Lo svilupparsi in una dimensione non più solo teorica del più grande esperimento d’ingegneria sociale che la storia dell’umanità abbia mai concepito ha segnato così in profondità il Novecento che due tra i principali storici di quel periodo dalle opposte idee (e dunque dall’opposto giudizio sul comunismo) hanno fatto coincidere i confini temporali del secolo con quelli del fenomeno. Sia per Furet che per Hobsbawm, infatti, il Novecento è nato con la Prima Guerra Mondiale che del comunismo è stata la levatrice. E si è chiuso con il 1989, con quella caduta del Muro di cui tra pochi giorni festeggeremo il ventennale.
Se ora volessimo indicare qual è il fenomeno che ha maggiormente impregnato di senso il tempo successivo alla conclusione del secolo breve, vi sarebbero pochi dubbi in proposito. Il XXI secolo, infatti, ha messo in forse qualcosa che nella storia dell’umanità non era mai stato in dubbio: l’origine dell’uomo. E il venir meno di questa certezza investe, per la sua enorme portata, sia la sfera più intima sia lo spazio pubblico, producendo ricadute che impongono scelte pubbliche e che, per questo, hanno la forza di condizionare l’agenda delle priorità politiche, generando inedite conflittualità e linee di frattura.
Tutto ciò ci porta ad affermare che “la questione antropologica” rappresenta il fatto pregnante del nuovo secolo. Affermazione, questa, sostenuta anche dalla consapevolezza che lo sviluppo delle nuove tecnologie – in primis quelle che hanno permesso la creazione e la manipolazione della vita – ne rappresenti il volano.
La disponibilità della vita in laboratorio nell’intero percorso del concepimento, infatti, da un lato ha riproposto sotto differenti spoglie dilemmi che per un attimo, con la fine dell’era delle ideologie, pensavamo di aver sciolto per sempre; dall’altro ha aperto squarci impensabili nell’idea che l’essere umano ha di se stesso. Due esempi, a tal proposito, basteranno a dimostrare l’assunto.
Oggi è possibile selezionare embrioni umani, scegliendo i “migliori” e scartando i “peggiori”. In tal modo si corre il rischio di sdoganare l’eugenetica. L’inedito “diritto al figlio sano”, quanto meno, non dovrebbe impedire di guardare in faccia i rischi di vedere così aggiornate le pagine più tristi della nostra storia recente, che inevitabilmente riaffiorano quando si fissano criteri per stabilire chi sia degno o meno di venire al mondo. Sul versante delle novità, vi è invece da considerare quali conseguenze provochi la possibilità di manipolare i gameti in laboratorio, fondendoli indipendentemente dalle relazioni fra i coniugi. Questa pratica già oggi consente – ed è prevedibile che ciò avverrà ancora di più in futuro – di avere famiglie in cui i genitori “biologici” siano diversi da quelli “sociali”, aprendo così possibilità praticamente infinite di “nuove famiglie”: omo, etero, a due, tre, quattro, e chi più ne ha più ne metta. Si potrebbe proseguire citando, su questo versante, quegli esperimenti – che fortunatamente non hanno fin qui trovato adeguati finanziamenti – che si sono sviluppati nella prospettiva dichiarata di oltrepassare l’umano per sconfiggere la malattia e di sfidare la morte.
Appare chiaro, a questo punto, come il riemergere di vecchie problematiche e l’affacciarsi di nuove sfide convergano per individuare nell’ambito antropologico il nuovo campo privilegiato d’applicazione dell’approccio “costruttivistico”. Quanti sanno che i nemici della libertà sono sempre in agguato, farebbero dunque bene a prender coscienza che nel passaggio dall’ingegneria sociale all’ingegneria antropologica risiede il tentativo di tener vivo il vecchio sogno di perfezione totale, nonché il rischio che si possa tornare a generare mostri non meno insidiosi di quelli fin qui sconfitti.
Anche al di là di queste ipotesi ultimative a noi sembra, però, che i temi inerenti la sfida antropologica, che con un neologismo potrebbero definirsi di bio-politica, abbiano forza e profondità sufficienti a determinare il formarsi di schieramenti contrapposti. Perché, se è vero che la perdita di certezza sull’origine rappresenta la novità più significativa del nostro tempo, quanti operano nello spazio pubblico difficilmente potranno sottrarsi al confronto con il seguente quesito: “la centralità della persona e il libero sviluppo della personalità possono prescindere dalla considerazione e dalla valorizzazione dell’origine?”. E da qui deriva un’altra domanda, più stringente: “la politica e la legislazione debbono fare il possibile per preservarne il significato o possono assecondare la scomparsa di questo riferimento?”.
Le risposte a questi interrogativi investono, inevitabilmente, la concezione della libertà dell’individuo: se cioè essa debba trovare un limite nella responsabilità personale, oppure possa ricercare nel diritto la fonte primaria della autodeterminazione, di pari passo con l’evolversi della scienza e della tecnica.
