La mia adesione al Club dei Dodici contro la politica del “no sistematico” è convinta e non si è limitata alla semplice sottoscrizione all’appello, ma è consistita anche in una capillare opera di proselitismo sia tra i colleghi di Area Medico- Biologica, che tra quelli di altre Facoltà. Come membro della Giunta Nazionale dell’Unione sindacale professori universitari di ruolo (Uspur) mi ero in un primo tempo risentito per la generica “liquidazione” negativa di tutti i Sindacati, tacitamente includendo anche il nostro, che invece anche nelle precedenti legislature si è sempre configurato come propositivo e attento alla ricerca di soluzioni concrete ai problemi dell’Università.
Però non potevamo rimanere silenziosi nei confronti di questo documento. Il rischio, nemmeno tanto recondito, era quello di essere tacciati di scarsa coerenza e di poca apertura mentale. È vero che l’appello non elenca nessun principio riformatore e, pertanto, chiedere di aderirvi è come chiedere di firmare un documento in bianco. Ma, ad una lettura più approfondita, l’appello dei Dodici rivela uno scopo ben preciso, cioè da una parte l’esigenza di essere noi docenti a pretendere che l’Università non perda il senso originario di luogo dove si elabora e si trasmette cultura e dall’altra la consapevolezza che tocca sempre e comunque a noi cercare di incidere fattivamente nella preparazione e nella discussione da parte del Parlamento delle leggi che ci riguardano, senza demandare sempre tutto ai soli politici professionisti. Sia che si tratti di stato giuridico dei docenti piuttosto che di “governance globale dell’Università”, o dei più prosaici problemi – del collocamento a riposo o dell’ “adeguamento dello stipendio dei docenti al costo reale della vita”, fermo al 1992.
La situazione attuale del sistema universitario è un “mostruoso ibrido” tra un modello centralistico, che mira all’egualitarismo e all’appiattimento in basso dei valori e dei saperi ed un modello selettivo all’insegna della meritocrazia e della competitività. È chiaro che la diatriba tra Università “sociale” da una parte e “selettiva” dall’altra non può essere risolta né da un disegno di legge, né da una “consensus conference” tra “docenti illuminati”. Nell’Università, al contrario della scuola dell’obbligo, l’insegnamento è tutt’uno con la ricerca, che è “competitività esasperata”. Quindi l’unica cosa da evitare è il cerchiobottismo, ciò il voler perseguire ad ogni costo un’ “università ideale” che, nella stessa sede, o nella stessa Facoltà, sia contemporaneamente “sociale”, onde consentire a tutti le stesse opportunità di formazione, e meritocratica, cioè in grado di selezionare e premiare in maniera diseguale i migliori docenti e ricercatori ed i migliori studenti. È tempo di diversificazione, con la differenziazione dei vari Atenei, soprattutto all’interno della stessa Regione, per tipologia dei corsi impartiti, sia in funzione del tipo di popolazione studentesca (area metropolitana, città medio-piccola), che delle vocazioni del territorio. Ma è anche tempo di autocritica, con un forte richiamo ad evitare la proliferazione dei corsi e delle sedi universitarie, incluso le “libere università senza qualità”, e con un appello accorato a far prevalere gli interessi degli studenti (cioè di una buona formazione congiunta con una ricerca di qualità) sulle ambizioni personali di docenti, presidi o rettori.
Solo così si può sperare di rifondare l’Università. Solo col passaggio ineludibile di dare responsabilità ma anche prestigio e qualità alla figura del professore universitario. Quest’ultimo deve essere reidentificato nell’immaginario collettivo come colui che ha raggiunto l’eccellenza nel suo settore di competenza, quindi come figura dotata di personale “valore aggiunto”, documentato da adeguate ed accurate valutazioni comparative in ambito sia territoriale che Nazionale, e non come un “lavoratore generico” assunto trentenne nell’Azienda Universitaria, che proceda poi automaticamente fino ai vertici per anzianità e diritti acquisiti. Solo partendo da questa ridefinizione e riqualificazione del docente universitario l’Università può ridiventare strumento essenziale di formazione, ricerca ed innovazione, e vero ed insostituibile motore di sviluppo del sistema paese. La maggioranza dei docenti universitari italiani è contraria ai no “a prescindere”, ed è pronta responsabilmente a fare la sua parte per contribuire alla creazione di un’università di qualità, al passo coi tempi. Con questo spirito rivolgo, sia a titolo personale, che di concerto col Segretario Nazionale dell’Uspur, Antonino Liberatore, l’invito, prima a manifestare l’adesione al documento di “Magna Carta”, e poi a rendersi disponibili per cercare di riempire di contenuti propositivi l’iniziale appello volutamente generico.