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Intervento al Convegno annuale dell’Associazione Italiana Costituzionalisti
Padova 22-23 ottobre 2004

1. Responsabilità dei “giudici”, responsabilità dei “magistrati”, responsabilità del pubblico ministero.

Qualche precisazione terminologica, per cominciare, con riferimento ai concetti di “responsabilità” e “giudici”.

Iniziando dal secondo termine, mi è stata assegnata una relazione dal titolo “la responsabilità dei giudici”, non invece “la responsabilità dei magistrati”, e devo prendere sul serio la differenza. Come immagina chiunque si sia avvicinato ai problemi costituzionali dell’ordine giudiziario, non si tratta di una sfumatura. Credo appartenga alla nostra consapevolezza il fatto che il termine “giudice” non può essere inteso genericamente come sinonimo di “magistrato”. Il titolo della relazione assegnatami, pertanto, significa all’apparenza che dovrei non affrontare il tema della responsabilità del pubblico ministero. Questo, o sul presupposto che tale tema sia ricompreso in altre relazioni, oppure sul presupposto che questo tema non presenti caratteri rilevanti di peculiarità, per cui potrebbe ritenersi assorbito da una trattazione di carattere generale riferita alla sola responsabilità del magistrato giudicante.

Si tratta di due prospettive alquanto diverse. La mia opinione è che, con riferimento alla responsabilità del magistrato del pubblico ministero, esistano aspetti di carattere ordinamentale e funzionale tali da giustificare una trattazione per qualche parte distinta da quella relativa alla responsabilità dei giudici. Già la sola considerazione della diversa natura della funzione svolta invoglia a considerare come potenzialmente diverse le forme di responsabilità derivanti dall’esercizio di una tale funzione. Non insisto oltre sul punto, per non evocare questioni relative all’eterna discussione in punto di reale (o fittizia) obbligatorietà dell’azione penale, problema che i processualpenalisti conoscono bene.

Preciso che l’ipotetica trattazione distinta della responsabilità del p.m., tale sarebbe comunque solo “per qualche parte”, perché, in relazione alle linee di fondo della responsabilità civile e disciplinare, la posizione del magistrato del pubblico ministero è identica a quella del giudice, come si desume, per la responsabilità civile, dal tenore testuale della legge n. 117 del 1988 (art. 1), e, per la responsabilità disciplinare, dall’unitario riferimento costituzionale, per tutti i magistrati ordinari, al ruolo del Consiglio superiore.

A dimostrazione, tuttavia, del fatto che la responsabilità del p.m. può presentare aspetti differenziati, propongo due esempi, relativi a due questioni particolarmente controverse.

Primo esempio. Come riconobbe la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 52 del 1976), le disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di poteri del capo dell’ufficio sui sostituti non possono essere ritenute illegittime se per alcuni momenti, con riferimento ai quali appare più pronunciato il carattere impersonale della funzione, atteggiano a criteri gerarchici l’attività dell’ufficio. So bene che l’art. 70 dell’ordinamento giudiziario, in materia di poteri del titolare, ha subito modifiche che hanno in parte attenuato la preminenza gerarchica di quest’ultimo, ma, com’è noto, il tema è rimasto sul tappeto e, in più, il disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario torna a incidere in modo rilevante sul punto, nel senso di una ri-gerarchizzazione interna all’ufficio (cfr. l’art. 4).

L’esempio è dunque rilevante perché allude alla possibile esistenza di una forma di responsabilità del sostituto nei confronti del procuratore titolare: e non alludo tanto alle possibili conseguenze che in capo al sostituto “ribelle” possono derivare in termini di responsabilità disciplinare, ma piuttosto al fatto che sembra qui profilarsi una forma di responsabilità verso un soggetto, una situazione, cioè, in cui la responsabilità funziona, prima ancora che come sanzione (disciplinare o d’altra natura), come strumento conformativo di un’attività a orientamenti altrui. Prima e indipendentemente dal subire conseguenze (disciplinari) per l’eventuale inosservanza dei criteri o delle direttive ricevute per la trattazione dei procedimenti, il sostituto diventa responsabile nel senso che dovrebbe conformare la propria attività – particolarmente quella d’indagine – appunto ai criteri e alle direttive del capo dell’ufficio. Si tratta di una forma di responsabilità che, come vedremo, è di regola radicalmente esclusa dall’ambito dei rapporti tra magistrati giudicanti, (e, a fortiori, dall’ambito dei rapporti tra giudici e altri poteri) perché idonea a ledere in modo irrimediabile la loro indipendenza funzionale, interna ed esterna, garantita dall’art. 101, comma 2, cost. e dalla soggezione solo alla legge ivi prevista.

Se e come una tale responsabilità sia invece ammissibile e conforme ai principi costituzionali per quanto concerne il pubblico ministero, sarebbe ovviamente il tema specifico da affrontare, ma appunto in modo distinto rispetto alla questione della responsabilità dei giudici.

Secondo esempio. Come è ben noto, si discute da tempo della possibile introduzione, nel nostro ordinamento giudiziario, dei cosiddetti criteri di priorità nell’esercizio, pur sempre obbligatorio, dell’azione penale. E’ una questione molto controversa, che mette in tensione non solo il principio di cui all’art. 112 cost., ma, più in profondità, lo stesso principio dell’eguale soggezione di tutti alla legge penale, e sollecita anche riflessioni sul rapporto tra scelte tecniche o discrezionali, da una parte, e il tipo di legittimazione che deve vantare chi voglia compierle, in un ordinamento democratico.

Una decisione della sezione disciplinare del C.S.M. (decisione 20 giugno 1997) ebbe ad affermare che l’impossibilità di tempestivamente esaurire la trattazione di tutte le notizie di reato implica che non ci si può sottrarre al compito di elaborare criteri di priorità: criteri che, una volta scontato come irragionevole il criterio che facesse mero riferimento al caso e alla successione cronologica della sopravvenienza delle notizie, non potrebbero non derivarsi, in ossequio alla soggezione anche dei pubblici ministeri solo alla legge, dalla gravità e/o offensività sociale delle singole specie di reati. In assenza di indicazioni di priorità provenienti dal Procuratore della Repubblica – proseguiva la sezione disciplinare – sarebbe inevitabile che tali criteri siano individuati dai singoli sostituti. Ciò non suonerebbe offesa all’obbligatorietà dell’azione penale, concludeva la decisione, nei limiti in cui tale soluzione non derivi da considerazioni di opportunità relative alla singola notizia di reato, ma trovi causa nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario nel suo complesso, e della singola Procura della Repubblica in particolare.

