Primo capitolo del volume Gli antisemiti progressisti, Rizzoli 2004
Nel 1967 ero una giovane comunista, come la maggior parte dei ragazzi italiani. Stufa del mio comportamento ribelle, la mia famiglia mi mandò per alcuni mesi in un kibbutz dell’alta Galilea, Neot Mordechai. Laggiù mi sentivo piuttosto soddisfatta: il kibbutz dava ogni mese una certa somma di denaro per sostenere la lotta dei vietcong. Quando scoppiò la guerra dei Sei Giorni, Moshe Dayan parlò alla radio per darne l’annuncio. Chiesi ai miei compagni di Neot Mordechai che cosa volessero dire le sue parole. Mi risposero: «Shtuiot», sciocchezze. Durante la guerra accompagnavo i bambini nei rifugi, scavavo trincee e mi addestravo in alcune semplici operazioni di autodifesa. Continuavamo a lavorare nell’orto, ma eravamo svelti a identificare i Mig e i Mirage che si davano la caccia nel cielo sopra le alture del Golan. Quando tornai in Italia, i miei compagni di scuola non mi accolsero bene: alcuni mi guardarono come se non fossi più la stessa di prima, ma un nemico, una persona malvagia, un’imperialista in pectore. La mia vita stava per cambiare: non lo sapevo ancora, perché pensavo semplicemente che Israele avesse giustamente vinto una guerra dopo essere stato aggredito e aver subito un numero incredibile di provocazioni e attentati terroristici. Ma presto mi accorsi che avevo perso l’innocenza dell’ebreo buono, di quell’ebreo speciale costruito nella storia secondo il comune desiderio. Oramai, in quanto ebrea, ero etichettata come gli ebrei dello Stato di Israele e lentamente, ma inesorabilmente, venivo esclusa da tutta quella nobile schiera di personaggi come Bob Dylan, Woody Allen, Isaac Bashevis Singer, Philip Roth e Sigmund Freud, da quello shtetl che santificava il mio giudaismo agli occhi della sinistra. Ho cercato per molto tempo di riconquistare quella santificazione, e la sinistra ha cercato di ridarmela, perché gli ebrei e la sinistra avevano – e hanno ancora – disperatamente bisogno gli uni dell’altra. Ma ora, dopo che il nuovo antisemitismo ha calpestato qualsiasi buona intenzione, le cose si sono fatte chiare. Anche persone che, come me, negli anni Ottanta hanno firmato petizioni per il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano, sono diventate dei «fascisti inconsapevoli», come mi ha scritto un lettore in una missiva piena di insulti. In un libro sono stata anche definita «una donna appassionata, innamorata di Israele, che confonde Gerusalemme con Firenze». Un palestinese mi ha detto che, se io vedo le cose in modo così diverso dalla maggior parte della gente, significa che il mio cervello non funziona bene. Sono stata anche definita una persona crudele e insensibile, che nega i diritti umani e alla quale non importa nulla della vita dei bambini palestinesi. La ragione di questi e di molti altri insulti e critiche mi è stata spiegata da uno scrittore israeliano molto famoso. Un paio di mesi fa, mentre stavamo parlando al telefono, mi ha detto: «Sei davvero diventata una persona di destra». Cosa? Di destra? Io? Una vecchia femminista, attivista dei diritti umani, addirittura comunista in gioventù? Soltanto perché ho raccontato il conflitto arabo-israeliano nel modo più accurato che potevo e perché talvolta mi sono identificata con un Paese continuamente attaccato dal terrorismo? È un fatto davvero interessante. Perché nel mondo contemporaneo, il mondo dei diritti umani, se una persona viene definita di destra, è stato compiuto il primo passo verso la sua delegittimazione.
