Del Mezzogiorno, in una settimana si è occupata Confindustria nel convegno nazionale di venerdì scorso a Bari, e la CEI, con una nota molto preoccupata emessa dai vescovi italiani. Effettivamente, sul tema ormai si sente poco di organico, a parte inchieste e denunce sdegnate sulle reti criminali e la loro presa, e vicende come quella di Termini Imerese-Fiat. Ne approfitto allora per saggiare il polso ai nostri lettori, e verificare come la pensano e se condividano alcune proposte di discontinuità un po’ violenta, le sole che secondo me possono – forse e dico “forse” – interrompere la tendenza che dal 2002 in avanti vede riaprirsi il gap tra Nord e Sud. Ricordo a tutti che quest’ultimo produce oggi il 23,8% del Pil nazionale, esattamente come 60 anni fa.
Sui nodi delle risorse e delle infrastrutture, qualche riflessione iniziale su ciò che resta da spendere del quadro comunitario. Siamo giunti infatti a metà del quadro di programmazione delle risorse comunitarie e nazionali 2007-2013, ma non abbiamo ancora imparato la lezione del fallimento recente e precedente delle politiche di coesione. Dei 100 miliardi di euro che dovevano costituire la somma complessiva a disposizione entro il 2013, tra 47 in fondi strutturali europei e cofinanziamento nazionale, e 53 relativi al Fondo Aree Sottoutilizzate, quest’ultimo è stato prima ridotto di 13,6 miliardi di euro della disponibilità complessiva, più di altri 13 miliardi sono stati destinati ad altri scopi, il residuo è concentrato in tre fondi, ma forte è stato lo scontro tra governo e Regioni con conseguente lungo rinvio dell’approvazione dei programmi regionali. Alla fine del 2009, i fondi strutturali risultavano assegnati a progetti per circa il 40% del totale: ma le spese certificate ammontano solo al 6% del totale. Il 6%, non è un errore di battitura.
La capacità di selezione dei progetti continua a mancare. Sono troppi, frammentari incoerenti, senza vere priorità. Dispersi sul territorio, non individuano poli di sviluppo. Su 62 cosiddetti Grandi Progetti di valore superiore a 50 milioni di euro, di cui 56 nel Sud, alla fine del 2009 solo 4 erano approvati dalla Commissione Europea. Quattro. Le spese per i trasporti restano insufficienti se confrontate con gli altri Paesi UE (rispetto ad una previsione media europea del 22%, nei programmi regionali del Mezzogiorno la spesa media prevista per infrastrutture di trasporto è di circa il 16%) così come rimane ampia la frammentazione dei sostegni alle imprese, soprattutto se confrontati con le enormi necessità di innovazione e di riconversione produttiva imposte dalla crisi.
Ritardi e difficoltà di realizzazione delle opere restano ampi. Occorrono oggi circa 12 anni e mezzo nel Sud per realizzare un’infrastruttura di importo superiore a 100 milioni di euro, più di 10 anni tra i 50 e 100 milioni di euro, più di 7 anni per i progetti tra 5 e 10 milioni di euro. Tutti tempi incompatibili con i sei anni di programmazione comunitaria. Di qui le opere che si cominciano e poi si sospendono.
Confindustria propone di istituire un Osservatorio centrale sui fondi strutturali, per riaccentrare su poche priorità la grande maggioranza di fondi non assegnati, il 60% ancora dei 47 miliardi dei fondi strutturali europei. Per infrastrutture maggiori e trasporto, dal convegno di Bari ha proposto una selezione massima di tre opere per ognuna delle otto Regioni meridionali e di sei opere interregionali condivise. La lista confindustriale prevede interventi sulla viabilità, come la Termoli-San Vittore e l’autostrada Siracusa-Gela; sull’intermodalità, come l’hub di Gioia Tauro e il porto di Bari; sui collegamenti ferroviari, come il potenziamento della Battipaglia-Potenza-Metaponto. Tra le priorità interregionali, il completamento della Salerno-Reggio Calabria, l’alta capacità Napoli-Bari, le statali 106 Jonica e la Sassari-Olbia.
