Mai come in questi ultimi tempi si è parlato tanto di teo-con. Essi sono assurti agli onori delle cronache dopo il discorso pronunziato dal Santo Padre a Ratisbona. Con ancora maggiore evidenza dopo la prolusione del Cardinal Tettamanzi alle assise di Verona da tanti considerata una scomunica dei teocon e il successivo intervento di Benedetto XVI, generalmente letto come una fulminea riabilitazione. Le citazioni si sono poi addirittura sprecate in questi giorni, nei commenti alle elezioni americane di middle term.
Se ne è parlato tanto ma per lo più a vanvera. A questa infelice definizione sono stati attribuiti i significati più strumentali: per taluni i teo-con sono i cattolici più conservatori e integralisti; per altri dei disprezzabili “atei devoti” alla Maurras; per altri ancora dei convertiti di fresco che, in quanto neofiti, non accettano che la forza della loro passione possa contaminarsi con il necessario compromesso. Questa confusione di significati ha reso difficile persino polemizzare. Accade che si perda del tempo per rispondere a critiche vanesie frutto d’incontinenza intellettuale (è vero professor Magris?), mentre si lasciano inevase quelle che ai teo-con pongono interrogativi più seri. Di quest’ultimo tipo sono, ad esempio, le domande poste dal Cardinal Scola nell’ultimo numero della rivista Oasis, dedicato al confronto tra la Chiesa e l’11 settembre 2001. Ci verremo ma, per cominciare, è necessario provare a mettere un po’ d’ordine in questo guazzabuglio.
Chi sono i teo-con.
I teo-con nascono negli Stati Uniti, all’interno di un think-tank denominato American Enterprise Institute laddove un gruppo di analisti, prendendo in esame la situazione del mondo dopo la fine della Guerra Fredda, comprese per tempo le caratteristiche del nuovo conflitto che andava preparandosi. Essi sostennero, in particolare, che la sparizione dell’Unione Sovietica avrebbe riunificato la forza di due diversi anti-occidentalismi presenti nel mondo islamico che la logica bipolare fin lì aveva invece contrapposto e, per questo, in parte annullato: quello espresso dalla componente islamico-fondamentalista rinata a partire dalla rivoluzione komeinista e quello della componente più secolarizzata, erede della tradizione baath. Dal primo filone provenivano i guerriglieri che avevano combattuto in Afghanistan contro le truppe d’occupazione sovietica i quali, per questo, si erano attribuiti il merito d’aver svolto un ruolo decisivo nel crollo dell’Urss pretendendo, per questo, di controllare il Paese da loro liberato. Il secondo, invece, era tradizionalmente filo-sovietico, per gli stessi motivi per i quali nel corso della seconda guerra mondiale era stato filo-hitleriano. Gli stati che vi hanno fatto parte (tra i quali l’Iraq di Saddam Hussein) hanno sempre provato a individuare la maggiore insorgenza anti-occidentale al di fuori dei confini ristretti del Medio-Oriente, per poi stringervi un’alleanza strategica contro il nemico comune. Quando l’Urss cadde, i due filoni si riunirono in un comune e condiviso anti-americanismo. Da qui l’alleanza tra il terrorismo internazionale e quelli che, a posteriori, furono detti “stati canaglia”. Da qui anche le radici di quell’attacco all’America e al mondo occidentale emerso con incredibile fragore l’11 settembre 2001.
Al cospetto di questo scenario inedito nacquero, tra l’altro, sul terreno politico-strategico, le teorie sulla guerra asimmetrica, le strategie d’intervento diretto in Medio Oriente, l’impegno ad esportare la democrazia. Fu una “svolta” nella politica estera americana, ancora più notevole perché compiuta da un’amministrazione repubblicana. Essa coniugò, con esiti inediti, la rivalutazione dei principi della sovranità nazionale con quell’universalismo democratico che da Wilson in poi rientra tra gli intermittenti indirizzi assunti dai Presidenti degli Stati Uniti perlopiù democratici (anche se, in tal senso, in campo repubblicano già prima di Bush jr. fu Reagan a fare eccezione).
Su questo sfondo s’inserisce il contributo dei cosiddetti teo-con. Essi, considerando in particolare le implicazioni religiose della crisi mondiale esplosa l’11 settembre, ritennero che una risposta esclusivamente in termini politico-strategici fosse insufficiente. Sarebbe stato necessario intervenire anche sul terreno culturale. Fu teorizzato, in particolare, che la matrice fondamentalistica-islamica dell’attacco nei confronti dell’Occidente la si sarebbe dovuta contrastare con la riscoperta delle radici giudaico-cristiane del mondo Occidentale. Non al fine di rinfocolare il conflitto ma nella convinzione che solo laddove vi siano convinzioni forti e profonde da ambo le parti sia possibile attivare un effettivo confronto, scoraggiando la tentazione di uno dei contendenti di sopraffare il proprio interlocutore. Da qui il grido d’allarme contro il rischio che il relativismo culturale potesse corrodere dall’interno la tenuta della civiltà occidentale e, in tal modo, magari involontariamente, incoraggiare coloro i quali hanno l’obbiettivo di piegarla attraverso l’uso del terrore. Da qui anche la riscoperta dei fondamenti che, nella nostra parte di mondo, si era preso a considerare in maniera irriflessa. Da qui, infine, gli inviti a considerare la difesa delle conquiste civili connesse alla nostra tradizione come un terreno d’impegno che possa accomunare credenti e non credenti. Non casualmente, nel gruppo di quanti giunsero per primi a queste conclusioni vi erano cattolici, protestanti e agnostici uniti da una comune riflessione, e non già da un’irrefrenabile spinta alla conversione.