Ogni ebreo nato dopo l’Olocausto impara subito un messaggio molto chiaro: il male, per gli ebrei, è quasi sempre giunto dalla destra, in particolare dalla Chiesa, almeno per una buona parte della sua storia, e, naturalmente, dal nazismo e dal fascismo. L’Olocausto ha fatto ricadere il male sulla destra. E gli ebrei, essendo il simbolo vivente di quanto possa essere malvagia la destra, legittimano la sinistra per il semplice fatto di esistere. Allo stesso tempo, la sinistra ha concesso la propria benedizione agli ebrei quali vittime par excellence, alleati sempre fedeli nella lotta per i diritti dei deboli contro i più forti. Quale ricompensa per il sostegno loro offerto, come la possibilità di pubblicare libri e girare film, nonché per la reputazione di artisti, intellettuali e giudici morali che veniva loro riconosciuta, gli ebrei, persino durante le persecuzioni antisemite dell’Unione Sovietica, hanno dato alla sinistra il proprio appoggio morale, invitandola a unirsi a loro nel pianto di fronte ai monumenti dell’Olocausto. Oggi questo gioco è inequivocabilmente finito. La sinistra si è dimostrata la vera culla dell’attuale antisemitismo. Quando parlo di antisemitismo, non mi riferisco alle legittime critiche rivolte contro lo Stato di Israele, bensì all’antisemitismo puro e semplice, solo qualche volta accompagnato anche da critiche: mi riferisco alla criminalizzazione, agli stereotipi e alle menzogne specifiche o generiche, che da menzogne sugli ebrei (cospiratori, assetati di sangue, dominatori del mondo) sono diventate menzogne su Israele (Stato cospiratore e sfrenatamente violento), in modo addirittura brutale soprattutto a partire dalla seconda Intifada, nel settembre del 2000, e assumendo una ferocia sempre maggiore dall’inizio dell’operazione Chomat Magen, «Muro Difensivo», quando l’esercito israeliano è rientrato nelle città palestinesi per rispondere agli attacchi terroristici. L’idea fondamentale dell’antisemitismo, oggi come sempre, è che gli ebrei abbiano un animo perverso che li rende diversi e inadatti, in quanto popolo moralmente inferiore, a diventare membri regolari della famiglia umana. Ora questa ideologia dell’Untermensch si è estesa a Israele in quanto Stato ebraico: un’entità straniera, separata, diversa, fondamentalmente malvagia, la cui esistenza come nazione viene lentamente ma inesorabilmente svuotata di significato e privata di giustificazione. Israele, proprio come il classico ebreo cattivo, non ha, secondo l’antisemitismo contemporaneo, diritto di nascita, ma è macchiato da un «peccato originale» commesso contro i palestinesi. La sua eroica storia è stata rovesciata e trasformata in una storia di arroganza. Oggi si parla molto più di Deir Yassin che della fondazione e della difesa del kibbutz Degania; molto più delle sofferenze dei profughi palestinesi che della sorpresa di vedere, nel 1948, cinque Stati arabi e i loro eserciti irrompere nei confini stabiliti dall’Onu, negando così a Israele il diritto all’esistenza appena votato dal resto del mondo; molto più del Lechi e dell’Irgun, le più dure organizzazioni clandestine della resistenza ebraica, che dell’eroica battaglia combattuta dal Palmach sulla via di Gerusalemme. La caricatura dell’ebreo malvagio si è trasformata nella caricatura dello Stato malvagio. E ora il tradizionale ebreo col naso aquilino imbraccia un’arma e si diverte a uccidere i bambini arabi.
Sulle prime pagine dei giornali europei abbiamo visto vignette che, ripetendo i classici stereotipi antisemiti, mostrano Sharon mentre divora bambini palestinesi e i soldati israeliani impegnati a minacciare la culla di Gesù Bambino. Tutto questo nuovo antisemitismo, che si è materializzato sotto forma di una violenza fisica senza precedenti contro persone e simboli e cose, nasce nel seno di organizzazioni che si dedicano ufficialmente alla salvaguardia dei diritti umani, e ha raggiunto il proprio apice nel summit delle Nazioni Unite tenuto nell’estate del 2001 a Durban, quando l’antisemitismo è ufficialmente diventato lo stendardo della nuova religione secolare del nostro tempo, la religione dei diritti umani, dei quali Israele e gli ebrei sono stati ufficialmente dichiarati nemici. Ma gli ebrei e in generale la comunità internazionale sono stati presi del tutto di sorpresa, e non hanno saputo denunciare la nuova ondata di antisemitismo. Nessuno si scandalizza se Israele viene ogni giorno accusato, in modo pregiudiziale, di eccessiva violenza, di atrocità e di crudeltà. Ognuno è tormentato e turbato per la necessità di sferrare dolorosi attacchi contro i covi dei terroristi, spesso nascosti in mezzo a famiglie e bambini. Tuttavia, ogni Paese ha il diritto di difendersi. Nel corso della storia, soltanto agli ebrei è stato negato questo diritto, e così avviene ancora oggi. Come mai la guerra al terrorismo è spesso considerata un problema fondamentale che il mondo deve ancora risolvere (si pensi soltanto agli Usa, e alla loro guerra contro l’Afghanistan e l’Iraq o alle infinite discussioni su come affrontare le «nostre» cellule terroriste in Europa), mentre Israele viene considerato come un imputato già colpevole anche quando si impegna a scovare, catturare e – quando necessario per prevenire attentati – uccidere i terroristi? Non è forse un segno di antisemitismo mostrare apertamente di essere convinti che gli ebrei debbano morire in silenzio? Perché Israele è l’unico Stato nella storia ufficialmente accusato di violare i diritti umani da una speciale Commissione di Ginevra, mentre Cina, Libia e Sudan non sono mai stati fatti oggetto di alcuna accusa? Perché a Israele è stato negato persino un posto fisso in un gruppo regionale delle Nazioni Unite, mentre la Siria ha potuto sedere nel Consiglio di Sicurezza senza che nessuno alzi nemmeno un dito in segno di protesta? Perché tutti possono partecipare a una guerra contro l’Iraq, ma a Israele si proibisce invece di farlo, anche se è sempre stato direttamente minacciato di totale distruzione da parte di Saddam Hussein? Perché, quando Stati sovrani e organizzazioni di vario genere rivolgono minacce di morte a Israele, nessuno solleva la questione all’Onu? Si è mai vista l’Italia minacciata dalla Francia o dalla Spagna nello stesso modo in cui l’Iran o la Siria minacciano Israele, come quando gli ayatollah al potere proclamano che distruggeranno Israele con una sola bomba atomica? E chi apre mai bocca sul fatto che una gran parte dei giornali, delle televisioni, delle radio e dei libri scolastici dei Paesi arabi invitano a cacciare gli ebrei fuori da Israele e, implicitamente o esplicitamente, a ucciderli in qualsiasi parte del mondo con attentati terroristici? Nessuno nella comunità internazionale sembra considerarlo un problema. Israele è un Unterstaat, uno Stato di seconda categoria, al quale è negato il diritto fondamentale a un’esistenza onorevole e pacifica, riconosciuto invece a tutti gli altri. Lo Stato ebraico non è ritenuto uno Stato come tutti gli altri.