Come si vede, una decisione che affronta una questione di notevole rilievo e che pur essendo rimasta isolata, a quanto ne so, sollecita anche una riflessione sul tipo di responsabilità che deriverebbe in capo al pm dal compimento di scelte di priorità di questo genere, nell’ambito di un ragionamento difficilmente estensibile all’attività del magistrato giudicante. Non si può infatti non pensare – a parte ogni obiezione fondata sul rispetto degli artt. 3 e 112 cost. – che la elaborazione di criteri generali di priorità quanto alla trattazione delle notizie di reato può richiedere vere e proprie decisioni di politica criminale e giudiziaria, che possono presentarsi quali manifestazioni di una più generale potestà di indirizzo politico. E non si può non obiettare che si tratterebbe di scelte da affidare, quanto meno in prima istanza e nelle linee generalissime, ad organi politici dotati di legittimazione democratica: mentre resterebbe largamente incomprensibile il loro affidamento a magistrati reclutati per concorso, forniti di una legittimazione tecnica e non politico-democratica, e soprattutto politicamente irresponsabili. Ovvero, ragionando all’inverso, tale affidamento esigerebbe di essere affiancato da forme di responsabilità del p.m. (che decide criteri di priorità) appunto vicine alla responsabilità che definiamo politica, quindi del tutto inusuali per un magistrato nella nostra tradizione, e comunque assai peculiari ed estranee ai ragionamenti in tema di responsabilità dei magistrati giudicanti.

Questi due esempi, e vari altri se ne potrebbero fare, mostrano che il tema della responsabilità del magistrato del pubblico ministero richiederebbe, per qualche aspetto, una distinta considerazione. Ma è un tema che non posso affrontare oltre quel poco che ne ho detto, nell’ambito di una relazione specificamente dedicata alla sola responsabilità dei magistrati giudicanti.

2. Quale concetto di responsabilità?

Si è appena visto, nel primo degli esempi relativi alla responsabilità del p.m., che sarebbe possibile identificare, nei suoi riguardi, una forma di responsabilità intesa come responsabilità verso un altro soggetto, ovvero come strumento conformativo a orientamenti altrui.

In effetti, oltre alla identificazione delle forme e dei procedimenti per farla valere, l’affermazione della responsabilità di un soggetto può preliminarmente implicare la necessità di identificare quell’altro soggetto, nei confronti del quale il primo assume responsabilità.

Ma prendere questa direzione significherebbe già fare una scelta molto impegnativa. E’ infatti possibile tracciare (come fa G. Zagrebelsky, La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento: prospettive di riforma, in Giur. cost. 1982, p. 780-781) una grande distinzione tra due tipi di responsabilità, molto diversi quanto al fine che perseguono: da una parte la responsabilità come strumento sanzionatorio di atti illeciti (attraverso misure sanzionatorie o risarcitorie), dall’altra la responsabilità appunto come strumento di conformazione di un’attività (magari lecita) a orientamenti espressi da altri. E’ verosimile sostenere che solo il primo tipo di responsabilità non instaura una forma di dipendenza tra il soggetto responsabile e colui a cui si risponde. Solo qui, infatti, si avrebbe a che fare con un rapporto “pienamente oggettivato”, ove conta, quale presupposto, l’esistenza di divieti normativamente imposti, la cui violazione è fatta valere da un soggetto terzo, posto in posizione disinteressata rispetto ai soggetti del rapporto. Nel secondo tipo di responsabilità, invece, può verificarsi l’esistenza di una forma di dipendenza tra il responsabile e colui in favore del quale la responsabilità è stabilita: il rapporto non è oggettivato, manca un terzo imparziale che decide della violazione di un divieto, e il soggetto nei cui confronti si risponde è anche colui al quale è rimesso il compito di far valere in concreto la subordinazione del responsabile. In particolare, il presupposto di questo tipo di responsabilità non è l’esistenza di divieti, ma l’obbligo di concordanza di orientamenti (si pensi all’esempio del rapporto tra procuratore della repubblica e sostituti).

Ora, se si considera che il tema in discussione è quello della responsabilità dei giudici, e non di altri pubblici funzionari, parrebbe necessario precisare che, in questa relazione, il concetto di responsabilità cui si farà riferimento è necessariamente il primo. Il secondo, infatti, evoca inevitabilmente possibili lesioni o diminuzioni del fondamentale principio costituzionale che si rapporta dialetticamente a quello di responsabilità, cioè l’indipendenza. Con riferimento ai giudici, l’art. 101, comma 2, cost. impedisce ovviamente di ragionare di una loro conformazione ad altro che non sia la legge (a prescindere qui dal significato che si intenda attribuire al termine “legge”). Perciò, quando si ragiona di responsabilità civile o disciplinare dei giudici, si dovrebbe aver cura di sottolineare che se ne tratta come di strumenti e procedure che consentono, da parte di un soggetto posto in condizione di terzietà, di sanzionare oggettivamente, quindi in ossequio a ciò che la legge prevede, comportamenti o atti illeciti, senza pretendere la conformazione a orientamenti o volontà di qualche soggetto od organo o persona fisica, e senza perciò compromettere l’indipendenza del soggetto responsabile.

Nello stesso ordine di idee, ogni ragionamento sulla responsabilità politica dei giudici dovrebbe preliminarmente scontare la circostanza che essa sembra appartenere concettualmente al secondo tipo di responsabilità: giacché l’essere responsabili politicamente sembra evocare la necessaria conformazione del soggetto responsabile alle opinioni e agli orientamenti di un altro soggetto (il popolo, l’opinione pubblica ecc.). Ed anzi, la responsabilità politica è considerata (sempre da G. Zagrebelsky, op. cit. p. 792) la quintessenza della responsabilità che comporta dipendenza.

D’altra parte, è anche vero che le tradizionali formule con le quali si indicano le forme di responsabilità dei giudici – fondamentalmente la responsabilità civile e disciplinare – rischiano di apparire poco espressive e comunicative, ovvero troppo burocratiche, o ancora inidonee ad indicare il ruolo che il principio di responsabilità può oggi svolgere, con riferimento al fondamentale ruolo del giudice nelle società contemporanee. Sicché è comprensibile che si provi ad utilizzare formule diverse: così, ad esempio, in luogo di responsabilità civile, appare più appropriata la formula “responsabilità verso le parti del processo”; in luogo di responsabilità disciplinare può sembrare più espressiva o allusiva la formula “responsabilità verso l’ordine d’appartenenza” o, meglio ancora, “verso l’ordinamento generale dello Stato” (queste ed altre espressioni vengono tematizzate problematicamente in F. Biondi, La responsabilità dei magistrati, Tesi di dottorato, Milano 2003).

Si tratta di formule maggiormente evocative, che mettono meglio in luce anche alcuni reali aspetti contenutistici dei tipi e delle forme di responsabilità che in tal modo rinominano. Per non cadere sotto il sospetto di voler sacrificare all’eccesso l’indipendenza del giudice, sono naturalmente formule che devono essere accompagnate dalla precisazione che con esse non si intende anche evocare l’aspetto conformativo ad orientamenti altrui, tipico di una forma di responsabilità come s’è visto incompatibile con la funzione giudicante.

