Il concetto di cittadinanza, con cui noi oggi ci confrontiamo, nasce con l’idea di Stato nazione. La cittadinanza è espressione dell’identità nazionale, dei valori che esprime una nazione. Nello stesso tempo, la cittadinanza è strumento di definizione di tale identità, perché individua chi fa parte del popolo di uno Stato. Ed è al popolo che, negli stati democratici, appartiene la sovranità, così come è detto espressamente nell’articolo 1 della nostra Costituzione. Divenire cittadini significa quindi divenire partecipi del potere di contribuire a determinare decisioni rilevanti per l’intera comunità nazionale.
Le regole per l’attribuzione della cittadinanza variano da Stato a Stato, in relazione ai valori fondanti l’identità nazionale. Storicamente, esse non rispondono ad astratte teorie giuridiche sull’universalità dei diritti, ma ad esigenze politiche, a visioni ideologiche e culturali che possono variare nel tempo. In definitiva, esse rispondono ad interessi concreti degli Stati.
Lo jus sanguinis si afferma nell’ ambito continentale parallelamente all’ emergere e al consolidarsi delle monarchie nazionali. Esso fa risaltare il vincolo derivante dall’ appartenenza alla stessa comunità etnica e la sua applicazione prevalente rispetto agli altri criteri tende a preservare dall’ immissione nella comunità nazionale degli immigrati, anche di quelli stabilmente residenti nel territorio dello Stato.
Lo jus soli, basato sulla nascita all’ interno del territorio statale indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori, è proprio, quantomeno all’ origine, dell’ ordinamento inglese e derivatamente di quello statunitense ed esalta il rapporto dell’ individuo con l’ autorità sovrana sul territorio. Esso è stato utilizzato da Stati di formazione più recente e scarsamente popolati per radicare gli immigrati.
Esigenze in parte analoghe sono quelle dei paesi che si trovano a fronteggiare deficit demografici e che hanno scarsità di addetti nel loro sistema economico per cui tendono ad attirare un’ immigrazione stabile. In tal caso, oltre all’ applicazione dello jus soli, rapide procedure di naturalizzazione assolvono la funzione di inserire nuova linfa nella comunità nazionale.
Le regole di attribuzione della cittadinanza non sono mai applicate in maniera esclusiva, ma variamente combinate. La prevalenza dell’ una o dell’ altra viene però a definire la concezione della cittadinanza: etnica o elettiva. La prima lega l’ attribuzione della cittadinanza all’ appartenenza alla medesima etnia o comunità di razza, nella visione secondo cui gli individui non sono che il prodotto della nazione. La seconda, sulla base del presupposto che la nazione non esiste se non per l’ adesione dei suoi membri, esalta il momento volontaristico, di accettazione del contratto sociale connesso allo status di cittadino.
Lo status di cittadino comporta l’attribuzione di diritti e doveri. Oggi si tende a porre l’accento sui primi e trascurare i secondi, ma non può dimenticarsi che, dal punto di vista storico, sono i doveri che hanno contribuito più dei diritti a caratterizzare la cittadinanza nazionale. E’ sufficiente pensare al dovere di difesa della patria. Nella rivoluzione francese la figura del cittadino, a seguito dell’introduzione della leva generalizzata, nasce come cittadino in armi, cittadino combattente.
Il contenuto dei diritti e dei doveri del cittadino ha subito con il tempo un’evoluzione. Oggi molti diritti, sulla base delle carte e delle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo e di interpretazioni evolutive delle corti costituzionali, vengono attribuiti anche ai non cittadini e può dirsi che il nucleo incomprimibile della cittadinanza si riduce al diritto di residenza, cioè al diritto di attraversare liberamente i confini dello Stato, e ai diritti di partecipazione politica.
Il mutare dei tempi ha influito anche sull’aspetto dei doveri. Ad esempio, il diffondersi della leva professionale ha fatto – come dire – perdere la sensibilità sul dovere di difesa della patria. Esso tuttavia, indipendentemente dall’esserci o meno una coscrizione obbligatoria o un esercito professionale, rimane comunque un elemento caratterizzante lo status del cittadino, quasi un prolungamento del più generale dovere di fedeltà.
L’erosione dei contenuti propri della cittadinanza e la svalutazione dell’importanza dell’istituto si è sviluppata con il diffondersi delle teorie sulla fine dello Stato nazione. Il filosofo tedesco Habermas è stato uno dei pensatori che ha sostenuto quest’idea, giungendo ad evocare l’idea di cittadinanza cosmopolita. Si è venuta così ad identificare la cittadinanza come uno statuto dei diritti svincolato da qualsiasi obbligo nei confronti di una determinata comunità politica, di una determinata comunità nazionale: una cittadinanza senza civismo. Si è di fronte, in un certo senso, alla negazione del concetto di cittadinanza, inteso come partecipazione ad un destino comune, così come teorizzato da Thomas H. Marshall e da Raymond Aron nella seconda metà del Novecento. Una visione che trova la sua conferma in due decisioni della Corte costituzionale tedesca del 1990.