Questo nuovo antisemitismo ha un volto che, come quello di Medusa, pietrifica chiunque lo osservi. La gente non vuole ammetterlo e neppure nominarlo perché in questo modo si svela l’innominabile identità dei suoi sostenitori, quella di sinistra. Persino gli stessi ebrei non vogliono chiamare un antisemita con il suo vero nome, temendo di frantumare vecchie alleanze. Perché la sinistra ha una propria idea molto precisa su cosa debba essere un ebreo, e se questi non segue le sue direttive, viene immediatamente rimproverato: come osi essere un ebreo diverso da quello che ti ho ordinato di essere? Combattere il terrorismo? Eleggere Sharon? Ma sei pazzo? E qui la risposta degli ebrei e degli israeliani è stata sempre la stessa: siamo ancora molto timidi, molto desiderosi del vostro affetto. Perciò, invece di pretendere che Israele sia riconosciuto una nazione come tutte le altre e che gli ebrei diventino cittadini di pari grado in tutto il mondo, preferiamo stare al vostro fianco, persino quando tirate fuori affermazioni antisemite a centinaia. Preferiamo restare vicini a voi davanti a un monumento eretto in memoria dell’Olocausto, ascoltandovi deprecare il vecchio antisemitismo, mentre allo stesso tempo accusate Israele, e perciò – ai vostri occhi – gli ebrei, di essere dei killer razzisti. Facciamo un esempio che è diventato famoso in tutto il mondo e che risale al marzo 2003, quando Paolo Mieli fu indicato, seppur brevemente, come presidente in pectore della Rai. Un incarico di grande importanza, perché la Rai è un impero che influenza profondamente l’opinione pubblica italiana e controlla miliardi. Mieli è un cognome ebraico, e la stessa notte della sua candidatura, la sede della Rai è stata imbrattata di graffiti. Sopra l’insegna «Rai» era stata scritta la parola Raus , e attorno alla lettera «a» di Rai era stata disegnata una stella di David, trasformandone il significato da «Radio televisione italiana» in «Radio televisione israeliana». Si tratta di un esempio perfetto di ciò di cui stiamo parlando: il Raus accanto alla stella di David è un simbolo classico dell’odio nazista per gli ebrei, mentre la versione «Radio televisione israeliana», che mette Israele al centro del quadro, è una chiara dimostrazione di come Israele sia il punto focale dell’odio antisemita di sinistra. Sorprendentemente, o forse prevedibilmente, una così sfacciata manifestazione di antisemitismo ha suscitato pochissime reazioni, sia da parte delle autorità italiane, sia da parte della comunità ebraica italiana.
