Davvero la questione eutanasia chiama in causa il rapporto fra credenti e non credenti? Davvero costituisce un nuovo terreno di scontro-confronto-dialogo in cui, come ben sintetizza Giancarlo Loquenzi – per esorcizzare certi automatismi –, i “laici” reclamano diritti e i “cattolici” esercitano l’interdizione? E don Verzè, che ha ricordato una sua personale esperienza in materia (da cui taluno ricava argomenti pro eutanasia), è “laico” o è “credente”? E viceversa, sono forse approdati a sponde confessionali tanti “laici”, che avanzano serie perplessità sul rilancio di una discussione sul punto, spesso animata da propaganda più che da voglia di approfondire una materia così delicata e complessa?
E’ un dato di fatto che il dibattito è (ri)partito male. Con una sovrapposizione fra concetti che di per sé non coincidono: dando, per esempio, un significato univoco al divieto dell’accanimento terapeutico e al testamento biologico o, per usare la terminologia giusta, alla “dat- dichiarazione anticipata di trattamento”. E poi, in progressione, come vorrebbero alcuni disegni di legge in discussione al Senato, concedendo alle clausole del possibile testamento biologico una estensione tale da condurre all’eutanasia vera e propria. Con la conclusione – facile – che chi manifesta dubbi sull’eutanasia e sull’estensione del testamento biologico, a essa funzionale, è catalogato fra coloro che immaginano di intubare il prossimo ad libitum… E fosse solo un problema di confusione concettuale e lessicale! Come per altre battaglie “per i diritti civili”, lo spazio per la riflessione è diventato inversamente proporzionale a quello della suggestione; il che accade quando si punta a ricavare principi di comportamento dalla lettura strumentale di “casi pietosi”, e quando, al tempo stesso, questi vengono abbondantemente enfatizzati dai mass media, con qualche aiuto epistolare delle più alte cariche dello Stato. Ogni riferimento alla vicenda di Piergiorgio Welby e alla amplificazione che a essa ha dato il Presidente della Repubblica è assolutamente voluto.
Concordo con Loquenzi sul punto di partenza: non esiste un diritto a morire o a farsi uccidere. Ho qualche perplessità sul seguito del suo ragionamento, cioè sull’ipotesi – che parte dal disconoscimento, in quanto “diritto”, di quella pretesa – di depenalizzare la condotta di chi però aiuta a morire. Per una ragione di sistema: se io sparo a una persona che si è lanciata dal 6° piano e sta per schiantarsi al suolo, e quella persona perde la vita a causa del proiettile che le ho indirizzato, prima ancora di giungere a terra, comunque sono responsabile di omicidio, al di là delle ragioni che possono avermi indotto ad anticipare la morte, anche solo di una frazione di secondo. In altri termini: la tutela della vita o è integrale, o non è; ed è integrale se, al netto di tutte le considerazioni di ordine etico, è presidiata anche da una norma di diritto positivo. Ma vi è un’altra ragione: non si tratta di individuare una via d’uscita, in termini quasi esclusivamente penalistici, e quindi comunque partendo da una valutazione di illiceità del comportamento preso in esame, per il medico che in qualche modo aiuti l’ammalato non più in condizione di agire a concludere la sua esistenza. Si tratta di affrontare una prospettiva più ampia e più impegnativa: quella di comprendere quale è la linea di confine fra il dovere del medico di garantire la salute del paziente, e la sproporzione della cura rispetto alle effettive condizioni dell’ammalato e alle possibilità di successo della cura medesima. E’ una prospettiva che chiama in causa anzitutto una corretta antropologia: la vita umana ha dignità in relazione alla qualità della stessa? O ha un valore intrinseco, che prescinde dal livello delle relazioni che essa è in grado di mantenere, sì che Terry Schiavo, che comunicava con i suoi genitori, pur se soltanto attraverso il movimento degli occhi e qualche cenno di sorriso, aveva diritto a proseguire la sua esistenza, nella condizione in cui si trovava? I diritti dell’uomo sono oggettivi e universali, o sono in qualche modo condizionati dal loro riconoscimento da parte di altri, a loro volta muniti di forza per garantirli e/o per negarli?