I teocon sono stati sconfitti?
A questo punto, se si è riusciti a diradare almeno un po’ della nebbia che ha fin qui avvolto i teo-con, è più facile rispondere ad alcuni quesiti intorno alla validità delle loro analisi e delle loro proposte. Tra i più seri, come si è detto, quelli del Cardinale Angelo Scola che senza ricorrere a perifrasi si chiede, innanzi tutto, se sia corretto, e sopattutto utile, nel dialogo con il “grande Oriente”, accreditare un’identificazione assoluta tra il cristianesimo e la civiltà occidentale. Sulla scorta di tale interrogativo, e alla luce dell’esperienza degli ultimi anni, si domanda poi se l’esportazione della democrazia non sia stata una pretesa intellettualistica e astratta e se, al cospetto di quel fallimento, non ci sia oggi da rivalutare il pacifismo profetico al quale Giovanni Paolo II concesse tanta forza, al momento delle decisioni sulla guerra in Iraq. L’eco di questi stessi interrogativi è sembrato risuonare nelle sentenze di condanna – assai spesso più rozze – che in tanti si sono affrettati a pronunziare dopo la sconfitta di Bush nelle recenti elezioni parziali: quei risultati, ancor più che punire una politica, avrebbero segnato il tramonto di un’analisi. Proprio quella che i cosiddetti teo-con, con più coerenza e completezza di altri, avevano proposto dopo l’11 settembre. A me pare, invece, che questa risposta risulti quanto meno affrettata.
Scola, infatti, ha ragione quando individua l’errore – innanzi tutto storico – di chi sovrappone Occidente e cristianesimo. Quel che però preoccupa, e dovrebbe vieppiù preoccupare la Chiesa, è che a tale percezione sbagliata nel mondo islamico non corrisponda alcuna realtà effettiva. A Ovest, infatti, il legame tra cristianesimo e democrazia è percepito in modo sempre più rarefatto: soprattutto in Europa. E questa è, tra l’altro, la causa del fatto che l’impegno per la diffusione della democrazia sia stata intesa come semplice esportazione di procedure con un insufficiente riguardo per i suoi fondamenti e i suoi principi inalienabili. La pratica, così intesa, oltre che inutile, può rivelarsi dannosa. Essa sta rischiando di legittimare quell’infausto connubio tra democrazia e relativismo già denunziato da Giovanni Paolo II, concedendo la patente della sovranità popolare a dittatori e gruppi terroristici. Il rischio è sotto i nostri occhi: cosa è accaduto in Iran dopo la vittoria di Abadinejad? E all’interno dell’Autorità palestinese con la vittoria di Hamas? E cosa accadrebbe in Libano se, come taluni propongono, si accettasse senza scandalo il doppio ruolo degli Hezbollah come forza “di lotta” e di governo?
Queste domande, però, se da un canto evidenziano le insufficienze di una politica chiamando in causa anche responsabilità precise sul modo d’interpretare il dopo-guerra iraqueno, dall’altro non debbono condurre a rimettere le nostre responsabilità di fronte ai rischi che l’equilibrio mondiale sta correndo. E non dovrebbero indurre a far ciò nemmeno la Chiesa. Al cospetto dell’escalation del fondamentalismo e della violenza terroristica da esso ispirata la speranza resta che i principi di fondo della democrazia divengano sempre più contagiosi, utilizzando anche il veicolo del confronto tra le religioni. Solo in tal modo tra l’altro, fede e ragione potranno tornare a comunicare anche oltre i confini della cristianità mettendo a bando la violenza e il terrore, così come auspicato da Benedetto XVI.
Su questo punto gli americani non sono tornati indietro e tanto meno hanno smentito le analisi dei teo-con. Nell’ultima tornata elettorale, non casualmente, sono stati premiati quei candidati democratici che non si erano opposti alla guerra in Iraq. Ancor meno casualmente, nel mentre si puniva l’amministrazione repubblicana, tanti referendum in difesa dei principi indisponibili selezionati dalla cristianità hanno visto prevalere quella right nation che non ha disarmato. L’America, insomma, non ha inteso mettere in dubbio la scelta dell’intervento laddove la libertà è oppressa e i diritti inalienabili delle persone conculcati, e nemmeno l’acquisizione che la modernità economica, per evitare di autodistruggersi, non possa comportare dosi sempre più massicce di secolarizzazione.
A me pare, piuttosto, che essa abbia voluto punire il modo nel quale è stata interpretata una politica assai più che i suoi contenuti. L’Europa non lo comprenderà ma il fatto che questi contenuti siano oggi compatibili persino con il successo dei democratici finisce, paradossalmente, per rafforzarli.
da Il Giornale