Un lungo e indignato comunicato del ministro della Solidarietà sociale Ferrero smentisce Il Giornale, che giovedì 12 aveva così titolato: «Il governo regala 10 milioni alle moschee». L’articolo si riferiva alla notizia dell’organizzazione presso la moschea di Roma e la moschea della Magliana di corsi di lingua italiana e di educazione civica destinati agli immigrati di religione musulmana. In sede di valutazione di questi corsi, il ministro ha annunziato la sua volontà di finanziare altre mille iniziative dello stesso tenore. Poiché – come lo stesso Ferrero ammette – nei processi integrativi luoghi e forme d’intervento hanno anche un significato simbolico, legittimo ritenere che pure le future iniziative si sarebbero svolte in moschea. Con il nuovo comunicato il ministro spiega che non sarà così. E che a occuparsene saranno strutture pubbliche, movimenti, associazioni di volontariato. Ne prendo atto un po’ come Ferrini, il mitico comunista di Cesenatico, che quando non capiva si adeguava. Ma il problema culturale sottostante tale ingente stanziamento non si modifica di una virgola. E mi spiego.
Il ministro Ferrero appartiene a una cultura che, a differenza della mia, ha sempre esaltato il valore della scuola pubblica, fino al punto da sostenerne il monopolio. Il maestro dovrebbe per lui essere una specie di sacerdote laico al quale lo Stato (con la «s» maiuscola) assegna il compito di custodire e trasmettere le tavole della cittadinanza di generazione in generazione. Per questo guarda con diffidenza e ostilità alla concorrenza in campo educativo e, ancor più, al riconoscimento pubblico del diritto delle famiglie a scegliere la scuola più idonea per i propri figli. Per questo, credo, nutra se non un’ostilità un’avversione verso «la scuola dei preti» e, ancor più, verso la possibilità che sia finanziato dallo Stato il servizio pubblico da essa assicurato.
Si tratta di una posizione che, ovviamente, non condivido ma che ritengo legittima e rispettabile, a condizione che mantenga un minimo di coerenza. Ora, il fatto che la formazione e l’integrazione dei migranti, sotto il profilo della cittadinanza, si presenti complessa almeno pari a quella delle generazioni d’italiani che si susseguono, può considerarsi una verità di senso comune. Al punto che anche quanti come me, in campo educativo, hanno una concezione liberale e concorrenziale che a Ferrero invece manca, sono portati a chiedere allo Stato, per un semplice principio di precauzione, di svolgere con particolare attenzione il suo compito di accreditamento e di controllo.
Se tutto ciò è vero, non si può fare a meno di domandarsi: perché il ministro Ferrero concede con tanta enfasi a non meglio specificate strutture di volontariato e movimenti ciò che ideologicamente nega alla scuola privata e, in particolare, a quella cattolica? Si potrebbe rubricare questo riflesso in quell’anti-cattolicesimo preventivo, oggi di gran moda tra i progressisti. Ma la risposta sarebbe troppo sbrigativa. Al fondo mi pare vi sia, infatti, qualcosa di ideologicamente ancora più insidioso.
Lo si scopre nelle ultime righe della nota di sedicente smentita, laddove Ferrero afferma: «La scelta di valorizzare le strutture di volontariato è data dal valore aggiunto in termini di tessitura sociale e di costruzione di comunità che queste possono dare (…)». Il passaggio è cruciale. Perché per quanti ritengono che l’opera di integrazione degli immigranti debba avvenire nei canoni del multiculturalismo (nel rispetto, cioè, di presunti diritti delle comunità), ecco che lo Stato, idolatrato laddove c’è da formare il cittadino italiano, diviene un ingombro.
Questa doppia verità mi fa veramente paura. Io non voglio, infatti, che nel mio Paese si riproducano i fallimenti e i drammi che il multiculturalismo ha fin qui causato in Inghilterra e in tanta parte d’Europa. Io non voglio che il livello di libertà civili e di dignità personale conquistato dall’Italia sia sacrificato sull’altare di un malinteso rispetto per tradizioni e costumi spesso in contrasto con la dimensione universale dei diritti umani. Per questo mi batto affinché, anche nel campo dell’educazione, a essere prese in considerazione siano le donne e gli uomini in carne ed ossa e non le comunità: nel rispetto della loro individualità, ma anche del patrimonio di cultura, di diritto e di tradizione propri del mio Paese, che dà loro ospitalità.
Ferrero potrebbe non fermarsi ai titoli e accettare, su questi temi, un confronto in campo aperto. Io, da parte mia, farò tutto ciò che è necessario per controllare come il denaro pubblico stanziato sarà speso e che garanzie di serietà e conoscenza lo Stato domanderà alle strutture che intende mettere in campo – in moschea o altrove – per formare quelli che, mi auguro, potranno divenire i miei concittadini di domani.
Il Giornale, 15 luglio 2007