3. Responsabilità e indipendenza

Nella nostra tradizione, una certa diffidenza nei confronti di ogni affermazione di responsabilità del giudice è probabilmente dovuta anche alla mancata distinzione tra i due menzionati tipi di responsabilità, sicché ancor oggi pare funzionare la facile banalizzazione consistente nell’opporre concettualmente responsabilità e indipendenza: mentre si dovrebbe considerare subito che la responsabilità come sanzione di atti illeciti non necessariamente si accompagna a dipendenza, e perciò a una lesione dell’indipendenza.

Anche dopo l’avvento della Costituzione repubblicana, appare forte la convinzione secondo cui ogni affermazione in via normativa di una responsabilità del giudice va guardata con sospetto, in quanto idonea a metterne a rischio l’indipendenza. Ciò accade nonostante la nostra Costituzione non preveda a favore dei magistrati esplicite esenzioni da responsabilità o immunità paragonabili a quelle di altri soggetti ed organi costituzionali, ed anzi si esprima a più riprese nel senso dell’esistenza di forme di responsabilità in capo ai giudici o comunque derivanti dall’attività giudiziaria.

Come è noto, l’art. 28 cost., pacificamente applicabile ai magistrati, afferma la diretta responsabilità dei funzionari pubblici per gli atti compiuti in violazione dei diritti, e costituisce il punto di riferimento per la normativa sulla responsabilità civile dei giudici. Dagli artt. 105 e 107 cost., inoltre, si evince che la presenza nell’ordinamento di una disciplina relativa alla loro responsabilità disciplinare costituisce una scelta costituzionalmente obbligata, che lascia margini di discrezionalità al legislatore ordinario quanto alla individuazione delle modalità attraverso le quali quella responsabilità sarà fatta valere, ma che certo non potrebbe essere azzerata o ridotta ai minimi termini. (ma vedi infra, § 8).

Tuttavia, questi indici testuali sono sopravanzati da una tradizione culturale, anche (e largamente) precostituzionale, che, da un lato, ha sempre ritenuto l’affermazione di responsabilità del magistrato in potenziale contrasto con la garanzia della sua indipendenza, dall’altro, in modo ancor più radicale, ha fatto leva sulla natura meramente esecutivo-applicativa della funzione giudiziaria per escludere che da essa potesse derivarne una qualche responsabilità.

Questa tradizione fa ancora sentire il suo peso nell’interpretazione delle norme costituzionali che garantiscono l’indipendenza della magistratura nel suo complesso e del singolo magistrato nell’esercizio delle sue funzioni.

Se l’art. 104, comma 1, cost. precisa che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, è soprattutto l’art. 101, comma 2 cost., a presentarsi sulla scena carico del peso della tradizione. E nella visione tradizionale, la soggezione del giudice soltanto alla legge non solo caratterizza lo status di indipendenza del giudice nell’esercizio delle sue funzioni, non solo è sintesi efficace di gran parte dell’esperienza giuridica e istituzionale vissuta dalla cultura continentale europea post rivoluzione francese, ma ha sempre avuto un’importanza decisiva nella ricostruzione tradizionale dei rapporti tra funzione giudiziaria e responsabilità. L’art. 101, comma, 2, cost. sottolinea l’indipendenza del giudice, non solo da organi e poteri esterni alla magistratura, ma anche dagli altri giudici, e disegna un rapporto diretto – non mediato da alcun altra istanza – tra il giudice e la norma da applicare, che egli interpreta e applica alla controversia da decidere. Soprattutto, nella nostra tradizione, tale disposizione rivela che l’indipendenza funzionale del giudice non equivale all’arbitrio, ma ha senso solo nell’ambito di ciò che la legge prevede. Se il giudice abbandona il terreno all’interno del quale gli è possibile sussumere sotto norme generali e astratte la fattispecie concreta da decidere, “in tal caso non può più essere un giudice indipendente, e nessuna apparenza di giurisdizionalità può allontanare da lui questa conseguenza” (C. Schmitt, Der Huter der Verfassung (1931), trad.it. Il custode della Costituzione, p.). Nella tradizione del costituzionalismo liberale, indipendenza del giudice e sua soggezione alla legge sono in effetti le due facce della stessa medaglia: l’una non è pensabile senza l’altra. In questa visione, la legge fornisce al giudice la norma, solitamente generale e astratta, da applicare al caso concreto, e precostituisce così l’unico vincolo ammissibile alla funzione giudiziaria.

Dietro alla norma, il giudice ripara dunque la propria indipendenza e su di essa fonda la propria impermeabilità ad influenze di altro genere. Ma soprattutto, dal punto di vista che più ci interessa, dietro alla norma e nella soggezione ad essa il giudice acquista anche, sia pur entro certi limiti, una sostanziale irresponsabilità. Se è la legge a contenere le decisioni politiche complessive, che il giudice è semplicemente incaricato di inverare nei singoli casi sottoposti al suo giudizio, la sua attività di mera applicazione non può che essere sostanzialmente esente da responsabilità. “Dove non c’è potere, non ci può essere responsabilità”, si potrebbe dire parafrasando in negativo Léon Duguit.

In effetti, nella tradizione costituzionale liberale l’indipendenza del giudice ha un significato opposto all’indipendenza assicurata, ad esempio, al rappresentante parlamentare nei confronti dei suoi elettori e del suo partito d’appartenenza: mentre l’indipendenza garantita al rappresentante ha lo scopo di consentirgli di svolgere una funzione eminentemente politica, l’indipendenza garantita al giudice ha esattamente la funzione opposta, quello cioè di impedirgli ogni discrezionalità politica, ogni sconfinamento da ciò che è normativamente prestabilito dalla legge. E chi non ha discrezionalità politica non esercita potere, e quindi non può essere chiamato a rispondere. Semmai, in casi estremi, potrà essere sanzionato il suo eventuale tentativo di sottrarsi alla soggezione alla legge, attraverso interventi di tipo creativo. Detto per inciso, dimostra così di essere irrimediabilmente legata a queste tradizionali ricostruzioni quell’ipotesi di illecito disciplinare contenuta nelle prime versioni dell’attuale progetto di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, facile bersaglio di molte ironie, ove si sanzionava “l’attività di interpretazione di norme di diritto che palesemente e inequivocabilmente sia contro la lettera e la volontà della legge o abbia contenuto creativo” (sul punto v. particolarmente infra, § 7).

4. “Là où est la responsabilité, là est le pouvoir”.