Può andare. Ma secondo sono proposte di manutenzione. Non di discontinuità. Penso maturo il tempo per fare altro. L’esperienza ci ha insegnato che la politica nazionale e quella delle Regioni – proprio ora che gli italiani si accingono a votare in molte di esse – parla molto ma fa poco, quando si tratta di porre riparo alla conflittualità endemica di competenza e coordinamenti, alla scarsa capacità tecnica di selezione, alla tendenza alla dispersione a pioggia delle risorse in progettini e progettucoli di chiaro sapore elettoralistico.
Credo sia allora venuto il momento di una proposta più coraggiosa. Se vogliamo far tesoro dei fallimenti, non basta pensare all’ordinaria manutenzione amministrativa. Occorre una svolta strutturale. Dei 343 miliardi di euro pubblici a valori attuali destinati al Sud in 60 anni secondo l’ultimo rapporto SVIMEZ, circa 115 sono stati destinati in sussidi, agevolazioni e incentivi alle imprese. Fuori dal conto restano poi le molte decine di miliardi di euro andate alle imprese dell’Iri e pubbliche. Senonché, sempre lo SVIMEZ calcola che , ancora negli anni 2000-08, il 70% di questi incentivi pubblici alle imprese sia stato in conto capitale, cioè a fondo perduto. E recensendo le ben1307 – 1307! – forme di incentivo e agevolazioni alle imprese oggi presenti nel Sud – 91 nazionali, e 1216 regionali, dico 1216 ! – lo SVIMEZ rileva che l’83% dei fondi – ma ancora di più, ben l’89% di quelli nazionali, i più rilevanti – viene attribuito in forma discrezionale, su valutazione della politica e dell’amministrazione, non automatica.
Quanto poi alle agevolazioni in forma di credito d’imposta e sviluppo, cioè l’incentivo a maggior moltiplicatore in termini di innovazioni per accrescere tecnologicamente il valore aggiunto, sui circa 650 milioni concessi nel 2008 solo il 6% veniva da richieste di imprese meridionali.
Recentemente, il governatore della Banca d’Italia ha espresso un giudizio netto su questi meccanismi di aiuti.«Le nostre analisi mostrano che i sussidi alle imprese sono stati generalmente inefficaci: si incentivano spesso investimenti che sarebbero stati effettuati comunque, si introducono distorsioni di varia natura penalizzando frequentemente imprenditori più capaci. Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive».
Bisogna cambiare radicalmente prospettiva.
Se vogliamo davvero che il Sud aiuti il Sud , dobbiamo puntare a che si rafforzi l’imprenditorialità vera, non al moltiplicarsi di iniziative mordi-e-fuggi per incamerare qualche sussidio e chiudere poi rapidamente porte e capannoni. Ma se assumiamo tale prospettiva, allora non abbiamo bisogno di contributi in conto capitale non finalizzati a progetti, ma di interventi in conto interessi e in conto garanzie, che non azzerino artificialmente all’inizio il rischio dell’imprenditore. Non abbiamo bisogno di sussidi discrezionali, ma di incentivi automatici. Non abbiamo bisogno di una politica che creda di saper lei individuare e valutare settori e lavorazioni, meglio di quanto sappiano fare imprenditori veri che ragionano sul mercato, suoi costi e sulle sue esternalità.
La politica, in altre parole, dovrebbe capovolgere lo schema sin qui seguito.
Se intende lasciare il più possibile delle risorse nelle mani di imprenditori sani e veri, senza mediazioni e patronaggi, al contempo tenendo sempre a mente il vincolo di finanza pubblica, allora dovrebbe considerare seriamente e una proposta che ha quasi del rivoluzionario, nella storia italiana. Una vera NO TAX AREA per il Sud.
