eccessi, giacché questa scelta non incide su qualunque altro ambito di esercizio della libertà di stampa e, anche rispetto alle attività giudiziarie, riguarda solo la pubblicazione dei testi delle intercettazioni, essendo gli altri aspetti contenuti negli altri provvedimenti conoscibili per riassunto. Ora, come dicevo, con questa preoccupazione ci si deve confrontare, anche in vista della tenuta in sede giudiziaria delle norme previste dal ddl, dando appunto per scontato che esse, se approvate, sarebbero quanto prima sottoposte al vaglio di costituzionalità.
Intanto, senza polemica, ma per dibatterne: che il cursore si sposti di più verso la privacy forse non è uno scandalo, alla luce dell’art. 15 cost., e tale non dovrebbe essere proprio per il garante della privacy. Ma è comunque giusto accettare il terreno di ragionamento. E la domanda diventa: è un bilanciamento sbilanciato e irragionevole quello che, in via generale e astratta, prescindendo dai contenuti, impedisce che vengano pubblicati i testi delle intercettazioni, proprio in quanto raccolti, s’intende legalmente, con tale strumento d’indagine?
Ora, da una parte, si potrebbe osservare che proprio questo significa prendere sul serio la libertà di comunicare riservatamente, mettendo in pratica il principio dei “diritti presi sul serio”. Le comunicazioni riservate sono comunque oggetto d’indagine e valutazione in sede giudiziaria, quindi il potere d’indagine non è intaccato. Viene semmai limitata la possibilità di diffonderne sui media il contenuto. Ma, dall’altra parte, c’è anche un’ulteriore questione: quando questi testi d’intercettazione non sono più coperti dal segreto istruttorio, questo vuol dire che essi siano per ciò solo ostensibili alla generalità dei cittadini, tramite diffusione sui media? In altre parole: quel che è “pubblico” per le parti del processo, deve per ciò solo essere pubblico per tutti, per la pubblica opinione, ed è pubblicabile sui giornali?
La posizione cui il Garante dà voce, ma che è di tanti, credo si possa tradurre così: dipende dal caso concreto, si deve poter distinguere situazione da situazione, vi possono essere elementi di interesse pubblico che non giustificano questa parziale limitazione del diritto di cronaca o del diritto ad essere informati. Forse su questo punto si potrebbe lavorare. C’è infatti una copiosa giurisprudenza sul diritto di cronaca, che deve essere esercitato secondo criteri rigorosi: la continenza, la veridicità, la proporzionalità, ecc. Spetta al giornalista non pubblicare tutto indistintamente, ma operare una selezione. Il problema molto serio è se questo dovere, direi deontologico, del giornalista possa davvero essere tradotto in regole giuridicamente significative, perché, se ci si pone in quest’ottica, inevitabilmente si dovrebbe consegnare al giornalista la scelta discrezionale di cosa e come pubblicare, quanto ai testi delle intercettazioni. E temo che si sarebbe punto e a capo.
Qui, insomma, la tutela “generale e astratta” del diritto alla riservatezza forse non è irragionevole, e sottolineerei che – in termini di giustizia costituzionale – o si dimostra la manifesta irragionevolezza di tale scelta, oppure nessuno, nemmeno la Corte costituzionale, dovrebbe poter sostituire il proprio bilanciamento a quello realizzato dal legislatore democraticamente legittimato. Inoltre: il divieto di pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche se non più coperti dal segreto, non è temporalmente assoluto, ma dura fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.
Chiediamoci a questo proposito: c’è un diritto del pubblico a “sapere” prima di quei momenti, un diritto che sarebbe perciò incostituzionale limitare? Si badi, però: la domanda, posta così, è suggestiva, ed è difficile rispondere di no. Essa andrebbe riformulata in termini più precisi: esiste un diritto a conoscere prima – non già la vicenda giudiziaria in sé, che è conoscibile e della quale si può scrivere e pubblicare – ma proprio i testi di quelle conversazioni, raccolti tramite intercettazioni, considerando il tenore dell’art. 15 cost.? Se si riformula la domanda così, forse la risposta negativa appare meno irragionevole, perché parrebbe non assurdo che nessun diritto di cronaca, nessuna curiosità pubblica, possa qui prevalere sulla tutela della riservatezza, in una vicenda processuale che, si badi, ancora deve dire la sua parola definitiva, anche tenendo conto del principio costituzionale della presunzione d’innocenza (ammesso che la si prenda ancora sul serio…).
In definitiva, il bilanciamento così operato tra riservatezza e diritto di cronaca non è poi così irragionevole. Detto in termini non giuridico-formali: la circostanza che, in attesa della sentenza, si eviti la crocifissione pubblica del singolo individuo, specificamente a causa delle sue conversazioni private, potrebbe far parte del grado di civiltà liberale di un paese. Ma che questo bilanciamento sia ragionevole lo posso pensare io. Non credo lo penserebbe una Corte costituzionale che ragiona nel modo che si è prima visto a proposito delle intercettazioni illegali.
Temo molto che il problema sia culturale prima ancora che giuridico, perché ci siamo abituati troppo – o meglio: qualcuno ci ha abituato troppo – a guardare le vicende altrui dal buco della serratura, spacciando tutto questo per libertà di stampa.