Come tutti sappiamo e come non è necessario ripetere, le tradizionali ricostruzioni sulla natura meramente esecutivo-applicativa dell’attività giudiziaria si fondano su una serie di presupposti e condizioni di cui è facile mostrare l’irrealismo. La legge spesso non è fatta né di comandi generali e astratti, né di norme chiare, complete e facilmente interpretabili. Nei nostri ordinamenti, la legge spesso non è neanche un punto di arrivo definitivo, dal quale il giudice possa partire per determinare con sicurezza la volontà dell’ordinamento nelle fattispecie particolari: costituendo piuttosto l’esito di compromessi parziali e imperfetti, che generano risultati non univoci, l’entrata in vigore di una legge, anziché rappresentare l’introduzione di una nuova regola dal contenuto determinato e misurabile, costituisce il punto di partenza di una “lotta” per la specificazione del suo significato, e, dunque, per la definizione della regola stessa (M. Dogliani, La formazione dei magistrati, in Magistratura, Csm e principi costituzionali, a cura di B. Caravita, Roma-Bari 1974, p. 140). La funzione giudiziaria e l’interpretazione non consistono – non sono mai consistite, nemmeno all’epoca del Code Napoléon – in operazioni meccaniche di adattamento e applicazione a una particolare controversia di ciò che in astratto è stato deciso dalla legge. Nella lotta per la specificazione del significato delle regole poste dal legislatore, l’intervento applicativo e interpretativo del giudice è un momento essenziale. Il giudice non si limita ad applicare meccanicamente la decisione politica assunta in via generale dal legislatore, bensì attribuisce alla legge uno dei significati possibili (e lessicalmente tollerabili), e da questo punto di vista la sua è una vera decisione, spesso orientata da una pre-comprensione del singolo caso, alla luce di valori soggettivi. Ben lungi dal presentarsi come mera bocca della legge, il giudice acquisisce una fondamentale funzione “ordinamentale”, nel senso letterale del termine: di fronte a leggi al contenuto non univoco o decisamente oscure, di fronte a un legislatore talvolta distratto o inadempiente, talaltra del tutto impari al suo compito, il giudice si trova, cioè, investito della formidabile funzione di provare a “rimettere ordine”, attraverso le sue decisioni, negli sparsi elementi del compromesso legislativo, ridando così unità e coerenza al diritto attraverso la sua applicazione ragionevole ai casi. Anche nei nostri ordinamenti, come in quelli di common law, il diritto di origine giurisprudenziale si affianca così, con importanza fondamentale, alla legge prodotta dagli organi a ciò legittimati.

Ma se questa è, a grandi linee, la situazione a tutti ben nota; se diamo per scontato il carattere inevitabilmente “creativo” dell’attività interpretativo-applicativa della funzione giurisdizionale, se attribuiamo addirittura ad inammissibili anacronismi ogni tentativo di imbrigliarla (come nella norma, prima ricordata, del progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario), quale risposta è in grado di dare, la nostra scienza giuridica, agli interrogativi sulla responsabilità inevitabilmente connessa alla discrezionalità giudiziaria di cui si sperimenta quotidianamente l’importanza?

La frase di Duguit suonava effettivamente: “Là où est la responsabilité, là est le pouvoir”. Nel caso della funzione giudiziaria, è giocoforza riconoscere che, se ci basassimo sulle imputazioni reali di responsabilità che nel nostro ordinamento sono possibili nei confronti di tale funzione, dovremmo riconoscere che ad essa è attribuito ben scarso potere. Ma la realtà, come tutti sappiamo, è molto diversa. Ciò indica la presenza di un evidente squilibrio, dal cui riconoscimento occorre partire.

5. Lo stato dell’arte: la responsabilità civile

Se volgiamo in effetti l’attenzione a ciò che è normativamente previsto in tema di responsabilità del giudice, e al modo in cui tali discipline sono interpretate ed applicate, lo squilibrio di cui si diceva appare evidente.

In primo luogo, i congegni previsti dalla legge sulla responsabilità civile (l. 13 aprile 1988, n. 117) ne hanno determinato la sostanziale ineffettualità.

Sarebbe certamente ingiusto non considerare che, particolarmente nel caso della responsabilità civile, il problema di fondo è conciliare la praticabilità di una responsabilità effettiva con la garanzia che l’indipendenza funzionale del giudice non si converta in una sorta di sua soggezione, o di timore reverenziale, nei confronti delle parti processuali, pronte a inchiodarlo alle sue – purché gravi – colpe.

Noi sappiamo, perché la giurisprudenza costituzionale ce lo ha ricordato, che l’art. 28 cost. è il fondamento della responsabilità civile dei giudici. Ma sappiamo anche che non è facile trasporre le formule dell’art. 28 cost., e i tipi di responsabilità che esso disegna (la responsabilità diretta del funzionario e quella dello Stato), alla particolare posizione del giudice rispetto allo Stato e rispetto alla società. Egli è funzionario dello Stato-persona e però, anche, intermediario (come è stato detto da G. Zagrebelsky) tra lex e iura e quindi, in una condizione per così dire intermedia tra Stato-apparato e società. Egli è legato da un rapporto organico e da un rapporto di servizio con l’amministrazione statale ma la Costituzione garantisce la sua indipendenza funzionale e istituzionale dagli organi politici, in particolar modo dal potere esecutivo.

Ora, una scelta netta in favore della responsabilità diretta, senza filtri, del giudice nei confronti delle parti del processo accentuerebbe fortemente la sua dimensione di giudice-espressione della comunità sociale, a diretto contatto con i diritti dei soggetti privati. Una disciplina invece analoga a quella degli altri funzionari pubblici manterrebbe maggiormente l’accento sulla statualità della funzione giurisdizionale e sul rapporto organico del giudice con lo Stato apparato. Tuttavia, alla luce della giurisprudenza costituzionale, nessuno dei due modelli sembra praticabile nella sua esclusività. Da un lato, dice la Corte costituzionale, il legislatore ordinario possiede una certa discrezionalità nel regolare il rapporto tra responsabilità civile dei giudici e responsabilità dello Stato, purché però quella dei giudici non sia totalmente esclusa (pena la violazione degli artt. 28 e 3, con riferimento alla posizione degli altri dipendenti pubblici) e quella dello Stato si estenda almeno fino al punto in cui giunge quella dei primi. Dall’altro, soprattutto nelle sentenze meno risalenti sul tema (v. particolarmente le sentt. n. 26 del 1987 e n. 468 del 1989), la Corte nega che il legislatore possa liberamente scegliere se applicare ai giudici una disciplina differenziata o lasciare che ad essi si applichi la comune disciplina generale in tema di responsabilità civile, affermando anzi la necessarietà, alla luce della Costituzione, di una specifica e distinta disciplina sulla loro responsabilità: una differenziazione costituzionalmente necessaria proprio in ragione della tutela della loro indipendenza.