E’ astratto ragionare in questi termini? Non credo, se riflettiamo a ciò che accade in Olanda o in Belgio. Lì esiste da tempo una legislazione che permette ai medici di praticare l’eutanasia sugli ammalati in condizioni terminali senza subire sanzioni penali. Nei Paesi Bassi e’ autorizzata per i malati a partire dai 16 anni, mentre per quelli tra i 12 ed i 16 anni e’ necessaria l’autorizzazione dei genitori; in Belgio è praticabile a partire dai 18 anni. La richiesta, in forma scritta, deve essere ”volontaria, riflettuta e reiterata” e non frutto di pressioni esterne; al medico compete verificare che la malattia sia incurabile e provochi una ”sofferenza fisica o psichica costante ed insopportabile”; ogni proposta di eutanasia va notificata a una commissione incaricata di verificare il rispetto di tutte le condizioni stabilite dalla legge. Nell’agosto 2004, in ossequio alla “legge del piano inclinato” (una legge non scritta, ma con effetti concreti, in base alla quale ogni passo nella direzione contraria alla dignità dell’uomo non resta mai isolato, ma conduce ad aberrazioni ulteriori), l’autorità giudiziaria olandese e la clinica universitaria della città di Groningen hanno sottoscritto un protocollo che di fatto consente l’eutanasia anche sui minori di 12 anni. Come spiega il responsabile della sezione pediatria della clinica in questione, il dott. Eduard Verhagen, “La legge olandese dice che il paziente deve chiedere l’eutanasia, questo non e’ possibile per i neonati, e nel nostro sistema i genitori non sono autorizzati a chiedere la morte al posto dei bambini, non possono cioè prendere il loro posto: quindi, da un punto di vista tecnico è impossibile” procedere all’eutanasia . Il protocollo fissa la procedura che i medici debbono rispettare di fronte a casi di questo tipo. Lo stesso Verhagen ricorda che in Olanda ogni anno si ricorre all’eutanasia – sempre nei casi estremi – per “800 bambini”, precisando che di questi “circa venti casi riguardano bambini la cui vita e’ così terribile, miserabile, e che soffrono tanto, che decidiamo di ricorrere all’eutanasia perché consideriamo che, in questi casi, la morte sia meglio della vita”. Provando per un momento a seguire i parametri del medico olandese, viene da chiedersi quali sono le condizioni che legittimano l’eliminazione degli altri 780…
Il “dottor Morte” di Groningen non si è limitato a queste spiegazioni. In Italia lo ha intervistato la Repubblica , che, dopo averlo presentato in modo suadente (“il dottore gira in maniche di camicia a righe bianche e azzurre, senza camice. Sembra più giovane dei suoi 42 anni, è pediatra e giurista (…)”; immaginiamo il responsabile di un lager descritto come un bel giovane dagli occhi azzurri…), ha raccolto le giustificazioni che seguono: “Ha mai visto un neonato con la spina dorsale bifida? (…) Ecco, questo è uno dei quattro bambini che quest’anno abbiamo “ucciso” (…). Hanno come un’apertura, nella schiena, in cui si va a infilare di tutto, dal sangue al cervello. Hanno sempre dei difetti celebrali, sono paralizzati, non possono camminare, sedersi, e nemmeno andare in bagno. (…) Noi, come medici, possiamo fare molto poco, possiamo chiudere quella apertura, ma è solo un fatto estetico che non risolve nulla, i problemi restano e sono insuperabili. Ecco, vede, è in casi come questi che interveniamo. (…) una morte dolce,col sorriso”. Al merito di Repubblica va detto che dopo qualche giorno essa ha pubblicato la splendida lettera del padre di un ragazzo che in Olanda riceverebbe le attenzioni del dott. Verhagen, Luigi Vittorio Berliri, consigliere comunale a Roma: “Avete mai visto un bambino con la spina bifida? Io sì. E’ mio figlio. E’ bellissimo, vivace e intelligente. Ha due occhi neri neri. Dorme tenerissimo con la sua schiena appoggiata alla mia. (…) E’ un bimbo come tutti gli altri. Va a scuola, ha degli amici che lo cercano per giocare insieme. Quel medico pensa che bambini così non meritino di vivere. Io penso il contrario. Lo penso perché è mio figlio. (…) E il medico che abbiamo incontrato, i tanti medici, gli hanno regalato la “dolce vita”. L’ortopedico pian piano gli ha raddrizzato i piedi. Il neurochirurgo gli ha inserito una piccola valvola per drenare dalla testa l’acqua in eccesso (…) e l’urologo gli ha evitato che potesse avere gravi infezioni per la difficoltà di urinare. Sono questi i medici di cui ha avuto bisogno mio figlio. E non di chi gli regalasse la morte” .