Il gettito IRES dalle imprese meridionali era di circa 4 miliardi di euro, nel 2008. La media dei sussidi alle imprese meridionali, nell’ultimo decennio, è superiore allo stesso importo, è circa pari allo 0,6% del Pil nazionale ogni anno. Ma, sul totale, i sussidi discrezionali a fondo perduto, che sono quasi il 90% del totale, superano ampiamente i 4 bn di gettito IRES dal Sud. Annullare le due poste non crea deficit aggiuntivo, come si vede.
So bene che è una proposta di rottura. Ma come è possibile, che la discontinuità verso 150 anni di fallimento possa venire se non da una novità forte e straordinaria? So bene che è una proposta che va trattata a Bruxelles. Ma su questo ci sono state decisioni comunitarie negli ultimi anni, come la sentenza della Corte di Giustizia sul prelievo differenziato nelle Azzorre, che possono venirci in soccorso. Certo, sarà magari un negoziato duro. Ma per il Sud il governo italiano potrebbe e dovrebbe puntare i piedi. Il fisco per lo sviluppo non passa solo per la – risibile, dal mio punto di vista iperminoritario di questi tempi – lotta ai paradisi fiscali, ma anche per assicurare alla parte meno sviluppata dell’Italia qualcosa di analogo a ciò che ha comportato il meno fisco per l’Irlanda.
Non è un decisione da prendere a cuor leggero, mentre il federalismo fiscale deve entrare – ci entrerà mai sul serio? non ho risposte – nel suo momento attuativo e mentre l’Europa è attraversata dai fremiti della crisi di debiti sovrani come quello di Grecia, Portogallo e Spagna. Si può studiare un periodo di attuazione a tempo, magari di sei anni in maniera da renderlo coerente alla programmazione comunitaria. Sarebbe giusto limitare l’esenzione IRES alle imprese produttive, escludendo la finanza. Ma il netto per i conti pubblici sarebbe eguale. Alle imprese vere arriverebbe un aiuto in modo diverso, abbattendo ogni intermediazione politica e amministrativa, tagliando alla radice ogni fenomeno di contiguità tra partiti e imprese, capicorrente e associazioni d’interesse, accettando che a camminare meglio sulle proprie gambe siano innanzitutto quelli che hanno gambe e testa buona.
La vera remora che ho, personalmente, è quella che in questo modo si innesterebbe in Italia un ulteriore distorsione nell’utilizzo dei capitali. Non nascondo affatto che molti dei miei amici che studiano e insegnano negli USA storcono la bocca, alla proposta – è la stessa sostenuta nel libro di Francesco Delzio “La scossa”, di cui ho parlato in trasmissione due settimane fa – in quanto il problema in Italia è di abbassare le tasse in generale, senza distorcere la convenienza agli investimenti con logiche comunque “a tempo” che incoraggiano moral hazard e free riding. Verissimo. Ma intanto da noi la prospettiva di abbassare le tasse non c’è, nel prossimo futuro. Il centrodestra sembra averci messo una pietra sopra, il centrosinistra figuriamoci. Perché dovremmo allora scartare a priori la NO TAX AREA almeno per il Sud? Dopo tutti i denari pubblici che abbiamo sprecato? Dopo tutti gli investimenti esteri che non abbiamo saputo attrarre? Ricordo a tutti che nel 2008 solo il 6% del totale degli investimenti in Italia veniva dall’estero, contro il 15% della Francia e il 33% del Regno Unito. E del nostro 6% di IDE, solo lo 0,6% era posizionato a Sud.
Non mi nascondo che è difficile innanzitutto per le imprese, proporre il taglio dei contributi a fondo perduto. Ancor più improbabile è che sia la politica, a rinunciare alla sua discrezionalità e ala sua illusione dirigista, che nel nostro Paese significa solo assistenzialismo e clientelismo. Ma chi la pensa come noi non deve smontarsi, di fronte agli ostacoli della realtà. Tacere e non proporre nulla, significa solo rendere il gioco più facile a a statalisti e assistiti.