In tutta la giurisprudenza costituzionale sul punto, la pur chiara affermazione della configurabilità e della opportunità di una responsabilità civile del magistrato, che la Corte riconosce, appare infatti nettamente condizionata dalla necessità di coniugare responsabilità e indipendenza, in un bilanciamento nel quale, tuttavia, la salvezza della seconda sembra centrale.

In una sorta di equilibrio precario, sempre a rischio di sbilanciamento a favore della tutela dell’indipendenza, il risultato cui sembra giungersi è che alla legge è consentita l’affermazione, in capo ai magistrati, di quel tanto (o di quel poco) di responsabilità che non rischi di minacciare in alcun modo la loro indipendenza. Come dice la Corte, l’obiettivo è la conciliabilità “in linea di principio” dell’indipendenza della funzione giudiziaria con la responsabilità nel suo esercizio (Corte cost., sentenza n. 385 del 1996). Ma ciò appunto significa che, in linea pratica, ogni affermazione di responsabilità del magistrato deve confrontarsi con il significato della garanzia della sua indipendenza.

Così, se pur si dice chiaramente che non sarebbe possibile una esclusione totale della responsabilità civile, perché essa condurrebbe alla violazione dell’art. 28 cost., e anche dell’art. 3 cost., in rapporto alla posizione degli altri pubblici impiegati (sentenza n. 1 del 1962), si è attenti a sottolineare, tuttavia, che la natura dei provvedimenti giudiziali, la stessa posizione di autonomia e di indipendenza dei magistrati possono suggerire condizioni e limiti alla loro responsabilità (sentenza n. 2 del 1968), condizioni e limiti sui quali si esercita l’ampia discrezionalità del legislatore ordinario.

Ancora, se indipendenza non può equivalere a immunità, ovvero se “gli artt. 101, 102, 104 e 108 cost. non valgono ad assicurare al giudice uno status di assoluta irresponsabilità pur quando si tratti di esercizio delle sue funzioni, riconducibile alla più rigorosa e stretta nozione di giurisdizione” (sentenza n. 385 del 1996), il legislatore ordinario è però autorizzato a prevedere meccanismi di tutela dell’indipendenza del giudice nella stessa normativa che ne afferma la responsabilità.

Quando analizza la legge sulla responsabilità civile dei magistrati, la Corte si rallegra del fatto che la disciplina da questa posta sia “caratterizzata dalla costante cura di predisporre misure e cautele idonee a salvaguardare l’indipendenza dei magistrati nonché l’autonomia e la pienezza dell’esercizio della funzione giudiziaria” (sentenza n. 18 del 1989). Perciò, se tale legge prevede (art. 4) che la domanda di risarcimento dei danni subìti – proponibile direttamente solo nei confronti dello Stato (e non del singolo magistrato, con scelta che è apparsa a molti in contrasto con gli esiti del referendum abrogativo del 1987) – sia soggetta a un controllo preliminare di ammissibilità, di tale meccanismo (sentenza n. 468 del 1990) la Corte riconosce il fondamentale rilievo costituzionale. Si tratta, essa afferma, di un importante filtro della domanda giudiziale diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, “perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 cost., nel più ampio quadro di quelle condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati che la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono”.

Qui si potrebbe peraltro subito ricordare quel che a tutti è noto, cioè che il filtro preliminare, questa sorta di autorizzazione a procedere (non più ministeriale!), di fatto, ha contribuito finora a garantire la sostanziale esenzione dei magistrati dalla responsabilità civile.

Ancora, la stessa scelta fondamentale della legge n. 117 del 1988 di proteggere la responsabilità del magistrato “dietro” a quella dello Stato, impedendo alla parte del processo di agire direttamente nei confronti del magistrato, si giustifica fondamentalmente, per la Corte, con la necessità di proteggerne l’indipendenza e la serenità nell’esercizio della funzione, che potrebbe altrimenti essere “turbata” dalla “minaccia” di un’azione di responsabilità (anche se è presente anche l’altra giustificazione: la diretta responsabilità dello Stato garantisce maggiormente la riparazione risarcitoria del cittadino che ha subito un danno ingiusto a causa dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali).

Filtro preliminare e sostanziale inesistenza di una diretta responsabilità del giudice in caso di colpa grave (ben difficile è infatti definire ‘responsabilità del giudice’ quella che si verifica in occasione della rivalsa dello Stato nei suoi confronti: come scrive E. Fazzalari, Una legge difficile, in Giur. cost., 1989, I, 105, la verità è che la responsabilità del giudice è, in caso di colpa grave, soltanto un modo di dire) escono dunque assolti dalla giurisprudenza costituzionale.

Viene naturalmente da chiedersi quanto questa sorta di separatezza e di barriera tra il magistrato e la parte del processo siano in linea con l’art. 28 Cost., nella parte in cui prevede che i funzionari pubblici rispondano “direttamente” degli atti compiuti in violazione di diritti. E’ ben noto come la novità di questa disposizione, sia nei lavori preparatori della Costituzione sia nella giurisprudenza costituzionale, sia stata individuata nella chiara affermazione dell’esistenza di un rapporto diretto tra funzionari e cittadini, come deve avvenire in ogni ordinamento democratico “che mette prima gli uomini degli apparati”.

E viene anche da chiedersi se, anche in questo campo – come ormai accade per qualunque settore del diritto – non bussino forte alle porte del nostro ordinamento giuridico forte cogenze europee, che potrebbero obbligarci a qualche aggiustamento. Mi riferisco al noto principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili, principio che si applica anche allorché la violazione di cui trattasi derivi da una decisione (definitiva) di un organo giurisdizionale (da ultimo cfr. Corte di Giustizia CE, 30 settembre 2003, causa C-224/01 – Gerard Koebler c. Republica d’Austria, in Danno e Responsabilità n. 1/2004, pp. 23 ss.). Ben vero che in tale sentenza si precisa che il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del magistrato, ma quella dello Stato (ciò che metterebbe al riparo il valore dell’indipendenza del giudice, dice la Corte di Giustizia); ben vero che è nell’ambito del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato membro è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato: ma è anche vero che la giurisprudenza europea richiede che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in tema di risarcimento del danno non siano congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’ottenimento di tale risarcimento. E bisognerebbe verificare se la nostra legge sulla responsabilità civile resisterebbe a un serio scrutinio in questa direzione.

Direi riassuntivamente che il nostro modello di responsabilità civile (una responsabilità sostanzialmente indiretta e mediata dallo Stato), a prescindere dalla sua ineffettualità, è forse coerente solo con ciò che il giudice è dal punto di vista burocratico, cioè con l’esistenza di un suo rapporto organico con lo Stato, e con il suo essere funzionario statale assunto per concorso. Ma quella separatezza e quella barriera tra giudice e parti non sono coerenti con una concezione realistica di ciò che fa nella nostra realtà il giudice, quale operatore professionale del diritto accanto ad altri operatori professionali, nell’ambito di una società, e di un mercato di utenti, che al giudice si rivolgono alla ricerca di un servizio.