Un gruppo di docenti della prestigiosa Università Ca’ Foscari di Venezia ha sottoscritto una petizione per boicottare gli scambi scientifici con gli atenei, i professori e i ricercatori israeliani. Il testo di questa petizione è intellettualmente miserabile, ma del tutto irrilevante; tuttavia le reazioni che ha suscitato nella comunità ebraica italiana sono molto interessanti. Un suo autorevole membro, quando gli è stata chiesta la sua opinione, ha detto: «Stanno facendo un grosso errore. Questi professori non si accorgono che, con il loro boicottaggio, stanno dando una mano alla politica di Sharon». Una reazione così assurda è la prova tangibile dell’incapacità, all’interno del mondo ebraico, di comprendere questo genere totalmente nuovo di antisemitismo, che ha come suo obiettivo principale lo Stato di Israele. Un altro esempio ancora è offerto da una lettera di un altro gruppo di professori dell’Università di Bologna, indirizzata ai «loro amici ebrei» e pubblicata con un altissimo numero di firme a sottoscrizione. Eccone un passaggio: «Abbiamo sempre considerato il popolo ebraico come un popolo intelligente, sensibile, forte, forse, più di tanti altri perché selezionato nella sofferenza e nelle persecuzioni, nelle umiliazioni subite per secoli, nei pogrom e, per ultimo, nei campi di sterminio nazisti. Abbiamo avuto compagni di scuola e amici ebrei, colleghi di lavoro da noi stimati, e anche allievi israeliani a cui abbiamo trasmesso i nostri insegnamenti portandoli alla laurea, e che oggi esercitano la loro professione in Israele. Siamo spinti a scrivervi perché sentiamo purtroppo che la nostra stima e il nostro affetto per voi, per il popolo ebraico, si sta trasformando in dolorosa rabbia… Tante altre persone, dentro e fuori la nostra università, che hanno stima per il vostro popolo oggi provano i nostri stessi sentimenti. È necessario che vi rendiate conto che oggi state facendo ai palestinesi quello che a voi è stato fatto nei secoli passati… Possibile che non vi accorgiate che state fomentando contro voi stessi un odio immenso?». Questa lettera è un perfetto riassunto di tutte le caratteristiche del nuovo antisemitismo. C’è la definizione presionista del popolo ebraico come di un popolo che soffre, anzi che deve soffrire per sua stessa natura; un popolo destinato a sopportare le più terribili persecuzioni senza nemmeno alzare un dito e che, perciò, è degno di compassione e solidarietà. È ovvio che uno Stato di Israele solido, democratico, militarmente forte ed economicamente prospero è l’antitesi di questo stereotipo. Il «nuovo ebreo», che cerca di non soffrire e che, soprattutto, può e vuole difendersi, perde immediatamente tutto il suo fascino agli occhi degli intellettuali di sinistra.
Ma fino a quando la mappa del Medio Oriente non venne colorata di rosso dalla guerra fredda e Israele non fu dichiarato la longa manus dell’imperialismo americano, la situazione era diversa. Il nuovo Stato di Israele, fino alla guerra del 1967, era costruito sulla base di un’ideologia che permetteva o addirittura obbligava la sinistra a essere orgogliosa degli ebrei e gli ebrei a esserlo della sinistra, anche quando gli israeliani combattevano e vincevano aspre guerre. Coloro che erano sopravvissuti alla persecuzione nazifascista, la persecuzione della destra, avevano fondato uno Stato socialista ispirato ai valori della sinistra, il lavoro e il collettivismo, e in questo modo avevano nuovamente santificato la sinistra come rifugio naturale di tutte le vittime. In cambio, agli ebrei fu garantita la legittimazione. Ma, di fatto, gli ebrei erano straordinariamente importanti per la sinistra. Il popolo israeliano era un’accusa vivente contro l’antisemitismo che aveva scatenato la Shoah, l’antisemitismo nazifascista; e ora stava addirittura costruendo fattorie collettive e dando vita a un sindacato onnipotente! Questo, per certi aspetti, fece assolvere l’antisemitismo stalinista, o perlomeno gli attribuì un’importanza minore di quella che ebbe realmente. Gli ebrei divennero indispensabili alla sinistra: osservate il tono paternalistico e pieno di compassione dei professori bolognesi: «Per favore, cari amici ebrei, tornate indietro. Mettetevi di nuovo insieme a noi. Malediciamo insieme Israele e celebriamo il Giorno della Memoria». Ma la contraddizione è diventata persino ontologicamente insopportabile: infatti, come si può piangere insieme ai sopravvissuti per l’eccidio nazista degli ebrei, quando gli ebrei di oggi sono accusati di essere loro stessi dei nazisti? In un programma radiofonico trasmesso in Europa, qualcuno ha detto che, dopo la diffusione delle immagini di Muhammad Al Dura che muore tra le braccia del padre (secondo i palestinesi per il fuoco israeliano, ma in realtà in uno scontro perlomeno dubbio), l’Europa ha potuto finalmente dimenticare la famosa fotografia