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Fra le storie dei grandi Paesi europei, la storia d’Italia è insieme la più ricca e complessa, ma anche la più incompiuta. Le due cose – molteplicità e incompletezza – si tengono insieme, come in certi romanzi, o in certe musiche.

Ognuno vi cerca (e vi trova) quel che vuole, senza che lo sguardo riesca mai a stringersi davvero su un punto fermo, su un “questo siamo” che non ammetta repliche, e non possa rovesciarsi nel suo contrario. Abbiamo aperto la strada della modernità – con il Rinascimento – e l’abbiamo subito perduta. Abbiamo gettato le basi teoriche e politiche dello Stato nazionale, ma non abbiamo saputo costruirne mai davvero uno. Abbiamo inventato il fascismo e la forma occidentale del comunismo, senza aver mai elaborato in profondità, e non semplicemente rimosso, il nucleo drammatico (e incomparabile) di quelle esperienze, superandolo in una matura sintassi democratica.

Il filo di questo pensiero mi è ritornato in mente leggendo le riflessioni lucide e appassionate che Ernesto Galli della Loggia ha dedicato (sul “Corriere” di martedì) a quanto avevo scritto su “Repubblica” di qualche giorno prima a proposito dell’ondata neoguelfa che sta attraversando il nostro Paese. Proverò a dire perché.

Mi sembra che Galli della Loggia non neghi l’esistenza del fenomeno in quanto tale (“l’impressione – come egli dice – di un che di eccessivo, di strabordante, del discorso religioso specialmente su temi etici”), ma contesti in modo deciso la spiegazione che ne prospettavo. E lo fa opponendomi due ragionamenti, anch’essi centrati su una valutazione della storia d’Italia – singolarmente simmetrica alla mia, ma in modo rovesciato, speculare.

Il primo argomento si rivolge alla mia concettualizzazione di quanto sta accadendo. Parlare neoguelfismo, secondo lui, è fuorviante. Sarebbe solo il segno di una (cattiva) abitudine della cultura italiana a riportare ogni novità, anche la più radicale, nell’ambito di dicotomie tradizionali – “Stato-Chiesa, laico-clericale, conservatore-progressista” – ormai vuote di contenuto, eredità inerte di “un’impalcatura ideologica otto-novecentesca” oggi diventata non pià di “un reperto archeologico”. Bisogna invece saper cogliere tutta la portata inedita del ritorno in grande stile del discorso religioso nel mondo contemporaneo, come risposta alle domande e ai bisogni di spiritualità e di eticità indotti dalla rivoluzione tecnologica che sta sconvolgendo le nostre esistenze (un punto su cui insiste molto anche Gaetano Quagliariello, nella sua risposta al mio articolo).

Ebbene: sono del tutto d’accordo nell’enfatizzare al massimo il carattere di assoluta novità del tempo che stiamo vivendo, dove il rapporto fra tecnica e vita sta assumendo aspetti impensabili fino a qualche decina di anni fa. E sono d’accordo a collegare l’inatteso riemergere della religiosità alle angosce indotte da quello che appare letteralmente come un salto nel vuoto dell’umanità oltre se stessa, per così dire. Ma il problema è come la Chiesa stia rispondendo – soprattutto in Italia – a questa domanda, e che capacità essa per prima stia dimostrando di accogliere il nuovo e di darvi spazio. Se ce lo chiediamo davvero, la risposta è preoccupante. La Chiesa sta reagendo arroccandosi, invece di guardare avanti. Sta resistendo a fatica alla tentazione di politicizzare il proprio messaggio, riempiendolo di dogmi, quando avremmo bisogno piuttosto di profezia. E gli “atei devoti” la stanno spingendo esattamente su questa china, mentre dovrebbero metterla in guardia. La cultura italiana sarà anche arretrata, come dice Galli della Loggia, ma qui non c’entra. E’ la Chiesa che sta rischiando di ripercorrere antiche strade, non noi. Se la cosa è vecchia, non può essere che vecchio il nome per indicarla. E’ vero: neoguelfismo è una parola che viene dal profondo del nostro passato. Saremmo felici di poterla dimenticare il pace. Ma come, se c’è chi non sa far altro che cercare di riproporne i contenuti?

Credo che il futuro del Cristianesimo, e in particolare della versione cattolica, sia nella totale depoliticizzazione del suo insegnamento, come unica condizione perché la sua voce entri davvero nell’intreccio fra tecnica e vita, e gli possa dare un senso: quello dell’emancipazione e della libertà – se vogliamo, del ricongiungimento con Dio, oltre la naturalità costringente della specie. La disconnessione del legame originario fra religione e politica – di cui Jan Assmann (un autore ben noto al Papa) ha magistralmente descritto l’archeologia – è la grande missione che aspetta la Chiesa nel tempo che si apre.

Il secondo argomento di Galli della Loggia riguarda il giudizio storico sul nostro Stato e sulla nostra politica. Se oggi la Chiesa e il suo discorso hanno da noi tanto ascolto, ciò non nascerebbe – come a me pareva – dal vuoto della politica e dello Stato, ma al contrario da un’eccessiva “iperpoliticizzazione (…) della compagine statale italiana”, che avrebbe origini lontane, sin dalle debolezze del nostro Risorgimento (ancora la storia d’Italia), e arriverebbe fino a una sorta di paralizzante “corto circuito politica-cultura”, in grado di produrre ormai solo vaniloqui (la “cultura del nulla” cui allude Giuliano Ferrara nella sua sobria e pacata replica al mio intervento).

Di nuovo, credo di condividere il cuore di questo ragionamento; al di là dell’immagine del “vuoto” che avevo usato, la sostanza resta, anche se forse leggiamo in modo diverso – ma tutti e due legittimamente – alcuni passaggi della nostra storia: siamo di fronte a un desolante silenzio di pensiero critico “di fronte ai grandi temi del Paese e dell’epoca”, sostituito da un chiacchiericcio politico quasi sempre settario e ideologicamente prevenuto. Ma tuttavia: siamo sicuri che a questa patologica “iperpoliticizzazione” la cultura cattolica più direttamente riconducibile alle posizioni della Chiesa non abbia dato nel corso del tempo e sino a oggi il suo potente contributo, confondendo troppo spesso quel che è di Cesare con quel che è di Dio, mischiando sacralità e potere, etica e precettistica, Vangelo e ragion di Stato?

A me pare che noi si debba tutti lavorare a un ricongiungimento storico fra religione e modernità, nel segno di un’etica dell’eguaglianza, della speranza e dell’emancipazione. Questo non presuppone confusione e indistinzione, né tantomeno abdicazioni e supplenze, ma il disegno di nuovi confini e di nuove mappe: nei paesaggi dell’anima, non meno che nel tessuto delle nostre estituzioni.

(da Repubblica)