In particolare, mi sembra altrettanto chiaro che questo modello di responsabilità sarebbe totalmente incoerente se dovesse accentuarsi la tendenza verso forme di accesso “laterali” alla funzione di giudice, attraverso l’ingresso in magistratura di professionalità eminenti di altri operatori del diritto. Per questi ultimi, che entrerebbero in magistratura non attraverso il concorso, essendo inesistente qualunque rapporto di immedesimazione organica con lo Stato, non avrebbe senso prevedere che la loro responsabilità possa “scomparire” dietro quella dello Stato. D’altra parte, i requisiti di alta professionalità sarebbero per costoro gli stessi che per i magistrati di carriera.

La stessa Corte costituzionale (sentenza n. 18 del 1989) ha instaurato un nesso stretto tra professionalità e responsabilità, giustificando la norma di cui all’art. 7, comma 3, della legge n. 117 del 1988, la quale limita alle sole ipotesi di dolo e a specifiche ipotesi di colpa grave la responsabilità civile dei cittadini estranei alla magistratura (di cui tratta l’art. 102 cost.) che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali. Da ciò si potrebbe appunto desumere, invece, che per professionalità eminenti, per le quali si abbiano forme d’ingresso “laterali” in magistratura, anche ulteriori a quelle previste nei commi 2 e 3 dell’art. 106 cost. e comunque coerenti con il principio da tali disposizioni desumibile, la responsabilità non solo non potrebbe subire limitazioni, ma – qui è appunto l’aggiunta – in carenza di rapporto organico potrebbe al contrario anche “aumentare”, anche verso forme di responsabilità realmente diretta. Dopo di che, sarebbe naturalmente da riconoscere l’incongruente coesistenza di un modello di giudice “professionale” direttamente responsabile verso le parti del processo e di un modello di giudice “funzionario”, riparato dietro la responsabilità dello Stato (uso le espressioni in senso parzialmente diverso da quello utilizzato da A. Giuliani – N. Picardi, La responsabilità del giudice, Milano 1995): ma, se si arrivasse a sviluppi di questo tipo, forse vi sarebbe un effetto di trascinamento del primo modello nei confronti del secondo.

6. Segue: la responsabilità disciplinare

Stando così le cose nell’ambito della responsabilità civile, è inevitabile che la responsabilità disciplinare costituisca di fatto, nel nostro ordinamento, l’unica reale forma di responsabilità attivabile nei confronti dei giudici. Ciò ha condotto ad un progressivo mutamento del suo tradizionale significato, e alla circostanza che essa ha dovuto progressivamente farsi carico di compiti e obbiettivi che forse, ragionando in astratto, sarebbero stati e sarebbero meglio raggiungibili da una migliore disciplina della responsabilità civile.

Anche nell’ambito della responsabilità disciplinare, beninteso, l’esigenza di protezione dell’indipendenza del magistrato si fa sentire fortemente, fin dall’inquadramento definitorio del fondamento del potere disciplinare. Così, tale fondamento, dice la Corte, non può essere ricercato, “come per gli impiegati pubblici, nel rapporto di supremazia speciale della pubblica amministrazione verso i propri dipendenti, dovendosi escludere un rapporto del genere nei riguardi dei magistrati stessi sottoposti soltanto alla legge ex art. 101 cost.” (sentenza n. 100 del 1981).

Quella della tutela dell’indipendenza è un’esigenza che si fa sentire fin nelle pieghe del procedimento disciplinare, al quale la giurisprudenza costituzionale tende bensì ad attribuire caratteri vicini a quello giurisdizionale, ma proprio e solo in funzione di una più rigorosa tutela dell’indipendenza del singolo magistrato (ad es. sentenza n. 12 del 1971). Così, anche la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 34, comma 2, r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa farsi assistere da un avvocato del libero foro, viene motivata con la necessità di assicurare al meglio l’indipendenza del magistrato: “con riferimento ai magistrati l’esigenza di una massima espansione delle garanzie difensive si fa, se possibile, ancora più stringente, poiché nel patrimonio dei beni compresi nel loro status professionale vi è quello dell’indipendenza” (sentenza n. 497 del 2000).

Al di là di questo aspetto, va riconosciuta una sorta di inevitabile funzione di supplenza che la responsabilità disciplinare ha svolto nei confronti di quella civile. Supplenza che sembra addirittura codificata dal disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, almeno nelle parti in cui configura, quali ipotesi di responsabilità disciplinari, fattispecie simili, o parzialmente simili, a quelle dell’art. 2, comma 3, della legge n. 117 del 1988, ove si specificano le ipotesi di colpa grave che danno appunto luogo a responsabilità civile del giudice (si veda ad esempio la “grave violazione di legge determinata da ignoranza o da negligenza inescusabile”, che ritroviamo ora quale ipotesi di illecito disciplinare all’art. 6, lettera c, n. 3 del ddl governativo). In verità, si tratta qui di una razionalizzazione della giurisprudenza della stessa sezione disciplinare, la quale, riconoscendo di non poter sindacare l’interpretazione della legge, afferma però di poter sindacare il comportamento che l’ha preceduta o accompagnata, sanzionando in essa un’eventuale negligenza inescusabile o un’ignoranza. Si è in sostanza in presenza della codificazione di orientamenti, pur cauti, già presenti nella giurisprudenza disciplinare.

Una funzione di supplenza, comunque, che ha anche contribuito, in termini assai positivi, a modificare in parte la natura della stessa responsabilità disciplinare: essa appare oggi non più solo lo strumento di tutela dei valori e dell’immagine di una corporazione “chiusa”, ma anche lo strumento attraverso il quale, almeno in parte e indirettamente, vengono tutelate le esigenze e i diritti dei cittadini, intesi come utenti del servizio-giustizia. Come bene afferma la Corte costituzionale (ancora nella sentenza n. 497 del 2000), “il regolare e corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie e il prestigio della magistratura investono il momento della concretizzazione dell’ordinamento attraverso la giurisdizione, vale a dire l’applicazione imparziale e indipendente della legge. Si tratta perciò di beni i quali, affidati alle cure del Consiglio superiore della Magistratura, non riguardano soltanto l’ordine giudiziario, riduttivamente inteso come corporazione professionale, ma appartengono alla generalità dei soggetti e, come del resto la stessa indipendenza della magistratura, costituiscono presidio dei diritti dei cittadini”.

Come esempio di una giurisprudenza disciplinare sempre più attenta alle esigenze di efficienza del servizio reso ai cittadini è possibile ricordare quella relativa alle sanzioni inflitte per il ritardo nei depositi dei provvedimenti giudiziari da parte del giudice, o quella che considera legittima la sanzione disciplinare al magistrato che redige poche sentenze, prediligendo i casi più semplici o quelli risolvibili attraverso la ripetizione seriale dei medesimi dispositivi (cfr. di recente Cass. SS. UU. civili, sentenza 20.09.2003, n. 14487).