Chi ritiene che la libertà debba essere regolata innanzitutto dalla responsabilità personale nei confronti di se stesso e della propria comunità, non potrà infatti fare a meno di rapportarsi con quella accumulazione di senso che determina una tradizione. Non è necessario che la subisca ma deve quanto meno considerarla perché, in caso contrario, verrebbe a mancare l’elemento rispetto al quale esercitare la responsabilità stessa. E proprio questa attitudine induce l’individuo a risalire indietro nel tempo, fino al punto di attribuire all’origine personale tutta l’importanza che essa merita.
Chi invece interpreta la libertà personale come autodeterminazione autorizzata a sfruttare tutti i margini offerti dal progresso delle tecno-scienze, piuttosto che rifarsi alla responsabilità si rivolgerà al diritto quando non proprio alle sentenze dei tribunali, individuando in una dinamica di auto-produzione di diritti sempre più ampi la possibilità di allargare i confini della libertà dell’individuo. In questa prospettiva, inevitabilmente, il problema dell’origine si allontana fino a divenire mero accessorio.
Questa dicotomia consente di individuare due tipi ideali, che qui abbiamo provato ad abbozzare nella loro “purezza”, che implicano due idee differenti della libertà: vi sono liberali per i quali la tradizione ha un valore e serve a temperare il progresso, e vi sono liberali per i quali la libertà si ricava per via positiva attraverso il consolidamento legislativo dell’innovazione. Io ritengo che questo conflitto epocale si celi in realtà anche dietro l’annosa querelle – di recente rinnovata da un intervento di Papa Benedetto XVI – sulle radici cristiane dell’Europa. Quelle radici, infatti, non rappresentano una circostanza che possa essere messa in dubbio e non negano neppure stagioni diverse della vita spirituale del Vecchio Continente – ad esempio l’illuminismo – che però non possono essere comprese senza considerare la profondità di quelle radici stesse. Se si fa così fatica ad ammetterne l’esistenza, perciò, la ragione non è nel contenuto della loro affermazione ma nella prospettiva che essa implica. Essa porterebbe infatti l’Europa a fare i conti con la propria storia; a risalire indietro per scoprire l’origine; a dichiarare da quali genitori discende la sua identità, la sua civiltà, la sua libertà. Per forza di cose, questa prospettiva entra in rotta di collisione con l’attitudine di quanti ritengono che l’identità europea vada affermata, in prospettiva, innanzi tutto attraverso la produzione di nuovi diritti (in tal senso, la carta dei diritti è un documento addirittura paradigmatico), e che di conseguenza considerano il passato, la storia, la tradizione come un ingombro, o meglio come un elemento identitario concorrente del quale limitare il più possibile la portata.
Le conseguenze di questa frattura, a ben vedere, non si esauriscono nell’ambito della cultura e degli ideali. Credo che da essa discenda anche una differente modalità di considerare la politica e, in fondo, la stessa democrazia rappresentativa. Per quelli che, con approssimazione, potrebbero definirsi “conservatori” la politica resta una risorsa fondamentale, alla quale è affidato il compito di creare l’anello di congiunzione tra l’origine e la modernità, di affrontare il progresso scientifico valorizzandone le conquiste più feconde senza però trasformarlo in una religione sostitutiva. In questa prospettiva, la politica ha il compito di assecondare il senso comune non prima, però, di averne indagato le ragioni più profonde, senza fermarsi alle sue manifestazioni più chiassose ed esteriori. Anche perché “questa” politica ritiene che l’origine della sua legittimazione risieda nella traduzione di quel senso comune nel verdetto per sua natura incerto della sovranità popolare.
Per quelli che si possono definire “progressisti” la politica ha invece il compito di prendere atto, di registrare, di tradurre automaticamente in atti legislativi lo spontaneo progredire della società. Il senso comune, insomma, più che compreso attraverso la valorizzazione dell’elemento popolare, va creato e guidato. Questa prospettiva porta inevitabilmente la sovranità popolare ad essere considerata solo una fra le tante fonti di legittimazione del potere, e le sue istituzioni solo alcune fra le tante leve da utilizzare in questo compito di traduzione. Da qui discende – coperto da una spessa coltre di retorica parlamentare – il crescente ricorso alle Corti, ai tribunali, alle istituzioni sovranazionali: non come contrappesi ma come sorgenti primarie dell’innovazione sociale.
Tutto ciò configura un rischio che, infine, non può essere taciuto. Se infatti è vero che la perdita di certezza sull’origine è il dato che condiziona questo tempo storico e che da essa sono destinate a discendere conseguenze potenzialmente in grado di sconvolgere il costume e lo stesso sviluppo sociale, si sta correndo il rischio che tali scelte sfuggano al verdetto del popolo; che vengano introdotte nel vivere comune per via positiva, senza che vi sia neppure la possibilità di una sentenza di appello. Gli esempi tratti dall’attualità, in tal senso, potrebbero sprecarsi. Questa forse non è la fine della democrazia, ma di certo è una sua seria limitazione che concede una nuova alba al sogno delle élites illuminate di potersi sostituire al popolo in virtù della propria intelligenza. C’è quanto basta, insomma, per essere preoccupati e restare vigili.