La giustificazione teorico-giuridica dell’erosione del concetto di cittadinanza poggia oggi sulle carte internazionali dei diritti dell’uomo. Mi ha molto colpito la relazione introduttiva (testo non definitivo) del professor Onida al convegno dell’Associazione italiana dei costituzionalisti che ha avuto come tema “Lo statuto costituzionale del non cittadino”. Egli è partito dall’esame della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in cui sono affermate la libertà di emigrazione e il diritto ad avere una cittadinanza e a mutarla. Questi diritti, a mio modesto giudizio, sono affermati in quei documenti internazionali come libertà rispetto al paese di origine dell’individuo. Penso in particolare a quei regimi autoritari che non consentono la libertà di lasciare il territorio nazionale o non consentono la libertà di mutare la cittadinanza di origine. Il professor Onida, invece, individua in essi dei limiti alla discrezionalità dello Stato democratico che ospita il migrante nel determinare le proprie decisioni legislative in tema di immigrazione e di cittadinanza.
Leggo due passi della citata relazione per far capire meglio.
Per quanto riguarda la libertà di emigrazione, si ammette che essa non può significare “libertà di immigrare in un altro qualunque Stato. Ogni Stato mantiene ancora il controllo pieno del proprio territorio e dei suoi confini esterni”. Si aggiunge però che “la libertà di emigrazione in tanto si può concretamente esercitare in quanto vi siano altri Stati che consentano l’emigrazione”. E ciò costituisce, nell’attuale situazione di grandi flussi migratori, una sorta di limite al potere dello Stato di fissare regole in materia.
Per quanto riguarda l’acquisto della cittadinanza del paese che ospita l’immigrato, si dice:“E’ da sottolineare del resto che la Dichiarazione universale non si limita a proclamare il diritto di ogni individuo ad avere una cittadinanza, ma afferma anche quello, non limitabile arbitrariamente, di mutare cittadinanza, e dunque di passare, essendovi le condizioni, dallo “statuto” di straniero a quello di cittadino. Benché per questo aspetto la Dichiarazione non sia stata ancora tradotta in norme pattizie, essa esprime una linea direttiva, che le legislazioni nazionali, e dunque anche la legge italiana, non possono ignorare.”
Mi pare una forzatura della prospettiva con la quale questi diritti sono sanciti nelle Carte internazionale, nel tentativo di individuare una base giuridica al diritto ad entrare nel territorio di uno Stato e ad ottenerne la cittadinanza.
Nell’ impostazione del professor Onida, vi è parallelamente la svalutazione dei doveri del cittadino. Si afferma infatti che “Il dovere di fedeltà, in un sistema fondato sulla libertà di opinione, tende a ridursi a contenuti minimi”. Il diritto democratico al pluralismo delle opinioni viene così utilizzato per minare uno dei cardini del rapporto che lega il cittadino allo Stato.
Il coronamento di questa impostazione è un’assimilazione tra popolo e popolazione, per cui è democratico solo lo Stato che riconosce i diritti politici non solo ai cittadini, ma anche a tutti coloro che regolarmente risiedono sul suo territorio. Anche questa mi pare una costruzione che non ha alcun fondamento, visto l’articolo 1 della Costituzione italiana per il quale la sovranità appartiene al popolo, il quale la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione. E il popolo è la comunità dei cittadini, non dei residenti.
Sotto questo aspetto la legge sulla cittadinanza, che pure è una legge ordinaria, è una legge che possiamo definire materialmente costituzionale, perché – come dicevo prima – definisce in concreto chi è il detentore della sovranità.
Per quanto riguarda, poi, le proposte di legge di modifica della legge sulla cittadinanza, vorrei fare una notazione preliminare. Oggi si parla tanto della proposta di legge Granata-Sarubbi, ma in realtà non c’è nulla di originale in questa proposta. Essa è la riproduzione del testo approvato in sede referente dalla Commissione affari costituzionali della camera dei deputati nella scorsa legislatura, che, a sua volta riprendeva nelle grandi linee il testo del disegno di legge del Ministro dell’Interno, Giuliano Amato. Quello che vi è di significativo nella proposta Granata-Sarubbi sta nel fatto che alcuni esponenti, del centrodestra, hanno aderito all’impostazione che era stata portata avanti dal centrosinistra nella scorsa legislatura.
Ciò che, a suo tempo, mi aveva colpito nel disegno di legge Amato e nel testo della Commissione Affari costituzionali della Camera della scorsa legislatura, e che è presente oggi nelle proposte in esame, non sono le soluzioni su singoli aspetti specifici, sui quali forse si può discutere, ma è la combinazione delle innovazioni.