Poste queste generiche premesse, si tratta di individuare gli elementi dai quali potrebbe dipendere un’evoluzione della responsabilità disciplinare in questa direzione, elementi che sono peraltro gli stessi potenzialmente idonei, se sviluppati in altra direzione, di determinare tutt’al contrario una conservazione degli originari caratteri della responsabilità disciplinare.

Mi pare che, a questo scopo, si possa concentrare l’attenzione su alcuni aspetti critici della disciplina e della prassi in tema di responsabilità disciplinare, valutando anche come possano incidervi le ipotesi di riforma attualmente sul tappeto. Tali aspetti riguardano: a) la natura stessa della responsabilità disciplinare, b) la questione della tipizzazione degli illeciti, c) il ruolo dell’azione disciplinare ministeriale.

Si tratta di tre aspetti fortemente collegati tra loro.

Sul primo aspetto, anche alla luce della affermazioni della Corte costituzionale appena riportate, concordo con le visioni che, sulla base di un’analisi complessiva del disegno costituzionale in tema di ordine giudiziario, affermano come la responsabilità disciplinare debba essere considerata come una responsabilità non verso l’ordine di appartenenza – una responsabilità nei confronti della corporazione, quindi – ma piuttosto come una responsabilità che il magistrato assume verso l’ordinamento generale dello Stato. Non è questa la sede per riportare gli argomenti che la dottrina ha addotto per argomentare che la responsabilità disciplinare non è lo strumento attraverso il quale l’ordine giudiziario conforma i comportamenti dell’ordine giudiziario in un’ottica corporativa (in particolare, S. Bartole, Osservazioni sulla cd. giurisdizione disciplinare giudiziaria, in Giur. cost., 1963, 1196; G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino 1997, p. 209). Conta soprattutto che, tra le conseguenze rilevanti di questa ricostruzione, vi sia quella per cui non dovrebbe spettare allo stesso Consiglio superiore della Magistratura la sostanziale individuazione degli illeciti disciplinari, in via paranormativa o pretoria. Questa affermazione presuppone che le riserve di legge di cui all’art. 105 e all’art. 108 (ed anche all’art. 107, per la parte in cui sia pertinente alla materia disciplinare, ciò che accade laddove l’illecito comporti una sanzione espulsiva o suscettibile di incidere sulla stabilità nella sede o nelle funzioni) siano riserve assolute, anche nei confronti del C.S.M. (S. Bartole, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, Padova 1964, p. 240). La ratio che accomuna tali riserve, in altre parole, dovrebbe essere non solo quella genericamente garantista, ma anche quella, ben nota, di non consentire la creazione di un apparato giudiziario separato dall’ordinamento generale dello Stato. Ne dovrebbe conseguire una chiara ripartizione di compiti: al legislatore l’individuazione degli illeciti disciplinari, al C.S.M. l’applicazione dei provvedimenti disciplinari (come prevede l’art. 105 cost.), a seguito della valutazione del comportamento del magistrato alla luce di ciò che è previsto dalla legge.

Come sappiamo, invece, la situazione è ben diversa. L’art. 18 r.d. lgs. n. 511 del 1946 prevede infatti che sia soggetto a sanzioni disciplinari “il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario”. La definizione legislativa dell’illecito disciplinare è così vaga e generica da richiedere necessariamente un’attività di “riempimento” che, allo stato, non può che essere svolta dal Consiglio superiore. Attraverso questa attività di definizione e concretizzazione degli illeciti, il C.S.M. finisce per individuare anche, in termini generali, quali obiettivi vengano perseguiti dalla responsabilità disciplinare e, in ultima analisi, attraverso un controllo sui comportamenti, quale modello di magistratura e di magistrato debba prevalere nel nostro ordinamento. Riprendendo la distinzione prima fatta fra responsabilità come soggezione ad una volontà altrui e responsabilità come sanzione, sottolineerei che il potere conformativo sull’attività giudiziaria che in tal modo viene attribuito al C.S.M. si ricollega direttamente al primo tipo di responsabilità, che è quello meno conforme alla tutela dell’indipendenza del giudice.

La Corte di Cassazione ha bensì precisato che, nella determinazione degli illeciti, la Sezione disciplinare non svolge un’attività creativa, ma un’attività ermeneutica, dovendo ogni volta interpretare sistematicamente l’art. 18 cit. con le altre norme rilevanti dell’ordinamento generale dello Stato. Però ha anche chiarito che tra queste norme trovano spazio non solo la Costituzione e le altre fonti statali, ma anche le fonti paranormative approvate dallo stesso C.S.M., nonché i precedenti della sezione disciplinare (e della stessa Cassazione: cfr Corte di cassazione, sez. un. civ., sentenza 20 novembre 1998, n. 11732, in Foro it., 1999, I, 871). Ne consegue inevitabilmente, nella giurisprudenza della sezione disciplinare, il parziale perdurare di una visione “corporativa” nella “scelta” degli illeciti da perseguire: così, ad esempio, anche di fronte all’evidente violazione di un dovere d’ufficio, accade infatti che la sanzione venga irrogata solo previa dimostrazione che la condotta del magistrato ha provocato, quale evento percepibile all’esterno, una lesione alla credibilità del singolo magistrato o al prestigio dell’ordine giudiziario. La punibilità della violazione è dunque esclusa quando da essa non scaturisca un’apprezzabile ricaduta negativa sul prestigio dell’ordine. In questa configurazione dell’illecito disciplinare come illecito di danno al prestigio dell’ordine, si mostra ancora all’opera una visione corporativa (sull’illecito disciplinare come illecito di danno di tale tipo cfr. la giurisprudenza ricordata da F. Biondi, La responsabilità del magistrato, p. 152 del paper).

A maggior ragione, allora, esiste uno stretto legame tra la qualificazione della responsabilità disciplinare come responsabilità verso l’ordinamento generale dello Stato, da una parte, e la predeterminazione per legge degli illeciti disciplinari.

Sottolineo “per legge”, perché, come vedremo, è possibile distinguere tra predeterminazione in sé e predeterminazione per legge (cfr. F. Biondi, La responsabilità dei magistrati, cit. p. 155).