del ragazzino con le mani in alto nel ghetto di Varsavia. Il significato di quest’affermazione, spesso ripetuta in altre forme, è la cancellazione della memoria dell’Olocausto per mezzo di un’identificazione tra Israele e il nazismo, vale a dire con il razzismo, il genocidio, la crudele eliminazione dei civili, delle donne e dei bambini, con un’esplosione assolutamente ingiustificata di violenza e degli istinti più bassi e brutali. Significa credere ciecamente, senza fare alcuna indagine, alla versione palestinese di un episodio molto controverso, così come di molti altri fatti. Significa dare per scontate le «atrocità» di cui parlano sempre i portavoce palestinesi, e ignorare qualsiasi prova concreta contro la loro versione dei fatti. Così è accaduto con Muhammad Al Dura, poi con Jenin e con centinaia di episodi. Certo, la gente può prendere come oro colato i pregiudizi sugli ebrei, e lo ha sempre fatto: ognuno è libero di pensare ciò che vuole. Ma noi ebrei – se mi si permette di identificarmi per un momento con la mia indignazione – dobbiamo semplicemente riservarci il diritto morale di considerare responsabile delle sue parole chi la pensa in quel modo; ai nostri occhi, questa persona è, d’ora in poi, soltanto un autentico antisemita. Perciò gli dovremo dire: se tu menti, o se ricorri a pregiudizi e stereotipi parlando di Israele, sei un antisemita e noi ti combatteremo. Non dobbiamo farci intimidire dai professori che, tra le righe della loro lettera, ci dicono: «Vi abbiamo aiutato, voi poveri ebrei, privi di tutto, un popolo senza nazione, a rimanere in vita durante la diaspora e la fondazione di Israele. Senza di noi non siete nulla. Perciò state attenti: se persistete nel vostro tradimento vi annienteremo. Se non sapete qual è il vostro posto non esistete; e il vostro posto non è da nessuna parte». Sostengono che la loro sia una legittima critica allo Stato di Israele; ma la verità è che buona parte di queste critiche sono soltanto menzogne, come quando Suha Arafat ha affermato che gli israeliani avevano avvelenato le acque palestinesi, o quando lo stesso Yasser Arafat ha detto che Israele impiegava uranio impoverito contro il popolo palestinese, e che le donne-soldato israeliane si mostravano nude davanti ai guerriglieri palestinesi per confonderli. Lo stesso vale quando si dice che l’esercito israeliano spara deliberatamente contro i bambini o i giornalisti.
Essendo una giornalista, non posso passare sotto silenzio il grande aiuto dato dai mass media a questo nuovo antisemitismo. Fin dall’inizio dell’Intifada noi, giornalisti «combattenti per la libertà» cresciuti nel mito dei campi di Che Guevara e dei fedayin, abbiamo dato del conflitto israelo-palestinese un resoconto che è senza dubbio il più sbilanciato e prevenuto che si sia mai letto in tutta la storia del giornalismo. Ecco i principali fattori che rendono distorta l’informazione sull’Intifada:
- La mancanza di profondità storica nell’attribuzione delle responsabilità del suo scoppio: in altre parole, l’incapacità di raccontare in modo adeguato la storia dell’offerta israeliana di uno Stato palestinese da Oslo, 1993, a Camp David e Taba, 2000, e del rifiuto di Arafat che, in sostanza, non è altro che il rifiuto di accettare l’esistenza di Israele come Stato ebraico, e si inserisce nella scia di settant’anni di rifiuti arabi alla ripartizione del territorio di Israele tra arabi ed ebrei, come consigliato dagli inglesi nel 1936, come deciso dalle Nazioni Unite nel 1947 e come sempre accettato dai rappresentanti sionisti.
- L’incapacità, fin dai primi scontri ai check point, di stabilire la responsabilità delle morti in conseguenza del fatto che, a differenza della prima Intifada, nella seconda l’esercito israeliano ha dovuto affrontare combattenti armati nascosti in mezzo a una folla disarmata: le armi erano state consegnate ad Arafat dagli israeliani stessi in seguito agli accordi di Oslo.
- L’incapacità di riconoscere l’enorme influenza delle pressioni culturali esercitate sui palestinesi, a partire dal sistematico indottrinamento condotto dalle scuole e dai mass media palestinesi, con lo scopo di denigrare gli ebrei e gli israeliani e di idealizzare i più brutali atti terroristici.
- La descrizione della morte dei bambini palestinesi in chiave giustamente tragica, tuttavia senza soffermarsi in alcun modo sulle circostanze in cui essa avviene. Spesso i bambini palestinesi muoiono perché usati essi stessi come terroristi, come scout per individuare i punti deboli delle postazioni israeliane, o come scudi umani in operazioni di guerra.
- L’equiparazione tra le vittime civili israeliane e palestinesi, come se il terrorismo e la guerra che lo combatte fossero la stessa cosa, e come se le uccisioni mirate di capi della Jihad Islamica o di Hamas equivalessero alle stragi di civili sugli autobus.
