Al tempo delle ideologie, quando c’era da scegliere quale bibita bere o si litigava con la fidanzata, si soleva dire: il problema è politico. In seguito, con il riflusso, i territori della politicità grazie al cielo si sono ristretti. Ma da ultimo si sta verificando un fenomeno imprevisto: questioni che inerivano prevalentemente l’ambito della coscienza hanno fatto il loro prepotente ingresso nell’agenda politica, al punto da divenire fondamentali nella contrapposizione tra destra e sinistra. Questa sorte è toccata, tra l’altro, al tema dell’eutanasia, considerato oggi così politicamente urgente da monopolizzare i lavori delle commissioni parlamentari e proporsi come imminente terreno di battaglia nelle aule di Camera e Senato e nel Paese.
Al cospetto di questa metaformosi c’è da chiedersi, innanzi tutto, perché essa sia avvenuta – che poi è un altro modo di domandarsi se tutta questa urgenza sia giustificata o meno. A questo quesito si risponde perlopiù che la fretta sarebbe il portato dei progressi della medicina. Oggi, insomma, morire è diventato difficile e il prolungamento di stati di mera sopravvivenza avrebbe reso arduo conseguire una fine dignitosa, nella quale i connotati della persona umana non vengano stravolti.
Ci permettiamo di dubitare di questa spiegazione per due ragioni. La prima è che, semmai, i progressi della scienza medica pongono il tema dell’accanimento terapeutico. Comprendiamo bene quanto sia difficile definirne i confini, e sul punto torneremo. Ma, in ogni caso, non si può pretendere di risolvere la questione dichiarandosi, al contempo, favorevoli all’accanimento terapeutico e all’eutanasia, affidando così alla seconda il compito di risolvere i problemi posti dal primo. La seconda ragione di dissenso risiede in una valutazione più equa dei progressi compiuti dalla scienza. E’ vero che essi rendono troppo frequenti stati di mera sopravvivenza e, in alcuni casi, prolungano penose agonie. E’ altrettanto vero, però, che hanno aperto nuovi orizzonti nella lotta contro il dolore consentendo, in luogo di morti strazianti, di andare via in modo relativamente accettabile.
No, non sono le esigenze poste dall’assicurare una morte dignitosa a rendere così urgente la tematica. Su questo fronte, molto ci sarebbe da fare di più significativo. Chi, infatti, ha veramente a cuore la dignità della morte farebbe bene a interessarsi dell’aumento vertiginoso delle cosiddette “salme senza interesse”: quelle di coloro i quali, cioè, nessuno ritiene degne di un funerale. O potrebbe indagare la condizione degli ospedali pubblici meridionali dove può accadere – e parlo per esperienza personale – che un rappresentante di pompe funebri entri nella stanza ogni quarto d’ora per chiederti se il tuo congiunto in agonia si sia spicciato a tirare le cuoia. Ovvero, dove la salma viene condotta nella stanza dei rifiuti, per mancanza di posti in obitorio. Quel che intendiamo sostenere, è che l’idea della dignità della morte, per i laici non meno che per i cattolici, è sempre stata legata al tema dell’accompagnamento (termine questo da restaurare nel suo significato più autentico, senza indulgere in degradanti pietismi). Chi non ne sia convinto, farebbe bene a leggersi il racconto degli ultimi giorni di Gaetano Salvemini nei ricordi dei suoi allievi. Ci si renderà conto quanto, in quei momenti, la forza della propria identità divenga preminente. Persino in un’esistenza che non ha inteso essere ricondotta all’interno di quella Chiesa della quale, infine, era giunto ad accettare il messaggio fondamentale.
Una volta scartate le esigenze empiriche dell’urgenza, non si può fare a meno di volgersi verso quelle “teologiche” che, come la storia ci ha ammaestrato, affollano assai più le menti degli ideologi che quelle dei preti. Qui sorge un sospetto, che confessiamo senza remore. Noi temiamo che i tanti orfani dell’ingegneria sociale costretti a prendere atto dell’impossibilità di costruire il paradiso in terra attraverso la pianificazione e, ob torto collo,ad accettare le imperfezioni del mercato, stiano trasferendo il loro costruttivismo in ambito antropologico. Il comunismo è forse morto (almeno in Europa), ma per la mentalità comunista, invece, l’auspicabile eutanasia certamente non è stata praticata. Ed è questo residuo culturale che vorrebbe oggi imporci la felicità per altra via: se non possiamo essere felici perché tutti uguali, quanto meno cerchiamo di esserlo mettendo nelle mani dell’individuo il diritto di agire senza limiti sull’origine e sulla fine della vita, di condurre un’esistenza che non tenga conto di alcun fondamento: né da dove veniamo né cosa lasciamo.
Si sta edificando sotto i nostri occhi una nuova “presunzione fatale” non meno pericolosa di quella che è stata sconfitta nel 1989, perché proietta la stessa esigenza di onnipotenza a un livello, se è possibile, ancora più alto. Per questo, quanti lavorano all’intrapresa, non avvertono come contraddizione dirsi favorevoli, contemporaneamente, all’accanimento terapeutico e all’eutanasia. Entrambe queste pratiche auspicano, in un certo senso, l’abolizione della morte come fenomeno naturale. E, attraverso questa via, ripropongono quel bisogno di onnipotente perfezione insofferente verso il dolore del vivere e, a maggior ragione, verso quello del morire, tipico delle ideologie novecentesche. In questo senso, non è certo un caso che essi s’illudano di risolvere tale genere di problemi attraverso “tavoli tecnici” (uno di questi il Ministro Turco, in spregio del ridicolo, vorrebbe consacrarlo addirittura al tema della “dignità della vita”): l’illusione che esista una sapienza “tecnica” superiore, in grado di oltrepassare ogni genere di conflitto, rappresenta da sempre una prerogativa della mente totalitaria.
A questa sfida, i liberali – laici o cattolici che siano – devono rispondere contrapponendo il dubbio, la responsabilità, l’autentica libertà della coscienza. La loro formazione culturale dovrebbe portarli a conoscere, non meno di altri, come tra la vita e la morte vi sia una zona grigia. Non c’è bisogno di essere credente per sapere che nessuno può pretendere di conoscerla e, a maggior ragione, di normarla. In questa zone grigia, ciò che può essere terapia inutile per un individuo deve considerarsi cura per un altro: anche per questo non ci si può illudere di vietare per legge l’accanimento terapeutico né di risolvere il problema attraverso quelle specie di polizze sul dolore che, se male intesi, possono divenire i cosiddetti “testamenti biologici”. Ogni caso è diverso dall’altro, sottoposto agli imprevisti e alle conseguenze non intenzionali che costituiscono l’essenza di ogni esistenza. Per questo la soluzione, in ultima analisi, può essere trovata soltanto nell’interazione e – laddove è possibile – nel dialogo tra medico e paziente vigilato da un livello di responsabilità che deve fare appello alla coscienza professionale assai più che al diritto. Il primo a comprenderlo fu Ippocrate che, non a caso, col suo giuramento ha richiesto congiuntamente il rispetto della vita e il rispetto della persona.
Non si tratta di “relativismo antropologico” bensì, al contrario, di affermare l’unicità della persona umana come il presupposto di tutti i suoi diritti inalienabili. Se cade questa convinzione, il mondo diverrà preda dei costruttori d’utopie. L’abbiamo scampata una volta. Non facciamo in modo che ciò che si è cacciato dalla porta, possa rintrufolarsi in mezzo a noi sotto mentite spoglie passando per la finestra.
da Il Giornale