Mi limito a fare qualche esempio comparativo con altri paesi. Si propone di abbassare da dieci a cinque anni il periodo di residenza regolare necessario per richiedere la cittadinanza, così come avviene in Francia (per inciso bisogna ricordare che il termine di dieci anni è assolutamente lecito, in quanto previsto come termine massimo dalla Convenzione europea sulla nazionalità). In Francia, tuttavia, il figlio di stranieri che nasce sul territorio francese, non può acquisire immediatamente, e cioè al momento della nascita, la cittadinanza se uno solo dei genitori è residente legalmente da cinque anni, come previsto appunto dalla proposta Granata-Sarubbi. Il figlio di stranieri che nasce in Francia può chiedere la nazionalità francese solo dopo aver compiuto il diciottesimo anno d’età.
In Spagna per l’ottenimento per l’ottenimento della cittadinanza sono necessari dieci anni di residenza, salvo alcune specifiche eccezioni riguardanti. In Germania il termine di dieci anni è stato portato a otto ed è stata introdotta una norma, quella dello ius soli, simile a quella che si vorrebbe introdurre in Italia con la proposta Granata-Sarubbi: il figlio di stranieri che nasce sul territorio tedesco può, a determinate condizioni, ottenere subito la nazionalità tedesca. In Germania, però, vige, salvo eccezioni introdotte di recente, un divieto di doppia cittadinanza; ciò significa che colui il quale desidera acquisire la cittadinanza tedesca deve rinunciare alla cittadinanza nel suo paese di origine. Anche in Spagna lo straniero che voglia acquisire la cittadinanza spagnola deve, di norma, rinunciare a quella d’ origine. Secondo l’ art. 11 della costituzione spagnola, trattati di doppia cittadinanza possono essere stipulati solo con i paesi iberoamericani o con quelli che abbiano avuto o abbiano particolari vincoli con la Spagna.
Nella vigente legislazione italiana, che su questo aspetto non sarebbe modificata dalla proposta in esame, la doppia o plurima cittadinanza è in via di principio consentita, salvo specifiche convenzioni internazionali in senso contrario. Allargando le maglie dell’accesso alla cittadinanza senza affrontare la questione della doppia cittadinanza (e mi riferisco non solo agli immigrati, ma anche ai discendenti di cittadini italiani che sono all’estero e non hanno più alcun rapporto con il nostro paese) avremo una legislazione di massima apertura, forse non riscontrabile in altri paesi dell’Unione Europea, che a mio avviso ci metterebbe in grave difficoltà.
E’ vero che in alcuni paesi arabi l’idea di appartenenza è rappresentata dalla comunità religiosa, l’Ummah, che non si può abbandonare ed in questo caso – me ne rendo conto – avremmo una certa difficoltà ad imporre agli immigrati provenienti da questi paesi l’abbandono della cittadinanza di origine. Ricordo tuttavia che la Convenzione europea sulla nazionalità prevede (artt. 15 e 16) che una Stato possa richiedere a chi acquista la propria cittadinanza la rinuncia alla cittadinanza del paese di origine, ma che ciò non è consentito quando tale rinuncia non sia possibile o non possa essere ragionevolmente richiesta.
In conclusione, ritengo che il concetto da tener presente sia quello di una cittadinanza premiale e non una cittadinanza promozionale. La cittadinanza non deve essere dispensata, ma acquisita alla fine di un percorso caratterizzato da una residenza giuridicamente regolare, ma anche e, soprattutto, qualificata. Si è oggi parlato della legislazione inglese e si è discusso della proposta della fondazione Magna Carta, per qualche verso a tale legislazione ispirata, di una “cittadinanza a punti”, cioè di un percorso di integrazione che viene “monitorato” e che, infine, porta all’acquisizione dello status di cittadino. Un percorso di integrazione che, al di là di elementi solo materiali, come il trascorrere di un certo periodo di tempo, testimoni la volontà dell’immigrato di partecipare al destino comune che lega i componenti della società politica di cui entra a far parte.
Vorrei, in proposito, ricordare che in Francia è previsto il Contrat d’accueil et d’intégration che l’immigrato stipula con l’autorità e nel quale viene definito un preciso percorso di integrazione Il contratto è una condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno. Nel nostro ordinamento, nel testo unico sulla disciplina dell’immigrazione e sulla condizione dello straniero è stata introdotta di recente, con una modifica del luglio 2009, la figura dell’Accordo di integrazione, articolato per crediti, la cui stipula è condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno.
E’ quindi già codificata l’idea che l’ottenimento di uno status favorevole per chi viene a stabilirsi nel nostro Paese debba essere il coronamento di un percorso che va monitorato. Applicare, quindi, questo criterio anche al conseguimento della cittadinanza mi pare possa essere un’utile idea da verificare e studiare nei dettagli.