Contrariamente alle aspettative di chi confidava in un aiutino dalla natura per una bella scossa oltre i 4,5 gradi Richter coadiuvato magari da un aiutino da altre “sorgenti” per una scossa di tipo legal-giuridico, il G8 è stato un successo. Lo scandalo o il caos non si sono prodotti e tutto si è svolto in maniera efficace, come da programma.
Questo non vuol dire però che i risultati siano stati necessariamente eclatanti: tipico il caso del tema clima che non avrebbe potuto andare diversamente per ragioni oggettive. Il G8 rappresenta si i paesi più avanzati che, però, rappresentano soltanto il 40% dell’economia mondiale: quindi, qualunque fosse stato il risultato di eventuali accordi, questo non avrebbe potuto rappresentare la posizione della maggioranza dei paesi su un tema globale come è la lotta ai cambiamenti climatici.
Già la scelta di estendere la riunione a 14 paesi ha rappresentato lungimiranza da parte del Premier che ha voluto marcare in maniera chiara il fatto che certe scelte non possono essere assunte da un ristretto Club di nazioni quando i problemi da affrontare sono planetari.
Analizziamo i fatti: il Protocollo di Kyoto, che vincola la riduzione dell’emissione di CO2 entro limiti rigidi e predefiniti, è fallito nonostante gli sforzi, di pochi paesi, che si sono ingaggiati in questa battaglia e il recalcitrare di molti che rifiutavano sotto varie forme i vincoli perché fortemente penalizzanti per le loro economie. Tra questi ultimi gli USA dell’Amministrazione repubblicana attenta a salvaguardare gli interessi dell’industria nazionale, e le maggiori economie dei Paesi in Via di Sviluppo, India, Cina, Brasile, Sud Africa per citarne i maggiori, che giustamente rivendicavano il diritto di espandersi così come avevano fatto le economie occidentali per oltre un secolo e mezzo senza prestare la minima attenzione all’ambiente.
L’errore è stato quello di definire delle quote assegnate a ciascun paese senza considerare i costi economici: da qui la sconfitta, quasi ubiqua, tranne rarissimi casi nei quali la struttura di produzione energetica del paese, vedi il caso Francia con il “tutto nucleare”, ha consentito di raggiungere i limiti prefissati dal protocollo.
Nonostante queste evidenze, da parte di molti politici si è continuato invece a cavalcare velleitariamente il tema della riduzione delle emissioni perché alla moda e di grande presa sul pubblico, soprattutto giovanile.
Illuminante è il caso dell’Europa che due anni fa, unilateralmente e senza che nessuno lo avesse chiesto, ha stabilito con gran clamore mediatico di lanciare il programma 20:20:20; entro il 2020 i paesi del Vecchio Continente avrebbero dovuto ridurre le loro emissioni del 20%, raggiungere un risparmio energetico tramite una migliore efficienza degli impianti del 20% ed arrivare a produrre energia elettrica da fonti rinnovabili per un 20% del totale.
Programma ambizioso, molto ecologically correct, che vedeva una importante sostenitrice appoggiarlo con forza: la Cancelliera tedesca. L’eccitazione è, però, durata poco: non appena si è iniziato a fare due conti sul costo dell’operazione è emerso in tutta la sua drammaticità il peso insostenibile che avrebbe avuto per le imprese mettendole rapidamente fuori mercato visto che nessuno dei competitori USA o asiatici era vincolato dagli stessi limiti.
L’industria pesante tedesca, e quella dell’auto in primis, ha cominciato ad agitarsi e la Cancelliera ha immediatamente invertito la rotta abbandonando le sue posizioni iniziali.
Il tutto avvenendo nel pieno della crisi in cui gli americani hanno dovuto riconoscere di non essere in grado di controllare le polpette avvelenate che la loro economia aveva accumulato per anni grazie al permissivismo esagerato di Greenspan ed alla disonestà di molti managers.
L’ottuso burocratismo dei funzionari europei ha cercato, nonostante tutto e tutti, di mantenere fermi gli obiettivi aiutato dalla volontà della presidenza francese, nell’ultimo semestre del 2008, di arrivare a qualche conclusione di grandeur che la celebrasse su un tema caldo come quello dei cambiamenti climatici.