Ora, la tipizzazione degli illeciti è stata spesso auspicata, in dottrina, come soluzione che potrebbe meglio garantire l’indipendenza dei giudici, e non c’è dubbio che essa impedirebbe che agli organi titolari dell’iniziativa disciplinare, nonché alla sezione disciplinare del C.S.M., finisca per essere affidato il compito di decidere, caso per caso, quali comportamenti meritino di essere sanzionati. Conoscere in anticipo gli atti e i comportamenti disciplinarmente rilevanti è una garanzia del magistrato. Inoltre, anche il controllo della Corte di Cassazione sulle decisioni della sezione disciplinare ne acquisirebbe sostanza, giacché invece, attualmente, il sindacato di legittimità sul modo in cui è applicato l’art. 18 r.d. lgs. n. 511 del 1946 – come afferma la stessa Cassazione (sez. un. civ., sent. 18 gennaio 2001, n. 5, in Foro it., 2002, 1186) – “non può prescindere (…) dal fatto che detta norma contiene, per la definizione delle condotte sanzionabili, concetti o categorie giuridici indeterminati. Non fornendo la norma, per sua intrinseca natura, elementi tassativi per la definizione delle condotte disciplinarmente illecite, il sindacato di legittimità sulla sussunzione non può non tenere conto del fatto che la categoria normativa impiegata finisce con l’attribuire al giudice di merito un compito di individuazione concreta delle condotte sanzionabili, rispetto al quale non può ammettersi una sostituzione da parte del giudice di legittimità”.

Ma, oltre a questi aspetti, insisterei sul fatto che la tipizzazione degli illeciti per legge si giustifica soltanto una volta definitivamente accettata l’idea della responsabilità disciplinare come responsabilità non corporativa, non verso l’ordine d’appartenenza. Se, al contrario, si è legati all’idea della responsabilità disciplinare come responsabilità verso l’ordine d’appartenenza, è del tutto accettabile che il potere disciplinare, solo genericamente fondato sulla legge, si dispieghi attraverso un potere di concretizzazione interamente affidato, sia agli organi titolari dell’azione disciplinare, sia – soprattutto – alla sezione disciplinare del C.S.M. Si badi che se la giustificazione della tipizzazione fosse solo la tutela della indipendenza dei giudici, con tutto quel che essa comporta in termini di prevedibilità e di certezza, ebbene anche in questo caso sarebbe sufficiente una tipizzazione interamente affidata al C.S.M., attraverso atti paranormativi o attraverso i suoi precedenti. Invece, la tipizzazione per legge degli illeciti si giustifica completamente proprio e soltanto attraverso l’idea della natura della responsabilità disciplinare come responsabilità verso l’ordinamento generale dello Stato.

Naturalmente, appartiene alla peculiarità della materia disciplinare l’impossibilità di prevedere ogni illecito, attraverso un elenco tassativo di fattispecie. Ne deriva che la tipizzazione per legge non esclude la presenza, altamente opportuna, di norme di chiusura. Già nella Relazione della Commissione presidenziale per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio superiore della Magistratura (in Giur. cost., 1991, p. 1005) si era notato che le infrazioni tipizzate, previste in elenchi di illeciti in cui figurino norme di chiusura generali, assumono un chiaro valore di clausole interpretative di queste ultime, concorrendo a chiarire quali possano essere gli ulteriori comportamenti suscettibili di sanzione disciplinare: e se ne concludeva che, anche in presenza di norme di chiusura, una certa tassatività degli illeciti viene conseguita.

Per questo aspetto, a prescindere dalle discussioni che ovviamente possono svolgersi sul contenuto di alcune fattispecie disciplinarmente rilevanti, il disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario attualmente in discussione contiene una scelta meritoria.

Nel solco delle considerazioni sin qui fatte, acquista la sua corretta dimensione anche la previsione costituzionale in base alla quale il Ministro della giustizia è titolare del potere di promuovere l’azione disciplinare. Non si tratta di un compito collegato alle funzioni che pure la stessa Costituzione attribuisce al Ministro, all’art. 110, in tema di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Si tratta invece di una statuizione coerente all’idea della responsabilità disciplinare come responsabilità verso l’ordinamento generale dello Stato. Poiché il Ministro non è espressione dell’ordine giudiziario e non può essere portatore degli interessi di questo, ne esce confermata la tesi per cui il promuovimento ministeriale dell’azione disciplinare è invece il canale attraverso il quale lo stesso ordinamento generale dello Stato è messo nelle condizioni di controllare il comportamento disciplinare dei giudici.

Si osservi che qui non dovrebbe essere questione della tradizionale diffidenza nei confronti del potere esecutivo, “nemico tradizionale dell’ordine giudiziario”: in un quadro complessivo in cui la Costituzione affidi alla legge la predeterminazione e la tipizzazione degli illeciti, non vi è allarme se l’esercizio dell’azione disciplinare sia affidato al Ministro della giustizia, il quale risponderà di fronte al Parlamento del modo in cui avrà esercitato le sue funzioni. E’ proprio la tipizzazione per legge a porsi come cruciale: se essa vi è, è evidente che il tema della responsabilità disciplinare non si esaurisce in un rapporto, tendenzialmente conflittuale, tra potere esecutivo e potere giudiziario. La tipizzazione per legge consente, da un lato, che la responsabilità disciplinare si allontani da una forma di giustizia interna e corporativa, ma anche, dall’altro lato, impedisce che sia il Ministro della giustizia ad individuare, volta per volta, in totale discrezionalità, i comportamenti disciplinarmente rilevanti.

Infine, anche la responsabilità ministeriale di fronte al Parlamento acquisterà maggiore nettezza di contorni, in presenza della tipizzazione per legge, che precostituisce le linee di azione del Ministro.

In coerenza a tale ricostruzione andrebbe inquadrata la previsione, contenuta nell’art. 14 della legge n. 195 del 1958, dell’estensione della titolarità dell’azione disciplinare anche al procuratore generale presso la Corte di Cassazione. L’unico modo coerente di leggere tale previsione è quello di ritenere che l’estensione in questione sia stata fatta in quanto il Procuratore generale è pubblico ministero presso la sezione disciplinare, non in quanto membro del C.S.M. (Cfr. ampiamente S. Bartole, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, cit., p. 173).

I problemi, naturalmente, non finiscono qui. Va detto infatti che la tipizzazione deporrebbe per la trasformazione, da facoltativa in obbligatoria, dell’azione disciplinare. Trasformazione sulla quale si è molto discusso, in passato, e che il disegno di legge-delega effettivamente realizza, ma naturalmente per la sola parte sulla quale può incidere una fonte primaria, stabilendo (art. 7, lettera c, n. 2) che nei decreti legislativi attuativi della delega si affermi che il Procuratore generale presso la Cassazione ha l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare.

Resta naturalmente ferma, stante la previsione dell’art. 107 cost., la facoltà del Ministro di promuovere l’azione, mediante richiesta d’indagini al procuratore generale. Il discorso si fa qui complesso, e c’è un problema di coerenza delle diverse tesi che sul punto si possono sostenere. La facoltatività dell’azione disciplinare ministeriale parrebbe in effetti presentarsi, nell’ambito della ricostruzione qui proposta