- L’uso quasi esclusivo o privilegiato delle fonti palestinesi per verificare la realtà dei fatti, come se le fonti palestinesi fossero le più affidabili. Invece sono fonti controllate da un potere autoritario, e quindi raramente attendibili. Sto pensando alla presa di Jenin nell’aprile 2002, ai resoconti non confermati di episodi che sono passati sulla carta stampata o alla televisione come verità assoluta. Al contrario, le fonti israeliane sono molto spesso affidabili per la presenza nel Paese di un giornalismo aggressivo, libero e aperto, nonché per l’altrettanto determinata battaglia contro le politiche del governo combattuta dai partiti d’opposizione, dagli obiettori di coscienza, dai commentatori televisivi e dai giornalisti. Invece queste fonti sono considerate servili, piene di pregiudizi e non degne di attenzione.
- La manipolazione dell’ordine in cui vengono date le notizie e la manipolazione delle stesse notizie. I titoli forniscono il numero dei palestinesi uccisi o feriti e la maggior parte degli articoli, almeno in Europa, prima di raccontare gli scontri a fuoco e le loro cause, si dilungano sull’età e la storia famigliare dei terroristi. Le motivazioni e gli scopi delle azioni condotte dall’esercito israeliano, come quella di catturare i terroristi, distruggere le fabbriche d’armi, i nascondigli e le basi d’attacco contro Israele, sono raramente menzionati. Al contrario, le operazioni israeliane sono spesso presentate come del tutto superflue, strane, crudeli e inutili; molte volte il numero dei feriti e perfino dei caduti israeliani viene passato sotto silenzio.
- La manipolazione del linguaggio, sfruttando il vantaggio della grande confusione che regna circa la definizione dei concetti di «terrorismo» e «terrorista». Anche questa è una vecchia questione, legata alla nozione di combattente per la libertà, così cara alla mia generazione. Tempo fa, stavo facendo alcune interviste presso un check point. Mi è stato presto chiaro che l’uso della parola «terrorista» suonava nelle orecchie di tutti i miei interlocutori palestinesi come un peccato politico e semantico di capitale gravità. La stampa lo sa benissimo: l’occupazione è la causa di tutto, il terrorismo è chiamato resistenza e, in se stesso, non esiste affatto. I terroristi che uccidono donne e bambini sono chiamati militanti o combattenti. Un atto di terrorismo è spesso definito uno «scontro a fuoco», anche quando si tratta soltanto di bambini e vecchie signore freddate a colpi di mitra dentro la loro macchina su un’autostrada. È pure interessante notare che un giovane shahid è motivo di profondo orgoglio per la lotta palestinese, ma se domandate come si fa a mandare a morire un bambino di dodici anni o per quale motivo questi ragazzini vengono indottrinati a compiere simili atti, la risposta è: «Ma andiamo, un bambino non può essere un terrorista. Come può un ragazzino di dodici anni essere un terrorista?». Questo è probabilmente il punto fondamentale: dato che è in atto un dibattito infuocato sulla definizione di terrorismo, si accetta comunemente che il terrorismo sia un modo di combattere. Questo è un regalo semantico e anche materiale di cui siamo debitori al nuovo antisemitismo, secondo il quale il fatto che un ebreo sia morto è naturale. Detto più precisamente: la scelta intenzionale di colpire obiettivi civili allo scopo di innescare la paura e distruggere il morale del nemico non viene considerato un peccato morale quando viene esercitata contro Israele. Non scatena l’indignazione del mondo e, anche quando lo fa, nasconde tra le sue pieghe una certa simpatia per gli aggressori terroristi. Ciò che la stampa europea non riesce a capire, o non vuole, è che il terrorismo è un mezzo di combattimento da condannare e da proibire, indipendentemente dagli specifici obiettivi politici che cerca di realizzare. Ma non è solo la parola «terrorismo» che è diventata controversa: anche «colonialismo», «apartheid», «aggressione», «atrocità», un intero vocabolario è stato reinventato per descrivere il conflitto.
- I media hanno diffuso il davvero stravagante concetto che i coloni, donne e bambini compresi, non siano veri e propri esseri umani. Sono presentati come pedine in un gioco pericoloso, al quale hanno volontariamente scelto di partecipare. La loro morte è un fatto naturale e del tutto logico. In un certo senso, se la sono voluta anche quando sono bambini di due anni. Ultimamente, per una madre incinta e i suoi quattro piccoli ho sentito parlare di «cinque coloni uccisi a Gaza». Al contrario, quando viene ucciso un comandante di Hamas, sebbene pure lui, ovviamente, «se la sia voluta», si apre un dibattito morale e filosofico per condannare la perfidia con cui si eseguono sommarie condanne a morte. Sarebbe un dibattito certamente legittimo, se non fosse per uno scandaloso uso dei due pesi e delle due misure da parte della stampa mondiale.
- In fine, non bisogna dimenticare che non si parla quasi mai dell’eliminazione fisica, della censura, della corruzione e della persecuzione politica del dissenso interno che regnano in seno all’Autorità palestinese, così come dell’eliminazione fisica dei suoi nemici politici.