Quella seguita in Olanda per estendere l’eutanasia è una logica perversa: se per legge si fissa il principio in base al quale è lecito uccidere chi soffre, purché lo chieda, nulla impedisce di uccidere chi non è in grado di chiederlo, presumendone la volontà. Non vale nemmeno approfondire le cause vere di quella richiesta disperata: quando c’è, spesso coincide con attimi di sconforto, che vengono affrontati e superati dalla vicinanza dei più cari. E’ invece il caso di domandarsi perché, di fronte all’alternativa fra la cura e l’affetto con i quali seguire chi soffre, e la morte, oggi c’è chi teorizza la morte come soluzione, e poi passa dalla teoria alla pratica. Tentare di richiamare le conseguenze estreme alle quali si giunge partendo da ipotesi di testamento biologico, o “dat” che dir si voglia, che in realtà già aprono all’eutanasia, non equivale a negare la gravità dei problemi che si trova ad affrontare il medico, quando non ha certezze sul momento in cui è tenuto a sospendere la cura che sta praticando, per limitarsi – se necessario – a qualche palliativo e a qualche antidolorifico. Equivale a non rendere quei problemi ancora più gravi: subordinare la dignità dell’uomo a un dato soggettivo apre infatti la strada a qualsiasi totalitarismo, anche se viviamo in un ordinamento nel quale si vota due volte all’anno. L’essenza del totalitarismo coincide con l’arbitrio che un uomo esercita su un altro uomo al punto da modificare, o addirittura da togliergli la vita. Se il confine fra la vita e la non vita non è netto e invalicabile, se non viene individuato quale dato oggettivo da riconoscere e da rispettare, ma rappresenta qualcosa di variabile a seconda delle scelte di una maggioranza, non si può dire che la prospettiva totalitaria sia alle spalle. Se è possibile (e anzi è stimato un bene), togliere la vita a un uomo in quanto è troppo vecchio o è troppo ammalato, non esistono ragioni di principio, ma solo di mera convenienza del momento, per non uccidere il portatore di handicap, pure lui lontano dall’optimum fisico e testimone di dolore.
Il fatto stesso che in taluni dei disegni di legge in discussione al Senato si includa fra i trattamenti da sospendere, oggetto del testamento biologico, anche l’alimentazione e l’idratazione vuol dire che siamo ben oltre lo sforzo di evitare l’accanimento terapeutico: mangiare e bere, sia pure con l’aiuto di una macchina, non è la stessa cosa che ricevere medicine o cure inutili. I quesiti sono tali e tanti che non possono essere risolti da un intervento legislativo ambiguo: davvero un medico può ritenersi vincolato a una dichiarazione sottoscritta dal paziente quando costui era nel pieno nelle forze e della coscienza, mentre in seguito non è in grado di revocarla? Ciascuno di noi ha il medesimo atteggiamento verso un certo tipo di cura a seconda che la immagini mentre è sano o mentre è gravemente ammalato? Non è il caso di lavorare con maggiore attenzione sul piano del “consenso informato”, rendendolo effettivo soprattutto quando ha la necessità di fondarsi sulla piena consapevolezza del paziente?
Ho abusato dello spazio e dell’ospitalità di questo sito, sì che per il momento la sola eutanasia da praticare (eticamente raccomandabile) riguarda il mio scritto. Ma spero di tornare sul tema, magari a margine della prosecuzione dei lavori in Parlamento.