Per una volta il nostro paese ha giocato un ruolo di leader e con i piedi per terra, mantenendo una posizione ferma di critica a questo scenario oggettivamente irragiungibile indicando, con un sano pragmatismo, che, eventualmente ferme restando le linee di principio, si debba e si possa verificare, in corso d’opera, se sia ancora ragionevole proseguire nella linea iniziata o se non siano necessari dei ragionevoli cambiamenti che tengano conto dell’evoluzione possibile del contesto.
Questi i fatti sino al G8 dell’Aquila dove si è cercato di fare un passo avanti con due obiettivi: contenere entro due gradi centigradi il surriscaldamento del pianeta, arrivare ad un taglio generalizzato dei gas serra del 50% e dello 80% per i paesi industrializzatti. L’accordo ha funzionato solo a metà limitandosi a confermare l’impegno sui due gradi: posizione di principio che, non presentando impegni precisi e con un risvolto economico certo, poteva essere accettata da tutti i partecipanti all’incontro.
Il secondo obiettivo, molto più ambizioso, politicamente vincolante ed economicamente dirompente per molte strutture industriali, non ha trovato il consenso di Cina ed India che si sono defilati: entrambi i paesi sono in forte sviluppo nonostante la crisi mondiale, energivori e necessitanti di fonti copiose, sicure ed a basso prezzo come il carbone, bestia nera degli ecologisti duri e puri.
Molto apprezzata la nuova posizione USA aperta e disponibile verso una “green economy” che riveda drasticamente i consumi eccessivi che il paese ha sempre avuto. Nella realtà bisognerà però vedere se, in quale misura ed in quanto tempo il paese e la sua struttura industriale saranno capaci di operare questa conversione che, in ogni caso, sarà positiva per l’economia riducendo certi consumi non necessari libererando risorse verso altri maggiormente utili.
Appare più difficile che i paesi emergenti ad economia in forte sviluppo possano accettare limitazioni stringenti come quelle prospettate: il rischio oggettivo è un palese rallentamento del loro sviluppo che condizionerebbe ulteriormente la loro volontà politica di raggiungere in tempi relativamente brevi le economie più sviluppate. Quando un governante ha la responsabilità della sopravvivenza e dello sviluppo di molte centinaia di milioni di persone è difficile che il tema ambientale sia prioritario nell’azione di governo; e questo tanto più quando il problema non è locale ma mondiale.
In questi casi c’è più da aspettarsi un pragmatismo egoistico volto alla salvaguarda degli interessi nazionali; così, e con buone ragioni, si sono comportati nel passato e c’è da aspettarsi continueranno a pensarla questi paesi, con buona pace dei bollori ecologici delle economie più sviluppate.
Il G8 non era il luogo deputato formalmente ad assumere decisioni sul clima ma ha rappresentato un forum importante dove le posizioni in gioco si sono confrontate; non va dimenticato però che a Copenhagen la negoziazione si terrà tra tutti i paesi rappresentati all’ONU. L’Aquila ha potuto essere un primo luogo qualificato di confronto tra “alcuni” degli aventi diritto dove si è potuto capire che più in là di buone affermazioni di principio non si va e non si poteva andare. E’ stato un onesto punto di partenza ma il lavoro da fare è ancora molto perché i parametri del problema sono numerosi e gli interessi in gioco molti e contrastanti.
L’errore più grande sarebbe cercare, a Copenhagen, di riproporre un nuovo Kyoto definendo degli obiettivi rigidi da raggiungere: se si arrivasse a questo come unica possibilità di accordo il mondo correrebbe di nuovo verso un ulteriore fiasco come quello precedente.
Un approccio pragmatico, flessibile nelle modalità di esecuzione e nel conseguimento dei risultati, possibili e non ideali, sarebbe invece l’unica possibilità di raggiungere qualcosa di concreto. Personalmente ho molti dubbi in proposito perché in casi come questo le velleità di primazia politica e le esigenze di “conseguire il risultato ad ogni costo” di molti dei competitori rischiano di zavorrare il lavoro di quanti stanno cercando e cercheranno mediazioni ragionevoli.
Il caso del G8 allargato a 14 paesi ne è un esempio concreto e non aiuta a ben sperare: se già quattordici teste sono arrivate soltanto ad accordarsi su questioni di principio, riusciranno 192 paesi ad accordarsi sulla sostanza?
l’Occidentale
13 Luglio 2009