Tutto ciò di cui abbiamo parlato finora ci porta direttamente a un nome che rappresenta la svolta concettuale dominante per giustificare il nuovo antisemitismo: Durban. È stato qui che i movimenti per i diritti umani, gli stessi che sono poi scesi nelle strade per manifestare contro la guerra in Iraq, hanno scelto Israele come nemico e obiettivo principale. Questa scelta rappresenta un grande successo per la propaganda palestinese, ma anche un grave segnale di debolezza da parte di questi stessi movimenti, una sinistra ideologicamente e politicamente alle corde, che ha scelto di adottare come simbolo universale una battaglia molto specifica e controversa, pesantemente contrassegnata dal terrorismo. Una sinistra che invece di affrontare il sistema di globalizzazione capitalistico, prende come suo principale obiettivo lo Stato di Israele. In parole povere, la sinistra, soprattutto quella no global, ha deciso vilmente di far pagare soprattutto a Israele ciò che a suo giudizio dovrebbe pagare l’America. È più facile: è lo Stato degli ebrei.
Sulla scia della menzogna le Nazioni Unite, con la loro scandalosa politica, hanno contribuito a questo sviluppo, e l’Europa lo ha alimentato a causa del suo antico senso di colpa nei confronti di Israele e del suo odio per gli Stati Uniti. Denunciare questo nuovo antisemitismo dei diritti umani è un compito psicologicamente difficilissimo per Israele e per gli ebrei della diaspora. E lo è tanto di più perché quello tra gli ebrei e la sinistra è un divorzio che quest’ultima non desidera affatto. La sinistra vuole continuare a essere considerata come la paladina dei buoni ebrei. Pretende di piangere per gli ebrei uccisi nella Shoah, spalla a spalla con gli ebrei di oggi. E lo fa conquistandosi così l’autorizzazione morale per parlare delle «atrocità» di Israele. Infatti, dopo aver scritto qualche saggio sulle «atrocità» commesse da Israele, l’intellettuale di sinistra europeo tornerà indietro e ti parlerà con passione dell’affascinante cultura dello shtetl e della prelibatezza della cucina degli ebrei del Marocco. Fino a quando non romperemo il silenzio, noi ebrei daremo alla sinistra così l’autorizzazione di negare il nostro diritto ad avere una nazione, come ogni altro popolo, e a difenderci come popolo da un antisemitismo senza precedenti. Proprio nello stesso momento in cui emargina Israele, la sinistra dei diritti umani, del pacifismo, della protesta contro la pena di morte, la guerra e le discriminazioni razziali o sessuali, elogia anche i terroristi suicidi e si compiace per caricature di Sharon degne dello Stürmer. Ma nessuno dei suoi esponenti verrà mai in Israele per fare lo scudo umano seduto in un bar o a bordo di un bus, mentre a frotte caleranno sulla Muqata per difendere Arafat da ogni pericolo, anche dopo che il suo coinvolgimento con il terrorismo è stato documentato da prove inoppugnabili.
Tuttavia, questo nuovo antisemitismo ha una caratteristica singolare: si supera con la conversione dell’ebreo. In altre parole, questo tipo di antisemitismo, a differenza dell’antisemitismo nazista ma analogamente all’antisemitismo teologico, offre la possibilità di rinunciare al diavolo (ossia Israele, o talvolta Sharon). Chiunque proclami la sua indignata condanna del comportamento di Israele può rimettere piede nella cosiddetta società civile, quella del senso comune e del corretto sentire, delle conversazioni amichevoli, dei gruppi di persone oneste, piene di buona volontà, che combattono in nome dei diritti umani.
Se vogliamo ottenere qualcosa, se decidiamo che è giunto il momento di combattere, dobbiamo sbarazzarci delle imposture e degli inganni del politicamente corretto. Dobbiamo saper dire che la libera stampa fallisce la sua missione quando mente, e che ora sta effettivamente mentendo. Dobbiamo dire che tutti i diritti umani sono violati quando a un qualsiasi popolo è negato il diritto all’autodifesa, e che questo diritto a Israele viene effettivamente negato. I diritti umani sono calpestati anche quando una nazione viene sottoposta alla diffamazione sistematica e resa automaticamente un obiettivo legittimo per i terroristi e per quanti altri vogliano destinarla al genocidio e alla sparizione. Non dobbiamo più accettare ciò che abbiamo accettato fin dal giorno in cui è nato lo Stato d’Israele, vale a dire che esso debba essere considerato come uno Stato diverso e a sé stante all’interno della comunità internazionale.