Una proposta al sindacato
Mi si dirà che, di fronte questa proposta avvenirista, proprio mentre il ruolo dello Stato cresce in tutta Europa e in tutto l’Ocse di fronte ai colpi della crisi, l’emergenza vera è un’altra. A cominciare dai problemi di Termini Imerese. Della crisi del maggior porto di transhipment italiano di fronte al calo dei container, Gioia Tauro. E via continuando, con le tanti crisi produttive aperte nel Mezzogiorno, che rischiano di aggravare da subito l’emergenza lavoro.
Ma purtroppo non possiamo stupirci di queste crisi. E’ il mancato rilancio del Sud, la sua minor produttività, i suoi maggiori costi logistici e di trasporto, l’inadeguatezza del suo capitale umano, l’esiguità del suo capitale sociale oltre al peso dell’economia criminale, ciò che induce anche grandi imprese a dover rivedere i propri progetti. E’ illusorio credere di dare risposta ai problemi della necessità di ristrutturazioni produttive anche pesanti, mettendo mano al portafoglio pubblico per indurre le aziende a restare come sono e dove sono. Se non hanno più mercato, o registrano costi fuori mercato, significa solo continuare nel falò di risorse pubbliche e posti di lavoro improduttivi.
Le aziende devono essere lasciate libere di ristrutturarsi e ridefinirsi, se vogliamo che siano in condizioni di rispondere al meglio alle mutate condizioni dei mercati, dopo la crisi. Ma questo non significa affatto disinteressarsi dei lavoratori. Per questo affianco alla NO TAX AREA due altre proposte.
La prima è al governo. E’ venuto il momento di pensare non più solo all’estensione in deroga degli ammortizzatori sociali esistenti. E’ stato utile e giusto procedere così, per un anno e mezzo. Ma ora serve altro. Occorre aprire il tavolo, tra governo, sindacati e noi imprese, per una riforma degli ammortizzatori che una volta per tutte superi la vecchia concezione. Non servono più ammortizzatori tesi a difendere l’occupazione dov’era e com’era. Sono figli di una concezione statica del lavoro, delle imprese e della domanda interna e internazionale. Servono ammortizzatori che tutelino il lavoratore nel mercato del lavoro, lasciando libere le aziende di ristrutturarsi, e accompagnando il lavoratore alla formazione continua e al reimpiego. Altrimenti, la ripresa del commercio mondiale sarà soprattutto a beneficio di quei Paesi che hanno questa maggior flessibilità, e in questi mesi stanno registrando, a differenza di noi, grandi recuperi di produttività proprio con la ristrutturazione delle aziende in crisi.
La seconda proposta è al sindacato. A tutti i sindacati. Anche alla Cgil, che non ha firmato un anno fa il nuovo modello contrattuale. In quell’intesa, c’è una via che può offrire più futuro ai lavoratori di ogni cieca contrapposizione antagonistica, a Termini Imprese e Gioia Tauro, come in moltissime aree depresse del Sud. Non solo è stato introdotto il salario di produttività, che purtroppo solo il 6% delle imprese meridionali sperimenta. Con la nuova intesa si è anche previsto che in casi locali e particolari di straordinaria difficoltà, imprese e sindacati possano di concerto trattare e definire deroghe non solo alla parte salariale, ma anche alla parte normativa nazionale del contratto.
E’ proprio questa, la strada che occorre sperimentare nel Sud. Non sarebbero nuove gabbie salariali estese a tutto il Sud. ma un’offerta articolata e contrattata territorialmente che offra a imprese in difficoltà e a settori spiazzati, o a imprese straniere che vogliano investire in Italia assicurando un futuro a insediamenti produttivi e all’indotto, qualcosa di simile alla prova di lungimiranza offerta anni fa in Germania con accordi in deroga rispetto a quelli nazionali, su salario e normativa, come alla Volskwagen. Sindacato e impresa derogarono di comune accordo accettando anche lo scambio tra salario e occupazione, non solo sugli orari. Volskwagen si avvia oggi a candidarsi a superare persino la Toyota, come prima impresa automobilistica al mondo. E’ del tutto impensabile, immaginare che anche da noi si possa fare qualcosa di analogo al Sud?