La confusione tra «israeliano» ed «ebreo» non riguarda il nuovo antisemitismo. Apparentemente, è sbagliato insinuare che gli ebrei agiscano nell’interesse dello Stato d’Israele e non in quello dello Stato in cui vivono. Più un Paese confonde i due termini, più è considerato antisemita, e quindi ci si immaginerebbe che gli ebrei debbano combattere questo pregiudizio. Ma è un grave errore. Poiché lo Stato d’Israele, e insieme a esso tutti gli ebrei, sono stati vittime del peggior genere di pregiudizi, gli ebrei dovrebbero considerare apertamente il loro essere scambiati con Israele come un prestigio e un onore. Dovrebbero dichiarare con orgoglio questa identificazione. Se è vero che Israele è l’obiettivo principale degli attacchi antisemiti, è proprio qui che dobbiamo concentrare la nostra difesa. Dobbiamo giudicare il carattere morale della persona con la quale stiamo parlando in base a questo test: se menti su Israele, se lo ricopri di pregiudizi, sei un antisemita. Se sei prevenuto nei confronti di Israele, lo sei nei confronti degli ebrei. Naturalmente questo non significa che sia proibito criticare Israele e le sue politiche. Il fatto è che ben poco di quello che si sente dire su Israele ha alcunché a che fare con una lucida critica; tanto più se viene dagli intellettuali israeliani stessi, mossi dall’avversione contro Sharon, dalla facile fama internazionale di dissidenti che in tal modo si conquistano, e da interessi pratici o politici di carattere personale. Pregiudizi e partiti presi, e non la figura di Sharon, sono la ragione principale delle critiche. Perciò dobbiamo dire loro: da ora in poi non potete più usare liberamente il lasciapassare dei diritti umani; non potete più sfruttare falsi stereotipi. Dovete dimostrare concretamente quello che affermate: che l’esercito assalta senza pietà poveri villaggi arabi che non hanno niente a che fare con il terrorismo; che uccide di proposito i bambini, e che si diverte a far fuori i giornalisti. Non ci riuscite? Siete quelli che hanno definito gli eventi di Jenin un massacro? Allora siete degli antisemiti, carichi di pregiudizi proprio come i vecchi antisemiti che credete di odiare. Dovete ancora convincerci di non essere antisemiti, ora che sappiamo che non condannate il terrorismo, e che non avete mai detto una parola contro le caricature degli ebrei dal naso ricurvo, con una borsa piena di dollari in una mano e una mitragliatrice nell’altra.
Israele è rimasto scioccato dalla nuova ondata di antisemitismo. Tutte le teorie secondo le quali l’antisemitismo classico sarebbe diminuito con la creazione di Israele, e infine scomparso del tutto, sono state smentite. Per di più, Israele è diventato, di fatto, la somma di tutto il male, la prova che i Protocolli dei Savi di Sion avevano ragione e che le accuse di omicidio rituale dei bambini erano vere. I palestinesi sono stati trasformati in un nuovo Gesù messo in croce, e la guerra mossa dagli Usa in Iraq o in Afghanistan è ritenuta parte di un piano ebraico di predominio. In tutto il mondo gli ebrei vengono minacciati, picchiati, perfino uccisi per far loro scontare il fio dell’esistenza di Israele.
Oggi, Israele e gli ebrei hanno una sola certezza: ora che hanno i loro mezzi di difesa, una nuova Shoah non è più possibile. Eppure dobbiamo ancora passare dall’idea della nostra possibile eliminazione fisica a quella di una possibile eliminazione morale. Il solo modo di fronteggiare questa minaccia è combattere strenuamente, sul nostro terreno, ricorrendo a tutte le armi storiche ed etiche che Israele possiede. Senza vergogna, né timore, né sensi di colpa. Israele ha l’opportunità di dimostrare di essere ciò che effettivamente è: l’avamposto della lotta contro il terrorismo e della difesa della democrazia. Non è cosa da poco. E invece noi ebrei ci atteggiamo a vittime e indietreggiamo da questa opportunità perché farvi ricorso ci mette in conflitto con i nostri antichi sostenitori e con la nostra legittimazione da parte loro. Dobbiamo renderci conto che tale legittimazione è in realtà nelle nostre mani ma non l’abbiamo mai usata.
La parola d’ordine degli ebrei dovrebbe essere «orgoglio ebraico», nel senso dell’orgoglio per la nostra storia e identità nazionale, ovunque ci troviamo.Orgoglio ebraico significa che dobbiamo rivendicare l’identità unitaria del popolo ebraico e il suo diritto di esistere. Dobbiamo agire come se esso non fosse mai stato riconosciuto, perché oggi, ancora una volta, non viene riconosciuto. Nel difendere questa identità dobbiamo essere, come dice Hillel Halkin, duri quanto possibile e liberali come nessun altro.
Non c’è destra. Non c’è sinistra. Non concederemo alla sinistra il potere di decidere dove dobbiamo stare. Saremo noi stessi a decidere le nostre alleanze secondo le autentiche posizioni dei nostri potenziali partner.